Abbiamo bisogno di altra architettura

UCTAT Newsletter n.76 – marzo 2025

di Andrea Bosio

Brevi riflessioni sullo stato delle cose

“Solo chi crede alla pervasività del mercato e affida al mercato la soluzione di tutti i problemi della convivenza civile può credere che la via della globalizzazione sia una sola, quella della mercatizzazione totale dei rapporti umani.”(1) Questa citazione del saggio di Norberto Bobbio Destra e sinistra (1994) si rivela drammaticamente attuale quando osserviamo come la società contemporanea stia sempre identificandosi in un modello liberista, anche nel concepire i rapporti interrelazionali. L’architettura, malinconicamente, sta abbracciando sempre più logiche economiche e di potere che antepongono il profitto alla qualità e al valore etico del progetto architettonico. Questa deriva trova espressione in trasformazioni urbane come quelle in atto a Milano dove, come denuncia Francesco Manacorda in un recente articolo pubblicato dal quotidiano La Repubblica, “la grande macchina dell’edilizia ha enfatizzato le disuguaglianze e gentrificato interi quartieri.”(5) Una trasformazione che comporta la densificazione di ambiti che vedono incrementare il loro valore senza che nessuno sia interessato a fare i conti con le ricadute che tale processo provoca sulla popolazione residente.

Questo  modello urbanistico, tuttavia, non costituisce l’unica causa dei problemi della città contemporanea, ma si afferma contemporaneamente, talvolta in simbiosi con essi, ai nuovi modelli pseudo culturali della società, con il risultato di moltiplicarne gli effetti negativi. Se ci soffermiamo ad analizzare i progetti di spazio domestico, osserviamo come gli alloggi dei nuovi complessi residenziali siano immaginati, nel disegno di spazi sempre più risicati, per rispecchiare un modello liquido di società che concepisce l’abitare sempre più come aspetto secondario di una vita condotta tra lavoro, studio, e possibilmente vacanze. Accade che mentre la casa si riduce, per una parte sempre più ampia della popolazione attiva della metropoli, a mero simbolo di status sociale, anche lo spazio pubblico perde il proprio valore di palcoscenico per una folla che Baudelaire descriveva come una “comunione universale”, adesso scomparsa e sostituita da un individualismo che filtra il rapporto con la moltitudine aggrappandosi al salvagente dello smartphone.

D’altro canto questa condizione è frutto di una rivoluzione nei rapporti di lavoro che costringono sempre più le persone a contrattare singolarmente e non come gruppo. Le condizioni di un lavoro sempre condizionato da logiche individualiste di competitività e utilitarismo assoggettano una mobilità sul territorio che, positiva quando libera scelta di vita, diventa causa di ulteriore logoramento fisico e spirituale tale da ridurre ad aspetto poco significativo il rapporto con lo spazio privato dell’abitazione e, tantomeno, con lo spazio pubblico.

In una Milano che vede quotidianamente messo in discussione il proprio modello di crescita, è possibile individuare con sicurezza due cause dell’inasprirsi delle tensioni sociali. La prima di esse è costituita dalla resa ai cartelli immobiliari con la consegna a essi  del governo della trasformazione della città ignorando, o fingendo d’ignorare, come obiettivo di questi soggetti fosse il massimo profitto economico e non un ragionevole progetto di sviluppo, irrinunciabile anche nel quadro di una economia fortemente connotata da spinte liberiste. Con il risultato di

negare il diritto a una abitazione a costo sostenibile proprio a quella popolazione laboriosa che assicura il funzionamento della città, nei suoi servizi pubblici e privati.

Un altro aspetto, questa volta non direttamente imputabile agli amministratori della città, è costituito dall’affermazione, probabilmente definitiva, della tecnologia digitale liquida, quella dei social media che ha trasferito dal territorio fisico allo spazio di internet la discussione sui temi urbani cosicché l’unità di vicinato non è più quella del quartiere bensì quella della chat (o delle chat, e allora le unità di vicinato cui una persona appartiene aumentano e con esse le complicazioni) così da incanalare su più interessanti sentieri virtuali che offrono la certezza, o l’illusione, di appartenere a un gruppo capace d’influenzare le decisioni e di condividere un modello culturale. In definitiva, di essere signori nel proprio territorio senza l’obbligo di praticarlo fisicamente.

