UCTAT Newsletter n.22 – aprile 2020
di Elio Bosio
Durante la forzata permanenza dentro le nostre case non ci sono mancati articoli, servizi televisivi, interventi sui social relativi alla qualità dell’abitare, quasi sempre accompagnati da conclusioni di questo tipo: si vive meglio in una casa grande che in una piccola; è meglio avere un balcone o un terrazzo, un giardino piuttosto che non averlo; è cosa migliore godere di una buona esposizione e di un gradevole panorama piuttosto che abitare un alloggio non illuminato dai raggi del sole e affacciato su un ambiente deprimente. Considerazioni ragionevoli quando compiute da non addetti ai lavori, anche se ricordano ai meno giovani gli aforismi dell’arguto personaggio di una trasmissione televisiva di Renzo Arbore il quale affermava che “è meglio lavorare poco e fare tante vacanze, piuttosto che lavorare molto e fare poche vacanze e che è molto meglio essere giovani, belli, ricchi e in buona salute, piuttosto che essere vecchi, brutti, poveri e malati”. Qualche motivo di preoccupazione sorge quando vediamo presentare da architetti e docenti di questa disciplina come frutto di originale e profonda meditazione concetti che fino dai primissimi anni di corso dovrebbero costituire patrimonio genetico degli studenti di architettura e quando assistiamo a esternazioni che, con una sicurezza che imbarazza noi lettori, liquidano i modelli abitativi proposti dai protagonisti del Movimento Moderno per riscoprire nientedimeno che la meraviglia distributiva del corridoio centrale degli appartamenti borghesi di fine Ottocento. Ancor più sconcertanti, per la notorietà dei personaggi, sono le proposte di archistar come Daniel Libeskind: “Superata l’emergenza, si dovrà riflettere su come prepararsi a una nuova eventualità di questo tipo: è possibile che da ora in poi nei grandi edifici, oltre al prevedere una piscina e una palestra, si pensi anche a un centro di assistenza medica.”(La Stampa, mercoledì 11 marzo 2020) e Massimiliano Fuxsas, che scrive al Presidente della Repubblica proponendo alcune linee guida che comprendono anche “un kit di pronto soccorso in ogni appartamento con un saturimetro, un termometro, un attacco per erogatore di ossigeno, una telecamera, uno smartphone o un computer. Ma anche spazi comuni adatti per il lockdown in ogni caseggiato” (ANSA 18 aprile 2020).
Il tema della distribuzione dell’alloggio ha costituito materia di costante studio nella costruzione della città contemporanea e ha visto sostanzialmente affermarsi due modelli: quello della casa ideale, destinata a una parte privilegiata della società, cui è comunque consentito scegliere tra diverse opzioni – paradigmatico è il modello dell’Immeuble Villas di Le Corbusier (1922) – e quello della casa per chi opzioni non ha e si vede consegnare, questa volta non virtualmente ma materialmente, un’abitazione concepita per uno stile di vita non scelto da lui e neppure suscettibile di alternativa. Nel caso migliore, come nelle case per salariati agricoli a Valera Fratta progettate da Bottoni, Mucchi e Pucci (1943-45) si tratta di un modello che emancipa da una tradizione contadina ancora ottocentesca, nel caso meno fortunato dei quartieri ultrapopolari dei primi anni Trenta del secolo scorso realizzati a Milano dall’Istituto Case Popolari l’obiettivo dichiarato è quello d’isolare i poverissimi della città in abitazioni caratterizzate da quasi inaccettabili condizioni d’igiene e di comfort, giudicate tuttavia adeguate per questo strato miserabile della popolazione. Pensare oggi a realizzare un catalogo di prototipi di cellula residenziale sarebbe ambizione smodata, a fronte di una società sempre più complessa e confusa, dove anche le quattro popolazioni metropolitane di Guido Martinotti sono state nel corso degli anni oggetto di mutazioni, ibridazioni ed evoluzioni tali da non consentirci d’inventariare neppure una piccola parte degli stili di vita e dei modelli di comportamento.
