UCTAT Newsletter n.63 – GENNAIO 2024
di Matteo Gambaro
Da qualche anno ho avviato una ricerca sul tema dell’architettura italiana durante il Ventennio, argomento a lungo rimasto inesplorato e marginalizzato nella trattazione della storia dell’architettura, anche a fronte di una produzione rilevantissima sia in termini dimensionali che qualitativa. Nel 2019 sono stato sollecitato dall’editore di Interlinea Roberto Cicala a scrivere un libro dedicato all’architettura del periodo fascista nella città di Novara. Materia trattata superficialmente, e quasi unicamente attraverso fotografie e qualche disegno, in diverse pubblicazioni collettanee dedicate alla città. Partendo da approfondimenti di ricerca presso archivi, collezioni private e periodici abbiamo ricostruito un periodo probabilmente irripetibile caratterizzato da numerosi e importanti interventi per la riconfigurazione della città di Novara. A seguito di un positivo riscontro l’editore mi ha chiesto di programmare una serie di pubblicazioni sull’argomento e già nell’anno 2022, con la collega Francesca Albani, abbiamo dato alle stampe un altro volume dedicato alla “Vercelli Littoria”.
L’occasione mi ha consentito di dedicare un po’ di tempo alla lettura degli ultimi libri pubblicati sull’argomento, alcuni specifici sull’architettura, tra cui mi hanno indubbiamente colpito la saga di “Canale Mussolini” di Antonio Pennacchi, la trilogia di Antonio Scurati e ancora il sorprendente libro di Pennacchi “Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce”[i] edito da Laterza. Il libro di Pennacchi è un documentato e inedito resoconto del viaggio lungo l’Italia alla scoperta delle 147 città di fondazione e di quello che ne è rimasto. Probabilmente hanno destato il mio interesse perché gli autori non sono architetti né tantomeno esperti di architettura ma romanzieri, che con forme narrative differenti hanno raccontato quel periodo storico. Proseguendo nelle letture, nei giorni scorsi ho terminato il nuovo libro di Gianni Biondillo intitolato “Quello che noi non siamo”[ii]: la parabola del fascismo attraverso le passioni, gli entusiasmi e più in generale le vite dei protagonisti dell’architettura milanese del primo Novecento e poi della ricostruzione. Ragazzi, come ogni generazione ha avuto, che hanno creduto nella forza rivoluzionaria del fascismo e delle sue possibili ricadute anche sulla città e sull’architettura, per essere poi smentiti dalla degenerazione e dall’orrore del potere dittatoriale che ha trascinato l’Italia e gli italiani nel baratro della guerra e di quella che alcuni storici contemporanei hanno definito la “morte della patria”.
Nel susseguirsi dei capitoli Pagano, Persico, Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers, Camus, Palanti, Figini, Pollini, Albini, Bottoni, Terragni, Giolli, Bardi, Moretti, Ridolfi, De Carlo, il giovane Zanuso, che mantiene “vivo” lo studio BBPR durante la guerra, e tanti altri ci raccontano tramite le loro azioni la progressiva perdita di libertà. Ed anche l’incredibile ruolo delle donne, mogli, fidanzate e sorelle dei protagonisti, con atti eroici e straordinaria determinazione.
Biondillo riporta all’attualità la passione incorruttibile per l’architettura di giovani disposti a lottare per le proprie idee. L’architettura è sempre presente nelle vite di Lodo e Giangio anche nei momenti più drammatici nei campi di concentramento a Mauthausen e prima nel campo di raccolta di Fossoli con incarichi di gestori delle manutenzioni delle baracche e del campo. Paradigmatica la vicenda umana di Giuseppe Pagano Pogatschnig, anch’egli internato a Mauthausen dove ha trovato la morte pochi giorni prima della liberazione, che continuerà a dirigere la rivista Casabella durante la guerra, da graduato dell’esercito fascista, con editoriali e saggi inviati dal fronte e scritti nelle pause serali della guerra, in cui è leggibile il percorso di progressivo allontanamento della cultura architettonica ufficiale dalle avanguardie del movimento moderno a favore del monumentalismo e della retorica accademica. L’architettura come la vita, in un tutt’uno inscindibile[iii].
L’autore, con questo libro, senza mai dichiararlo esplicitamente, affronta un tema a lungo sottaciuto e rimasto perimetrato in letture e interpretazioni fatte da studiosi direttamente coinvolti nelle vicende oppure molto vicini anagraficamente a quell’epoca. E sostanzialmente conferma le tesi di Paolo Nicoloso, Emilio Gentile e altri storici contemporanei che rivedono le posizioni di Zevi e degli storici di quella generazione secondo cui il fascismo non ha inciso sull’architettura, perché non ha mai avuto una propria politica nel campo dell’architettura, liquidando la questione come “l’architettura durante il fascismo”. Nicoloso dimostra – in una bella pubblicazione di qualche anno fa intitolata “Mussolini architetto”[iv], pubblicata da Einaudi -, documenti alla mano, la pervicace e ininterrotta teorizzazione e costruzione dello stile architettonico fascista da parte di Mussolini, assistito dall’onnipresente Piacentini, con il preciso obiettivo di utilizzare l’architettura e i monumenti per la costruzione del consenso e per incidere sul carattere degli italiani.
Solo per fare un esempio: avevano costituito un ufficio di progettazione con numerosi architetti agli ordini di Piacentini, a Roma, con l’obiettivo di progettare le opere pubbliche importanti e soprattutto di sovraintendere, passare al vaglio e correggere tutti i progetti di opere pubbliche anche minori da realizzare in Italia. Piacentini viaggiava in lungo e in largo per incontrare i progettisti e “instradarli” e Mussolini, addirittura, correggeva direttamente i disegni dei progetti più importanti.
Il libro si chiude con Ernesto Nathan Rogers e Lodovico Barbiano di Belgiojoso che passeggiano in corso Vittorio Emanuele: “… all’improvviso Lodo vede qualcosa per terra. È un tozzo di pane semiammuffito. D’istinto, senza neppure pensarci, si piega di scatto per raccoglierlo e se lo porta al petto, come se avesse trovato un tesoro, timoroso che gli venga sottratto. Si rende conto del gesto inconsulto guardando i volti dei passanti increduli. «Scusa» dice, colpevole, all’amico. «Scusa, non so cosa mi è preso, io…»
«Non importa» replica Ernesto. Gli regala un sorriso largo, rassicurante. «Non importa.» Lo prende sottobraccio, lo sospinge in avanti. «Forza, andiamo, abbiamo un sacco di cosa da fare oggi.»
Andiamo. Dobbiamo ricostruire l’Italia”.

[i] Pennacchi A., Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, Laterza, Bari 2010.
[ii] Biondillo G., Quello che noi non siamo, Guanda, Parma 2023.
[iii] Cfr. De Seta C. (a cura di), Pagano G. Architettura e città durante il fascismo, Jaca Book, Milano 2009.
[iv] Nicoloso P., Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Einaudi, Torino 2008.
