UCTAT Newsletter n.68 – GIUGNO 2024
di Luca Marescotti
“Un tempo ero orgogliosa di abitare a San Francisco. Lo consideravo un posto di liberazione e protezione. Il movimento ambientalista è nato qui; eravamo la terra della poesia sperimentale e dei cortei contro la guerra, di Harvey Milk e dei diritti dei gay, dell’occupazione dell’isola di Alcatraz che ha galvanizzato il movimento nazionale per i diritti dei nativi, ma anche il movimento dei braccianti di César Chávez e delle Pantere nere a Oakland. Eravamo l’avanguardia di sinistra degli Stati Uniti, un antidoto alla loro brutalità e al loro conformismo, un rifugio per i dissidenti e i disadattati e un laboratorio per le nuove idee. Siamo ancora quel laboratorio, ma non siamo più un’avanguardia. Siamo un centro globale di potere, e quello che esce da qui – a partire da una nuova superélite – modella il mondo in forme sempre più inquietanti.”[1]
“Where do all the good plans and brave hopes go?’ Gone to die in books, every one. Buried in the cemeteries of design school libraries where they wait for the Second Coming of a liberal urbanism that never comes. Become torn pages blowing down the dusty hallways of ghost buildings in dead cities like Camden or Detroit. Love letters to an Agency of the Future that never opens its mail. Composted dreams that manure the greed of billionaires with slogans like Smart growth and Urban renaissance.”[2]
Un doppio esergo alla ricerca di un filo rosso che talvolta mi pare intravvedere con quegli slogan della crescita intelligente e del rinascimento urbano che non suonano affatto nuovi e che talvolta mi pare scomparire sommerso dal quotidiano, così avaro di ottimismo con la capitale morale che chiama Roma, a cui la Lega risponde: Salva Milano!
Mi pare che si sia persa ogni ragione, politica e di stato, e ogni legame con il territorio. D’altra parte quando parlo con qualche amico di urbanistica il commento più benevolo è relativo alla sua inutilità, nulla di personale certo, e non parliamo delle discrezionalità. È veramente difficile intendersi. I dettagli e le disillusioni a volte offuscano la visione d’insieme, ma pare difficile trovare ancora qualcuno che creda alle narrazioni sul bene comune, sulla città giusta, sulla città aperta e protettiva. Schiaffonati chiede di riflettere sulla confusione generata da un combinato di incertezze e complicazioni nelle autorizzazioni urbanistiche ed edilizie che ha coinvolto tutto dal diritto e dai ruoli e compiti degli uffici proposti, fino a marginalizzare quella vecchia e dibattuta questione sull’entità e sugli scopi degli oneri di urbanizzazione, di cui tutti, proprio tutti, paiono essersi dimenticati. Bisognerebbe mettere un punto fermo e ripartire da capo, dalla riforma al riordino delle amministrazioni e alla collegialità delle decisioni fino al coinvolgimento della popolazione.
Mi pare che col tempo, forse infiacchiti dal benessere, abbiamo assistito inermi al formarsi di una società immemore delle battaglie degli anni Sessanta e Settanta, battaglie sostenute da una solida coscienza civile.
Come ricostruire fiducia e impegno?
Luca Beltrami Gadola in un suo recente editoriale metteva al centro la questione demografica di Milano segnata dal crollo demografico avvenuto dal 1971 al 2023, dal milione e settecentomila residenti al milione e quattrocentomila[3]. Un crollo di oltre 300.000 residenti.
Come al solito il dato grezzo dice poco o niente e per cogliere il senso della trasformazione sociale della città bisogna scavare, disaggregare, analizzare. Nella città di Milano risiedono 301.149 stranieri provenienti da diverse parti del mondo: per il 40,3% da Egitto Filippine e Cina a cui seguono con distacco Perù, Sri Lanka Ceylon e Romania con un contributo del 16,7%. Quindi il crollo sarebbe semmai oltre seicentomila milanesi residenti. Questo al 2023 ma prima?