Negli ultimi anni dello scorso secolo Virgilio Vercelloni, architetto e studioso prodigo d’illuminanti intuizioni e autore di un bellissimo atlante della città europea1, sosteneva la necessità di progettare unità residenziali totalmente prive di muri interni (con l’eccezione dei servizi igienici) affidando agli abitanti il compito di suddividere gli spazi secondo loro bisogno e desiderio. A suffragare questa sua affermazione dedicava una pagina del volume al progetto utopico del gruppo SITE della High-Rise of Homes (1981), una struttura di dieci piani occupata da case unifamiliari con giardino tutte diverse tra di loro. La tecnologia diffusamente utilizzata in questi ultimi anni per la costruzione degli edifici residenziali (solai in getto o prefabbricati e liberi da impianti, sistemi di riscaldamento, idraulici ed elettrici all’interno d’intercapedini a soffitto, pareti in cartongesso con porte scorrevoli, l’adozione di elementi mobili d’arredo sull’esempio dei casier standard di Le Corbusier) è in grado di sviluppare senza eccessiva difficoltà l’idea di Vercelloni. Tutto ciò con la concreta possibilità di non derogare dalle prescrizioni di un Regolamento Edilizio come quello di Milano, a condizione che fosse rimosso l’impedimento costituito dall’obbligo di rispettare il rapporto aeroilluminante in ogni locale. Obbligo in contrasto con la reiterata e ragionevole richiesta, avanzata anche in tanti concorsi di progettazione, di privilegiare la flessibilità degli spazi; dunque, norma che da tempo avrebbe dovuto essere sostituita con un metodo di valutazione in grado di sintetizzare le qualità interne dell’alloggio e i fattori a esso esterni. Ostinarsi nel considerare il progetto della cellula abitativa come questione riconducibile unicamente al progetto dell’edificio è errore che, come abbiamo visto, non risparmia Libeskind e Fuxsas.
Non è necessario ricorrere a tecniche particolari di analisi per affrontare la questione da un punto di vista diverso, ovvero partendo non dallo spazio interno, bensì dallo spazio esterno poiché è da questo che arrivano luce e aria, odori e rumori ed è sempre l’esterno che ci offre paesaggi più o meno belli. Quale può essere la qualità ambientale di un vano d’abitazione che, pur nel rispetto dei regolamentari parametri d’illuminazione, affaccia su una parete cieca costruita alla distanza minima consentita dalle leggi e dalle norme urbanistiche vigenti? Non garantirebbe forse una qualità migliore una apertura più piccola esposta, però, su uno spazio aperto, soleggiato e ricco di vegetazione? Quando gli estensori dei regolamenti edilizi si convinceranno che il balcone non è la prosecuzione dell’alloggio verso l’esterno ma l’esatto contrario, inizieremo a imboccare la strada giusta per progettare gli spazi dell’abitare. Siamo di fronte a piani urbanistici come quello di Milano che associano alla prefigurazione di una città fatta di edifici simbiotici con la vegetazione, di raggi verdi, di green belt e di navigli riaperti alla navigazione un’assoluta debolezza nella definizione dei tempi e dei modi di un’attuazione che viene affidata quasi interamente all’iniziativa privata.
Lentamente, e se la sorte sarà benevola, potremo ricominciare a muoverci, a recarci al lavoro e a vivere il loisir. Come? La sorprendente ma inevitabile risposta è: con l’automobile (possibilmente una persona per automezzo). Perché delle piste ciclabili da decenni indicate sulle mappe di piano esistono solo pochi tratti. Poichè nessuno, neppure tra i più intelligenti e attivi indagatori della realtà milanese ha mai denunciato la totale assenza dai programmi urbanistici del tema della mobilità pedonale, mentre nei prossimi mesi (ad essere ottimisti) lo spostarsi a piedi sarà attività obbligata. Lo faremo su strade tante volte desolate, incrociandoci su marciapiedi stretti e occupati dai cassonetti dei rifiuti e dagli automezzi in sosta abusiva. Avremmo potuto farlo lungo percorsi disegnati da filari di alberi, attraversando spazi rinnovati nell’uso e nella bellezza, mantenendo tra le persone le distanze necessarie, senza il rischio di essere investiti da ciclisti alla egoistica ricerca di alternative alle inesistenti ciclopiste. Sarebbe stato più utile compiacersi meno del primato nell’economia, talvolta fastidiosamente evocatore di un clima alla Milano da bere, e guardare agli esempi proposti dalle numerose città europee e nord americane, grandi e piccole, che della mobilità pedonale hanno fatto un caposaldo della loro politica urbanistica. La Svezia ha affidato la difesa dal Coronavirus alla responsabilità dei singoli, rinunciando ad applicare norme giudicate eccessivamente rigide. Abbiamo visto le immagini delle strade di Stoccolma con le persone distanziate ma presenti. La capitale svedese ha una densità di popolazione sensibilmente inferiore a Milano e questo è un indiscutibile aiuto, ma aiuta di più la presenza di strade e piazze a misura di pedone, frutto di studi approfonditi, di programmi dettagliati e ben articolati e di scelte coraggiose e lungimiranti, come quelle del programma The Walkable City predisposto nel 2010 dall’amministrazione della città2.