É dunque improrogabile affrontare con decisione, attraverso una riflessione culturale e il l’avvio di conseguenti pratiche di governo un tema così fondamentale da dare nome alla Scuola di Architetettura  del Politecnico di Milano, quello storico del rapporto tra architettura e società

Digitale vs Architettura

Consideriamo dunque il modo in cui la tecnologia digitale si relaziona con la realtà architettonica e urbanistica Milanese. Milano in questo senso è una città che fa della sua visibilità un punto di attrattività, per usare una parola cara alla corrente amministrazione, ma che viene a sua volta spesso  usata opportunisticamente dagli utenti digitali per aumentare la loro visibilità, utilizzando tanto le narrazioni positive quanto quelle negative della città. Si passa dunque dalle pagine Instagram che sfoggiano uno stile di vita edonistico a quelle di denuncia dell’aumento del costo della vita. Aspetto ancora più interessante è che l’amministrazione stessa, da qualche anno, ha intrapreso una sorta di strategia di marketing piuttosto aggressiva attraverso canali digitali ufficiali come il sito YesMilano, offrendo visibilità a iniziative locali di quartiere che vengono elevate a fenomeni culturali di comunità e che attraverso l’azione del Comune sono diventati dei brand, come nel caso di NoLo o del quartiere rainbow di Porta Venezia.

Pratica comune nella nostra società digitale è l’utilizzo di una certa realtà per una sua narrazione o manipolazione virtuale che viene poi consumata, digerita e riprodotta nuovamente da più fonti in un processo ciclico. La foto digitale, come hanno cominciato a sostenere anche le BigTech, è diventata una “memoria” personale, e come tale, modificabile nella sua non oggettività.(6) Attraverso questo processo ciclico, tuttavia, sembra perdere di senso non solo la fisicità della realtà fotografata all’origine, ma soprattutto l’identità e l’autenticità propria della sua fisicità. E dunque è oggi assai comune che blog e piattaforme online di architettura -come ad esempio Archdaily o il seguitissimo Urbanfile -, rappresentino, con gli immancabili e onnipresenti commenti degli utenti, non necessariamente addetti ai lavori o comunque esperti della materia, una cassa di risonanza che riflette, riproduce, distorce, qualche volta informa, e in ogni caso comunica più velocemente degli strumenti tradizionali e “ufficiali” come i giornali cartacei, le riviste di settore, le conferenze professionali. L’ambiguità dello strumento di comunicazione digitale e la sua sempre crescente importanza nell’influenzare la costruzione materica della città porta a pensare alla creazione di una nuova realtà ibrida, a metà tra il fisico e l’immateriale, abitata da attori che non corrispondono necessariamente a figure accreditate da un titolo professionale.

La complessa e nuova comunicazione tra i “vecchi” strumenti di informazione e i nuovi strumenti digitali partecipativi porta a volte a parlare dell’oggetto di discussione attraverso l’immagine riflessa piuttosto che a concentrarsi sull’immagine dell’oggetto stesso. Un articolo di Massimiliano Tonelli sulla rivista online Artribune è in questo senso interessante perché ribalta la tradizionale modalità di critica architettonica ad un progetto partendo dal contestare i commenti negativi che molti utenti di piattaforme di social media hanno espresso al riguardo.(7) Nel concentrarsi sull’architettura degli edifici del nuovo Villaggio Olimpico di Milano che sta sorgendo all’interno dello Scalo Romana, Tonelli taccia di superficialità i commenti che ha letto, accusandoli di esprimersi su un progetto non ancora teminato e tanto meno sottoposto al test dei suoi fruitori.

Pur lodando i progettisti, l’autore ammette che, rispetto ai render presentati, nella realtà le palazzine grigie scompaiano “in un monocromo di mestizia.” E nel rimanere ammaliato dell’ampia vegetazione anche verticale presente nelle immagini del tutto fantasiose dei render, peraltro modificati più volte nel corso degli ultimi anni, l’autore prende ad esempio la sua personale esperienza domestica nell’aver osservato come un semplice rampicante abbia abbellito la ringhiera del suo ballatoio condominiale. Il pensiero dell’autore sembra così abbandonare un atteggiamento professionale, che avrebbe potuto interrogarsi se tali elementi rappresentino uno strumento tanto furbo quanto inflazionato di decorazione e camouflage, per elevare invece un’osservazione personale a giudizio universale.

