Politiche per la casa

UCTAT Newsletter n.83 – NOVEMBRE 2025

di Fabrizio Schiaffonati

La carenza d’abitazioni per i meno abbienti nelle grandi città è una vera e propria emergenza. Soprattutto per giovani, nuove famiglie, anziani e immigrati. Criticità che va estendendosi anche ai ceti medi. Un problema aggravatosi in assenza di iniziative in grado di promuovere una offerta adeguata, in una fase di crisi che allarga la fascia di povertà.

Nel secolo scorso per i processi d’inurbamento della rivoluzione industriale la casa era al centro del welfare, in una fase di notevole sviluppo con la necessità di una programmazione dei servizi e delle opere pubbliche. Politiche necessarie per la “riproduzione della forza lavoro”, sia in una economia liberale che socialista. I grandi quartieri con tipologie urbanistiche ed edilizie ispirate a criteri igienico-sanitari con edifici plurifamiliari e dotazione di servizi, rappresentano il tratto saliente della città del Novecento. Una rivoluzione sociale rispetto all’ancien régime, con la crescita dei diritti, del reddito e del benessere individuale. Una fase ampiamente analizzata e documentata della storia moderna dell’architettura e dell’urbanistica. Piani e progetti esemplari con molte delle regole ancora alla base degli interventi odierni.

Diversamente è difficile citare esempi odierni che rappresentino un salto di qualità rispetto a quel passato. Al contrario, è palese un arretramento in termini di standard dimensionali e qualitativi, sia a scala del quartiere che dell’alloggio, senza consistenti iniziative sia delle amministrazioni che dell’imprenditoria in grado di promuovere una offerta adeguata ai bisogni e alle possibilità dell’utenza, in un mercato sempre più insofferente di vincoli urbanistici ed edilizi. Un preoccupante regressione, quindi, rispetto al riformismo del ventesimo secolo per far fronte al degrado sociale e ambientale dello sviluppo incontrollato della città. Alla città razionalista dei quartieri periferici, ma anche del risanamento urbano dei vecchi nuclei degradati, con l’idea di ordinate geometrie e gerarchie funzionali, va sostituendosi un casuale accostamento dei singoli interventi. Non più quindi a partire dal disegno del Piano urbanistico alle diverse scale, ma iniziative, con la massimizzazione della rendita fondiaria, disinteressate alle condizioni del contesto. Da un disegno generale alla casuale sommatoria dei singoli progetti, con meno vincoli alla libertà di costruire.

Una vicenda aggravatesi negli ultimi tempi, di una città per enclave, separazioni, recinti, usi impropri del suolo e alterazioni ambientali. Se così non fosse non assisteremmo ai tanti inviluppi amministrativi e giudiziari che hanno richiamato l’attenzioni, in particolare a Milano.

In questo contesto si inquadra il diradarsi delle abitazioni, un tempo definite economiche e popolari, per la scarsità di risorse pubbliche, con uno scadimento delle capacità programmatorie e operative della pubblica amministrazione, del rigore professionale e della formazione di quanti operano in questo settore. Diversamente la politica per la casa richiamata era basata su una programmazione di medio periodo: quindici anni l’Ina-Casa del Piano Fanfani nel dopoguerra, dieci anni quello della Gescal degli anni sessanta, il Piano decennale degli anni ottanta. Per questo da qualche tempo tardivamente si torna a parlare di un Piano decennale, dopo l’illusione dagli anni novanta con il mercato che avrebbe dovuto autoregolare il settore e che la crisi economica invece ha vanificato.

Per poter soddisfare il diritto alla casa di quanti non hanno possibilità di accedere tout all’offerta privata è quindi fondamentale contrastare la rendita fondiaria e le speculazioni sui costi e i prezzi della casa. Il soddisfacimento del fabbisogno di nuove abitazioni richiede pertanto una pianificazione e una programmazione delle iniziative in una rinnovata visione strategica che ponga al centro la casa come servizio e non solo come bene. Si aggiunga inoltre l’importanza di affrontare con nuove logiche la riabilitazione del patrimonio pubblico rimasto dalle politiche precedenti. Quartieri e alloggi che per diversi aspetti hanno completato il loro ciclo di vita, che necessitano quindi consistenti interventi. La riqualificazione di un patrimonio ancora di notevole consistenza degradato e mal utilizzato, spesso in stato di abbandono, da tempo non trova risposte adeguate, anche per carenze gestionali e vincoli normativi. Da valutarsi anche l’opportunità di commissariamenti, se inadempienti gli enti preposti. Questione politica e sociale, per contrastare anche le illegalità di quanti occupano alloggi senza averne titolo, minando la credibilità delle stesse istituzioni.

A fronte di queste criticità, è ormai condivisa la proposta di reintrodurre un Piano comunale che individui aree pubbliche e private per il fabbisogno decennale di edilizia residenziale, con quote ripartite tra edilizia convenzionata e quella sovvenzionata, con prezzi e affitti calmierati; a Milano in misura ben diversa rispetto aa quanto fatto. In un’ottica anche di riqualificazione delle periferie, dopo le reiterate enunciazioni governative e amministrative rimaste tali.