La visione delle sofferenze dei meno fortunati ci ha insegnato a ponderare attentamente le nostre azioni. Abbiamo imparato a misurare i passi, a programmare i menù dei pasti, a selezionare le letture, a recuperare possibili modi di lavoro. In definitiva, abbiamo iniziato ad organizzare le nostre giornate, forse inconsapevolmente, con un metodo che potremmo definire scientifico, un metodo che sarebbe necessario applicare anche alla stesura delle leggi che governano il territorio e alla redazione dei piani urbanistici. Non ha giovato all’urbanistica italiana quella riforma del Titolo V della Costituzione (2001) che in Lombardia ha suscitato una frenesia emancipatoria nel confronto di regole ritenute ostacolo allo sviluppo dell’economia e alla crescita delle città. Un così forte desiderio di liberazione dal giogo dell’antica legge urbanistica del 1942 e dai decreti del 1968 da indurre la Regione, nella prima versione della Legge per il governo del territorio del 2005 ad escludere nei piani attuativi l’obbligo della cessione delle aree per interventi pubblici. Conseguenza inevitabile e prevedibile della cancellazione dello standard urbanistico, espressione (stendardo, lo definì l’urbanista Alessandro Tutino) della preminenza dell’interesse pubblico su quello privato, è stato il decadimento dell’urbanistica come disciplina catalizzatrice d’idee e di studi di origine e natura diversa, confinandola malinconicamente tra le numerose materie del governo del territorio. Private di una solida base fondata sulla ricerca, le leggi lombarde in materia di governo del territorio hanno pagato il pegno di scelte congiunturali dettate dalla volontà di mediare istanze politiche e interessi economici diversi. Un esempio di questa situazione è fornito dalla recente legge regionale per la rigenerazione urbana e territoriale (L.R. 18/2019), un atto che supplisce all’immobilismo di tanti comuni di fronte al problema costituito dai non pochi edifici inutilizzati e degradati presenti sul territorio, ma lo fa – assieme ad altri elementi non condivisibili – consentendo la deroga dai parametri di altezze, rapporti di copertura, permeabilità del suolo, sostituendo così una situazione di degrado ambientale con una potenzialmente peggiore. Eguali considerazioni potrebbero essere svolte su tanti terreni delle competenze regionali in materia di territorio, da quelle paesaggistiche a quelle relative al commercio.
Se Atene piange, Sparta non ride. Analoga povertà di contenuti scientifici la scopriamo nei piani urbanistici e nei regolamenti edilizi comunali. L’elemento che accomuna la maggioranza dei Piani per il Governo del Territorio è l’impegno nel cancellare quanto fatto o proposto dalle amministrazioni precedenti a quella in carica, mentre nei regolamenti edilizi comunali raramente ci si discosta dall’aggiornamento periodico di vecchie norme a favore di una riscrittura radicale espressione di un impegnativo sforzo di aggiornamento della cultura del progetto e dell’amministrazione3.
In questo particolare momento comprendiamo che il tema della salute dovrà assumere – non come mera dichiarazione di principio, ma per insopprimibile necessità – una posizione preminente nell’organizzazione della società urbana. Niente di nuovo, poiché l’ingegneria sanitaria fu la base che sostenne la crescita delle città contemporanee, le cui università già alla fine del XIX istituirono cattedre d’Ingegneria Sanitaria destinate ad analizzare ogni aspetto della vita nei grandi centri urbani e a proporre i necessari interventi per difendere gli abitanti dalle malattie e dalle epidemie. In questi ultimi decenni, invece, lo stato di salute della città è stato preso in considerazione quasi esclusivamente per compilare classifiche tra loro non omogenee della qualità della vita, senza trarne, nella maggioranza dei casi, le necessarie conclusioni.