L’architettura della città sembra dunque essere stata trasformata da rappresentazione materiale di una simbologia relazionale e comunicativa a simulacro  di nuovi simboli  effimeri generati dall’universalizzazione della propria esperienza individuale.(8) La subordinazione del giudizio estetico sul progetto al consenso pubblico e alla sua fortuna economica svincola il progetto di architettura dalle regole del  trinomio vitruviano dell’ utilitas, della firmitas e della venustas sui quali si è fondato nel corso dei secoli per consegnarlo, invece, unicamente al campo dell’immagine. Ne discende che tutto questo determina la perdita del carattere civile  e politico che dovrebbe essere insito nella natura del progetto.

Se l’architettura si riduce a render da postare su Instagram tra commenti e hashtags, essa diventa oggetto del consumo di un pubblico (pagante) che non interagisce, e di conseguenza essa perde di vista l’Altro,  sia esso il soggetto cui il progetto è destinato, siano essi i contesti in cui si colloca. Il risultato è quello di una città che non necessita di essere esplorata  e scoperta  percorrendone le strade come il flaneur di Baudelaire ma che si introita attraverso la sua  immagine virtuale. E poco importa se la soddisfazione dei desideri e dei bisogni è anch’essa virtuale e quasi sempre non coincide con la realtà fisica con cui si è, prima o poi, costretti a fare i conti.

Architettura e Altro

L’architettura si è sempre espressa per categorie affermative tanto da classificare i luoghi di cui non riusciamo a intendere appieno il carattere come entità negative, definendoli non luoghi, secondo lo stesso principio con il quale sono state classificate componenti sociali giudicate al di fuori della norma, per ruolo, genere, orientamento sessuale, appartenenza a minoranze o non rientranti nel concetto di abilismo.

Difficile è accettare l’Altro, perché diverso o perché non riconducibile a categorie pre-elaborate e assunte a norma. Operazione ancora più difficile è quella di identificarsi come Altro, e di riconoscersi in una realtà fatta di alterità. Il filosofo francese Emmanuel Lévinas, che ha dedicato gran parte del suo pensiero al concetto di Altro e di Alterità,  ci fornisce alcuni spunti di riflessione. Lévinas distingue la singolarità corporea, fatta di separazioni, distinzioni e cancellazioni, dal soggetto e dalla narrazione che costruisce la sua identità, l’immagine da esibire e la parte da recitare per essere riconosciuto.(4) Per Lévinas dunque non è l’identità della singolarità a costruire le relazioni, ma è la corporeità, poiché è il corpo, e la sua mortalità, a darci la sensazione della possibilità dell’alterità rispetto al volere e al potere altrui, rispetto ad altri progetti, ad altre vite, e soprattutto all’alterità più alta, la morte, incontrata “nel volto altrui.” E dunque è questo rispecchiamento corporeo che trascende l’inevitabile asimmetria identitaria data dalla soggettività diversa per ogni individuo per trasformare la cura e la preoccupazione per la propria morte in cura e preoccupazione per la morte altrui, costruendo dunque un senso di responsabilità comune, per il proprio e per l’altrui corpo.

Il filosofo francese Michel Foucault ci propone, invece, di affrontare la questione partendo da un assunto fondato sul principio del libero arbitrio, diverso e nello stesso tempo complementare. Un assunto che sostiene che il senso di responsabilità sociale è il prodotto di una scelta non automatica, che l’individuo o il gruppo esercita in virtù della propria libertà di prendere posizione rispetto a ciò che la società gli sottopone. In un’intervista riportata nel saggio Altri spazi: i luoghi delle eterotopie, egli sostiene, alla domanda se l’architettura possa risolvere da sé i problemi sociali, che “l’architettura può produrre, e produce, degli effetti positivi allorquando le intenzioni liberatorie dell’architettura coincidono con la pratica reale delle persone nell’esercizio della loro libertà.”(3) Foucault, dunque, confuta l’idea che l’architettura possegga potere e responsabilità autonomi e afferma con forza la responsabilità  dell’architetto, non concedendogli alibi, poichè il suo prodotto è il risultato della sua idea del mondo. Foucault e anche  Lévinas affermano che l’architettura ha senso soltanto quando il progettista riesce a tradurre in opera realizzata il frutto di una pratica collettiva che lo vede fare propri bisogni e sentimenti di coloro cui il prodotto è destinato modellandoli senza volontà di sopraffazione o arroganza intellettuale con gli strumenti specifici della sua disciplina.

