Abitare il paesaggio

UCTAT Newsletter n.82 – ottobre 2025

di Massimiliano Gamba

Il presente personale contributo, sicuramente parziale, intende indagare il rapporto tra architettura e paesaggio, assumendo come chiavi interpretative le riflessioni di Christian Norberg-Schulz, Arturo Carlo Quintavalle e Gilles Clément, in dialogo con il concetto di “abbondanza frugale” elaborato da Serge Latouche. Dall’idea di paesaggio come costruzione di senso e di identità, al ruolo dell’architettura quale mediazione tra natura e cultura, nonché come pratica di interpretazione e cura del territorio.

Il concetto di paesaggio, nella riflessione contemporanea, si colloca all’incrocio tra natura e cultura, tra esperienza percettiva e costruzione simbolica. Esso non è un semplice sfondo dell’agire umano, ma un sistema complesso di relazioni, significati e memorie. In questa prospettiva, il paesaggio diventa una forma di conoscenza, un dispositivo attraverso il quale l’uomo riconosce se stesso nel mondo.

Per Christian Norberg-Schulz, il paesaggio costituisce il presupposto ontologico dell’abitare. In Genius Loci. Paesaggio, ambiente, architettura (1979), l’autore afferma che abitare significa appartenere a un luogo e che l’architettura è chiamata a “rendere visibile il significato del luogo”. Il paesaggio, in questa visione fenomenologica, non è oggetto ma orizzonte esperienziale, spazio esistenziale nel quale l’uomo trova identità e orientamento. Il progetto architettonico, pertanto, non può essere inteso come atto puramente tecnico o estetico, ma come gesto di interpretazione e di rivelazione: attraverso la forma costruita, l’architettura esprime il carattere del luogo, ne concretizza il senso, lo fa emergere nella coscienza collettiva.

Una prospettiva affine si ritrova in Arturo Carlo Quintavalle, per il quale il paesaggio non è dato naturale, ma costruzione culturale e storica. Nei suoi studi sulla rappresentazione del territorio e sull’evoluzione dello sguardo artistico, Quintavalle descrive il paesaggio come “una forma dello sguardo”, ovvero come proiezione di un sistema di valori e di relazioni che variano nel tempo. Il paesaggio, così inteso, è un archivio della memoria, un palinsesto di segni materiali e immateriali che riflettono l’identità di una comunità. Esso non si limita a rappresentare la natura, ma la interpreta, la ordina, la traduce in cultura.

In entrambi gli autori emerge una nozione di paesaggio come luogo del significato, come espressione della relazione tra l’uomo e il mondo. Tuttavia, nella condizione contemporanea, segnata dalla crisi ecologica, dall’espansione urbana e dalla perdita di biodiversità, questa relazione appare compromessa. È in questo contesto che la riflessione di Gilles Clément assume un valore decisivo. Nel Manifesto del Terzo Paesaggio (2004), Clément propone una visione radicalmente ecologica del territorio, individuando nel “Terzo Paesaggio” — ossia “l’insieme dei luoghi abbandonati dall’uomo” — uno spazio di libertà e di biodiversità. Si tratta di aree residuali, incolte, margini e interstizi urbani, che sfuggono alle logiche di produzione e di controllo.

Il Terzo Paesaggio introduce una prospettiva ecologica e politica che invita a una nuova etica del progetto, fondata sull’ascolto dell’esistente e sul riconoscimento delle aree marginali come luoghi di potenziale.

Il Terzo Paesaggio è, per Clément, un luogo di resistenza e di speranza: in esso la natura riconquista la propria autonomia, rigenerando forme di vita e di equilibrio che la pianificazione razionalista tende a sopprimere. Accogliere il Terzo Paesaggio come paradigma progettuale significa assumere un atteggiamento di ascolto, di sospensione del controllo, di apertura all’imprevisto. L’architettura, in questa prospettiva, non è più dominio o imposizione, ma pratica di coabitazione: un modo di abitare il mondo riconoscendo il valore del non-progettato, del marginale, del temporaneo. Clément invita così a un nuovo sguardo sul territorio, fondato sulla cura, sul rispetto delle differenze e sull’attenzione ai processi spontanei che caratterizzano la vita dei luoghi.

Questa visione dialoga profondamente con la nozione di “genius loci” di Norberg-Schulz: in entrambi i casi, il progetto è chiamato a interpretare un ordine già inscritto nel paesaggio, a rivelare piuttosto che imporre. Tuttavia, mentre Norberg-Schulz si muove in una dimensione fenomenologica e simbolica, Clément introduce una dimensione ecologica e politica, che sposta il baricentro dall’uomo al vivente. L’architettura, dunque, è chiamata a diventare strumento di riconciliazione tra le forme della vita e le forme dell’abitare.