La lettura del Piano di Governo del Territorio di Milano ci rivela come esso non affronti la specificità dell’aspetto sanitario, limitandosi a farne cenno in un capitolo articolato sinteticamente per punti e genericamente rivolto a Progettare una nuova ecologia. La salute, del corpo e dello spirito, di una città si conquista ponendo attenzione al progetto di tutte le sue parti, non soltanto di quelle commercialmente più appetibili, selezionando e organizzando le funzioni, coinvolgendo gli abitanti attraverso nuovi modelli di partecipazione. Un impegno che necessita più che d’imposizione burocratiche di chiari indirizzi e di un costante monitoraggio da parte dell’Amministrazione comunale, cui competerebbe l’attivazione di tavoli di confronto intorno ai quali radunare i soggetti dell’economia, dell’imprenditoria, del terzo settore e le rappresentanze di una partecipazione diffusa dei cittadini. Per affrontare un futuro che si prospetta non facile, diverso da quello che avevamo previsto e sul quale avevamo fondato progetti e coltivato speranze, è necessario che Milano proceda a una profonda revisione del Piano di Governo del Territorio, riformulando gli obiettivi, integrando i capitoli, cancellando quanto non compatibile con una politica del territorio fondata su accurate analisi rese comprensibili a tutti i cittadini. Analisi in grado di farci capire, ad esempio, le ragioni che renderebbero utile e conveniente lo smantellamento dell’Università Statale di Città Studi per trasferirne strutture e impianti sull’area dell’ex Expo 2015.
Sotto il profilo disciplinare sarà utile verificare se lo storico strumento dello zooning debba essere definitivamente archiviato, come gli orientamenti attuali indurrebbero a credere, oppure se qualche suo aspetto distintivo, in primo luogo la vocazione analitica e ordinatrice, possa diventare oggetto di considerazione e non debba invece essere cancellato assieme agli eccessi di schematismo che ne hanno talvolta viziato l’applicazione. Sarà anche necessario, perché i tempi lo richiedono, fare della partecipazione alle scelte urbanistiche una pratica diffusa, che dovrà essere vissuta dai cittadini con la consapevolezza che essa comporta impegno, studio e senso di responsabilità nei confronti della comunità di cui si è parte. Ad alcuni elementi del piano urbanistico dovrà essere assegnato un valore ben diverso da quello concesso dal vigente impianto normativo. Esemplare è il caso dei Nuclei d’Identità Locale (NIL), che il Comune definisce “un vero e proprio atlante territoriale, strumento di verifica e consultazione per la programmazione dei servizi, ma soprattutto di conoscenza dei quartieri che compongono le diverse realtà locali, evidenziando caratteristiche uniche e differenti per ogni nucleo”. Essi potrebbero costituire la trama su cui tessere un’urbanistica partecipata – realizzata per mezzo di piani particolareggiati la cui struttura normativa e tecnica sarà tutta da costruire – in grado di esprimere le peculiarità dei diversi quartieri, esaltandone gli aspetti positivi e correggendone quelli negativi, senza abbandonare una visione complessiva del progetto della città.