Per un’Altra Architettura

Avviene dunque che la fruizione dello spazio pubblico e dell’ambiente domestico vengano troppo frequentemente posti in secondo piano rispetto all’immagine glamour. Le disposizioni in materia di accessibilità agli edifici e di praticabilità degli spazi pubblici, risalenti al 1989, vengono spesso bellamente ignorate oppure svogliatamente e non correttamente applicate. Come non dare ragione a Ilaria Crippi, autrice di un bel libro in difesa dei diritti delle persone con disabilità quando sostiene che l’atteggiamento pericolosamente presente nella pratica progettuale è quello dell’abilismo, un paradigma pericolosamente che rischia di sfociare nel razzismo. Questo atteggiamento discriminatorio, che stigmatizza ogni forma di diversità, sia essa riferita a disabilità fisiche o psichiche, al genere, all’orientamento sessuale e comunque a ogni scelta di vita difforme da una concezione autoritaria sta diventando, drammaticamente, modello che il governo di un grande paese democratico come gli Stati Uniti d’America sta tentando d’imporre all’Occidente.

Occorre dunque che come architetti si rifugga dalla tendenza contemporanea di attribuire importanza soltanto a quello che ci riguarda direttamente assegnandogli valore universale. Il valore operativo del concetto di Alterità risiede dunque nella possibilità di considerare la pratica architettonica come opportunità di costruire luoghi facendosi direttamente carico, anche dal punto di vista emozionale, dei bisogni, dei desideri e anche delle possibilità delle persone per cui si progetta. Se questo comportamento è consuetudine nel rapporto con la committenza privata (salvo non confondere l’empatia con l’opportunismo o, peggio, con la complicità) esso latita troppo spesso laddove la committenza è quella pubblica, quanto progettisti a caccia del brevetto di archistar sostituiscono la partecipazione intima verso la collettività con l’autocelebrazione. “Parlare in generale di abilismo, anziché al diritto alla vita indipendente, al sostegno scolastico o alla riabilitazione significa attaccare direttamente l’origine di tutte queste discriminazioni. Significa evidenziare che non dipendono da una singola decisione politica censurabile o da un ufficio comunale poco attento, bensì da un sistema di pensiero che ha generato e permesso tali discriminazioni, rendendole pensabili, azionabili e accettabili. Ovvero da un modo di guardare la realtà – l’abilismo – che va smontato pezzo per pezzo.”(2)

Bibliografia di riferimento

1-Bobbio N. Destra e sinistra: ragioni e significati di una distinzione politica (Donzelli editore: Roma, 1994).

2-Crippi I. Lo spazio non è neutro. Accessibilità, disabilità, abilismo (Tamu: Napoli, 2024).

3-Foucault M. “Spazio sapere e potere.” In Spazi altri: i luoghi delle eterotopie. A cura di S. Vaccaro, Trad. T. Villani (Mimesis: Milano, 2000).

4-Lévinas E. Dall’altro all’io. A cura di A. Ponzio, Trad. J. Ponzio (Meltemi editore: Roma, 2002).

5-Manacorda F. “Da modello a sistema Milano: la deriva di una città che ha espulso il ceto medio.” La Repubblica, 7 marzo 2025, https://milano.repubblica.it/cronaca/2025/03/07/news/modello_milano_sistema_citta_espulso_ceto_medio-424047369/?ref=RHLM-BG-P2-S3-T1.

6-Peters J. “The Pixel 8 and the what-is-a-photo apocalypse,” The Verge, 7 ottobre 2023, https://www.theverge.com/2023/10/7/23906753/google-pixel-8-pro-photo-editing-tools-ai.

7-Tonelli M. “Insultare il villaggio olimpico di Milano ti fa sentire migliore?” Artribune, 2 marzo 2025, https://www.artribune.com/progettazione/architettura/2025/03/villaggio-olimpico-milano-2026-critiche/.

8-Venturi R., Scott Brown D., Izenour S. Imparare da Las Vegas: il simbolismo dimenticato della forma architettonica. A cura di M. Orazi, Trad. M. Sabini (Quodlibet: Roma, 2010, ed. originale 1972).

Edifici residenziali in via Nervesa.
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