È necessario alzare la soglia ora marginale della quota di alloggi in affitto per i meno abbienti. Una manovra che comporta anche una diversa destinazione degli introiti degli oneri di urbanizzazione e di costruzione, con risorse dal bilancio comunale e stanziamenti statali, con una struttura economica del Piano comunale diversa da quando messo in campo con scarsa efficacia dalla cosiddetta Housing Sociale, con Fondazioni e SGR società di gestione del risparmio.

Mettere in gioco aree del demanio comunale ma anche patrimoni di Cassa Deposito Prestiti, significa proporre obiettivi similari ai Piani della legge 167 del 1962, i Peep, che facevano obbligo ai Comuni di individuare le aree necessarie per il fabbisogno decennale. Piani e realizzazioni che hanno avuto una importanza fondamentale per lo sviluppo della residenza sociale, con interventi di enti, di cooperative e anche di privati con un equo profitto d’impresa. Il Piano decennale recentemente annunciato dal Comune di Milano dovrebbe richiamare l’interesse di investitori per alloggi convenzionati anche in affitto, ma anche di fondi immobiliari, società di assicurazione e casse previdenziali, come in passato, e che richiederebbe un riordino della materia da parte legislatore. Un Piano con una strategia articolata per proporsi come una opportunità su diversi fronti, riscuotendo dimostrazioni d’interesse diversamente da recenti estemporanee iniziative andate deserte.

In Italia il mercato dell’affittanza è sempre più ristretto, con una quota di abitazioni di proprietà vicina all’ottanta per cento, che non ha riscontro in altri paesi europei dove il rapporto è pressoché ribaltato. Una rigidità che ostacola la mobilità delle persone e la non corrispondenza tra standard abitativi ed evoluzione dei bisogni dei nuclei familiari. Un problema che dovrebbe avere una ricaduta anche sulle nuove tipologie edilizie, sulla dimensione e organizzazione degli alloggi. Tema progettuale ma anche sociologico, oggi con una diversa composizione dei nuclei familiari, mutate esigenze e gl stili di vita peri varie provenienze e culture. Un mosaico che spesso confligge ma che può essere ricomposto a partire da ricerche e progetti non appiatti su reiterati modelli.

Il Covid sembrava aver portato consapevolezza sulla necessità di ripensare le forme dell’abitare, della funzionalità degli spazi interni e di prossimità, il che comporta anche una diversa regolamentazione edilizia. Un salto quindi di qualità per un adeguamento della residenza anche con le crescenti criticità della vita urbana. Dimentichi dell’emergenza, tutto sembra essere rientrato nei ranghi.

Quindi della necessità di un miglioramento delle tipologie degli alloggi sembra essersene persa traccia, con una offerta appiattita su modelli consumistici lontani da una consapevole cultura dell’abitare. In carenza anche di ricerche, studi, concorsi e sperimentazioni che hanno invece accompagnato l’evoluzione di progetti del secolo scorso.

È urgente quindi operare per la ripresa in una nuova ottica, coinvolgendo anche il settore delle costruzioni con l’innovazione dei processi organizzativi e dei prodotti per l’edilizia che evidenzia un notevole salto di qualità. La specializzazione e la settorializzazione sempre più spinta della produzione di nuovi materiali e componenti, richiede la ricomposizione in organico progetto d’insieme. Un limite di molte architetture odierne, appariscenti a scapito della funzionalità e della economicità.

Il problema di abbattere i costi è sempre stato esiziale per soddisfare i nuovi fabbisogni. Tanto più oggi con sistemi edilizi e tecnologie complesse. Torna quindi d’attualità l’impiego di elementi prefabbricati, come ad esempio i blocchi umidi di cucine e bagni. Una prefabbricazione aperta, non per modelli, consentirebbe di contrarre tempi e costi. Come in passato con iniziative e concorsi ad hoc promossi da Comuni, Regioni, dal Comitato per l’edilizia residenziale, CER, e associazioni di costruttori, allo scopo di proporre nuove tipologie e componenti edilizi sulla base di studi, progetti e sperimentazioni. La ripresa quindi di “politiche tecniche”, come allora chiamate, in grado di promuovere una domanda e una offerta integrata, col supporto di enti di ricerca pubblici e privati.

Il Piano Casa nell’ottica del Governo riprende le linee già nella Finanziaria del 2025, con un nuovo stanziamento per il 2026. È augurabile una sinergia tra quanti delegati a gestirne le limitate risorse. Una quantità ben lontana dai livelli dal passato con percentuali, ad esempio dell’’Ina-Casa con punte anche oltre il venti per cento dell’offerta complessiva di alloggi. Valori oggi irrealistici, con il Piano Fanfani evocato come un mantra dimenticando che era consistentemente finanziato dallo Stato finanziato, con anche un prelievo mensile in busta paga di tutti i lavoratori dipendenti, trattenuta forzosa successivamente prorogata.

Un motivo in più, data la scarsità di risorse, per affrontare il problema con nuove idee e proposte in grado di mobilitare convergenze politiche e interessi imprenditoriali, intercettando dinamiche sociali e culturali, rinnovando la funzione delle pubbliche amministrazione e delle loro strutture tecniche, richiamando anche il supporto di ricerche e progetti di dipartimenti universitari  che per terza missione avrebbero il compito di collaborare a politiche di pubblico interesse.     

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