Anche se accennato soltanto all’inizio di queste considerazioni, il tema della progettazione dell’alloggio costituisce materia connaturata a quella del progetto della città, non quella ideale raccontata da Vercelloni nel suo atlante, ma quella possibile frutto d’idee, impegno collettivo e partecipazione democratica. Per questa ragione è destinato al fallimento ogni modello di abitazione concepito come organismo funzionalmente autonomo rispetto all’ambiente urbano, poiché è impossibile separare la vita privata da quella pubblica. Se le case della città greca dell’età di Pericle erano spoglie e severe nell’aspetto, ciò avveniva perché la giornata dei cittadini trascorreva quasi interamente negli spazi e negli edifici pubblici, dei quali invece andava esaltata la bellezza. La profonda relazione tra lo spazio privato e lo spazio collettivo si è conservata senza mai interrompersi nel corso dei secoli, accompagnando tutti i grandi processi di trasformazione della società. Se guardiamo a una stagione dell’architettura italiana particolarmente ricca di figure di grande valore vediamo come in nessun momento il progetto dell’alloggio e dei suoi elementi di arredo sia stato concepito come un qualcosa disgiunto da una visione globale di un progetto dell’abitare che partendo dall’utensile arriva ai modelli di città di Hilberseimer e Le Corbusier. Piero Bottoni progettava nello stesso anno (1936) un piccolo ambiente domestico come la cucina della casa elettrica di Luigi Figini e Gino Pollini per la IV Triennale di Monza e con Lodovico Barbiano di Belgiojoso il Piano regolatore della Conca del Breuil. Se davvero ci si convincerà che per pensare all’abitazione è necessario pensare anche alla città, le modalità di valutazione dei progetti da parte dei Comuni dovranno assoggettarsi a un radicale aggiornamento, condotto anche con l’ausilio di nuovi strumenti e procedure, con il ricorso a un’informatica sottratta agli effetti speciali dei rendering e utilizzata invece per creare programmi in grado di analizzare con attendibilità e oggettività la relazione di un edificio con il territorio. Si tratterebbe di sottoporre i progetti a una specie di micro valutazione ambientale, sicuramente più attendibile di alcuni giudizi espressi dalle commissioni per il paesaggio, caratterizzati da una maggiore attenzione ai valori dell’ornato che a quelli dei quadri ambientali.
Formazione generalista oppure specialistica per gli architetti? Un dilemma privo di ragion d’essere, ma che ha lungamente impegnato il dibattito delle Scuole di architettura, utilizzato nei peggiori casi come falso scopo per moltiplicare i corsi di studio e rianimare esauste carriere accademiche. Lo sconvolgimento planetario in atto impone agli architetti a riconsiderare ruolo e compiti, a impegnarsi in un aggiornamento della propria competenza disciplinare ben più profondo di quello obbligatorio dal sistema dei crediti, a rinunciare a convinzioni consolidate e ad applicarsi a nuove necessarie pratiche della progettazione urbana. Potrà allora riaprirsi una stagione feconda per la manualistica, probabilmente non più cartacea ma affidata a programmi informatici cui si accompagnerà a un approfondimento agli aspetti psicologici, spirituali, insiti nel rapporto tra l’individuo e il suo spazio domestico4. Un percorso di formazione che avrà il suo motore nelle Scuole di architettura che, come sollecitato da Elena Mussinelli in un suo scritto lucido e impietoso pubblicato prima dello scoppio della pandemia, dovrà comportare una profonda revisione ed una altrettanto decisa riorganizzazione di questi istituti5. E che dovrà indurre tutti, docenti, studenti, progettisti a meditare sulla professione come pratica di principi rigorosi e di moralità, come ci ha insegnato Antonio Monestiroli affermando che “Una buona architettura inizia dall’elaborazione del programma….Oggi il programma non è affidato a chi fa il progetto di architettura perché lo tragga dalla realtà del suo tempo, ma è dato da una committenza che di solito non accetta che venga messo in discussione. In questo modo, a chi fa il progetto, viene a mancare un dato di partenza importante e prezioso che è la conoscenza del valore più generale di ciò che dobbiamo costruire, che ci consente di definirne il carattere. Se questo è dato dal committente, per lo più coinciderà con il suo valore pratico o addirittura commerciale. Ma non è il valore pratico che ci deve interessare, anche se questo è sempre il movente della costruzione, ma il valore culturale, che è l’estensione del valore pratico, la sua generalizzazione”6.
1Vercelloni V, Atlante storico dell’idea europea della città ideale, Jaka Book, Milano 1989.
2THE WALKABLE CITY. Stockholm City Plan – https://international.stockholm.se/globalassets/ovriga-bilder-
och-filer/the-walkable-city—stockholm-city-plan.pdf
3 Una interessante eccezione è costituita dal Regolamento Edilizio del Comune di Seregno (MB), redatto dal
professor Francesco Infussi del Politecnico di Milano.
4 Su questo aspetto del progetto cfr. Perrot M, Storia delle camere, Sellerio, Palermo 2011.
5 Cfr. Mussinelli E., Insegnare l’architettura, imparare dall’architettura, in UCTAT NEWSletter, numero 21
marzo 2020.
6 Monestiroli A., I modi dell’architettura, in AA.VV. (a cura di), Antonio Monestiroli. Prototipi di architettura, Il
Poligrafo, Padova 2012, pag. 15.