All’interno di questo quadro teorico, il concetto di “abbondanza frugale” elaborato da Serge Latouche offre un ulteriore elemento di riflessione e di metodo. In La scommessa della decrescita (2007), Latouche propone di superare il paradigma della crescita illimitata, riconoscendo nei limiti ecologici e materiali non un ostacolo, ma una risorsa per una nuova forma di prosperità. L’abbondanza frugale, o “ricchezza nella sobrietà”, consiste nel privilegiare la qualità rispetto alla quantità, il locale rispetto al globale, la durata rispetto all’obsolescenza.

Applicato all’architettura, questo principio si traduce in una cultura del progetto fondata sulla misura, sul riuso e sulla relazione. L’architettura della frugalità non rinuncia alla bellezza, ma la radica nella sostenibilità e nella continuità con il paesaggio. Si tratta di un approccio che invita a progettare con ciò che esiste, valorizzando il patrimonio materiale e immateriale dei luoghi, riducendo gli sprechi, rispettando i cicli naturali delle risorse. In questo senso, la frugalità non è privazione, ma responsabilità creativa: la capacità di trarre valore dai limiti, di fare del vincolo una risorsa estetica ed etica.

Il progetto architettonico, così inteso, assume il carattere di una pratica di mediazione. Tra natura e artificio, tra memoria e innovazione, tra necessità e desiderio, l’architettura può diventare strumento di interpretazione del paesaggio e, al contempo, di rigenerazione del suo senso. L’“abbondanza frugale” di Latouche si lega quindi alla visione di Clément: entrambe suggeriscono un’etica del limite, un’idea di sostenibilità che non si riduce alla mera efficienza energetica o al controllo tecnico, ma che riguarda la qualità della relazione tra uomo e mondo.

In questa prospettiva, il paesaggio non è più un dato statico, ma un processo dinamico che l’architettura deve saper leggere e accompagnare. Come sottolinea Clément (2004), “il giardino planetario” è un organismo in movimento, in cui ogni intervento deve rispettare i ritmi e le forme della vita. Può l’architettura inserirsi in questa logica, abbandonando l’idea di permanenza assoluta per assumere quella di reversibilità, di adattabilità, di coevoluzione?

In termini metodologici, ciò implica una revisione delle pratiche progettuali. Il progetto diventa ascolto e traduzione, piuttosto che imposizione e disegno dall’alto. Ogni sito, ogni contesto, possiede un insieme di potenzialità materiali, ecologiche e simboliche che il progettista è chiamato a riconoscere e valorizzare. In questo senso, il paesaggio è una matrice di progetto, un interlocutore vivo, non una scenografia inerte.

Credo che la sfida contemporanea consista nel costruire un nuovo equilibrio tra architettura e paesaggio, tra cultura e natura. Tale equilibrio non si fonda sulla negazione della tecnica, ma sul suo ripensamento: la tecnologia diventa strumento di equilibrio, non di sopraffazione; mezzo di cura, non di controllo. La cultura dell’abbondanza frugale, congiunta al principio del Terzo Paesaggio, propone un paradigma alternativo alla logica della crescita infinita, capace di coniugare sobrietà e creatività, limite e invenzione.

I contributi di Norberg-Schulz, Quintavalle, Clément e Latouche consentono di delineare un orizzonte comune: il paesaggio come luogo dell’abitare, della memoria, della biodiversità e della misura. L’architettura, assumendo il principio dell’abbondanza frugale e la sensibilità del Terzo Paesaggio, può configurarsi come pratica etica del limite, fondata sulla responsabilità e sulla cura. Progettare nel paesaggio significa allora abitare poeticamente il mondo — secondo la celebre formula heideggeriana ripresa da Norberg-Schulz — ma con la consapevolezza che abitare oggi implica anche custodire, limitare, restituire.

In un’epoca segnata da crisi ambientali e sociali, questa prospettiva invita a ripensare il ruolo dell’architettura come strumento di equilibrio e di continuità. L’architettura che nasce dall’ascolto del paesaggio e dalla misura delle risorse diventa un atto di responsabilità verso il presente e verso il futuro.

Bibliografia

Gilles Clément, Manifesto del Terzo Paesaggio, Quodlibet, Macerata, 2004.

Martin Heidegger, Costruire abitare pensare, Mursia, Milano, 1976 (saggio originale 1951).

Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Torino, 2007.

Christian Norberg-Schulz, Genius Loci. Paesaggio, ambiente, architettura, Electa, Milano, 1979.

Arturo Carlo Quintavalle, Paesaggio e rappresentazione, Skira, Parma, 2007.

Aldo Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova, 1966.

Peter Zumthor, Atmosfere. Architettura come esperienza sensoriale, Electa, Milano, 2006.    

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