Il Comune offre la possibilità di approfondire le conoscenze con una serie di dati che inizia nel 1979: grazie a questa nuova fonte siamo informati che nel 1979 a Milano c’erano 21.374 stranieri residenti provenienti da 116 paesi e che vent’anni dopo si superavano i centomila residenti stranieri (105.082) provenienti da 157 paesi, con un’accelerazione che non si è ancora esaurita, tanto che nel 2023 i residenti stranieri sono diventati 301.149 provenienti da 171 paesi, pressoché tutto il mondo contribuisce alla popolazione milanese.
Con un semplice sforzo aggiuntivo si coglie un altro aspetto della realtà demografica milanese, basta aggiungere alli dati anno per anno le loro variazioni assolute e percentuali. Si scopre così facilmente che dal 1979 al 1999 a Milano si registravano 83.708 nuovi residenti stranieri con incremento del 392% circa, mentre dal 1999 al 2023 si sono aggiunti altre 196.067 residenti stranieri con un incremento del 187%.
L’immagine dell’urbano milanese, tuttavia, non sarebbe completa se non si introducesse la tradizionale dimensione del tessuto produttivo locale a partire dal 1971 quanto l’ISTAT registrava 96.410 unità locali con 767.106 addetti[4], mentre mezzo secolo dopo (2020) il Comune di Milano registra in città 206.953 imprese con 902.942 addetti, mentre nel resto della CMM vi sono 139.556 imprese con 632.091 addetti. Nonostante la disomogeneità dei dati e i probabili cambiamenti dei settori di attività restano testimoniati almeno tre fatti: la forza attrattiva di Milano, la vocazione produttiva della città e la concentrazione di quasi il 60% delle imprese e degli addetti, al netto delle pubbliche amministrazioni[5].
Ora, per chi volesse, resterebbe un altro lato da indagare, quello relativo al cambiamento sociale della popolazione milanese, di cui però si colgono alcune evidenze nelle offerte abitative e nel loro costo, un’offerta decisamente orientata verso una fascia medio alta delle classi di reddito, con un’assenza incredibile dell’intervento pubblico, a cui nel passato si devono realizzazioni di grande qualità architettonica e urbanistica, anche se talvolta un poco fuori mano.
Per inciso questa realtà non solo disvela anche quanto in malafede si muova quella politica abituata a distorcere la questione dei migranti, ma dovrebbe anche spingere la politica milanese a investire per far fronte a questo epocale cambiamento della composizione sociale e del sistema produttivo sia favorendo reti tra il sistema produttivo e il sistema universitario dedicate all’innovazione e allo scambio, sia realizzando adeguate strutture di accoglienza per l’integrazione, per l’insegnamento delle lingue e delle regole sociali, per ammodernare le scuole e la sanità pubblica, per realizzare attrezzature culturali e religiose. Queste dovrebbero essere le minime risposte di un piano di governo del territorio alla necessaria inclusione dei migranti nelle loro età e generi, di adulti e bambini, opere che richiedono, non sarebbe il caso di dirlo, grande sensibilità e qualità architettonica e urbana, di cui i parchi, i giardini e i viali alberati assieme alla vivibilità urbana sono ovvi corollari.
La struttura sociale di Milano pare radicalmente cambiata e questo si riflette sulla città fisica: una città ricca, che richiama mano d’opera straniera, ma anche una città in movimento, fatta di strade e piazze, di negozi e centri commerciali, dove pian piano anche gli spazi liberi dove sviluppare un’interazione sociale proattiva assumono altri valori. Per un’urbanista le domande allora riguardano a chi si rivolge il piano di governo del territorio ovvero per chi si costruisce, le modalità con cui queste diverse società convivono, i programmi differenziati di servizi da offrire alla nuova popolazione.
Mi soffermo ancora sulla città fisica, sulle trasformazioni dell’urbano per chiedere, non solo a me stesso, se si debba riflettere non solo su regole, norme, responsabilità, ma sugli obiettivi impliciti di questa vitalità urbana che di fatto nega la città di tutti, la occupa per trasformarla, per farne altro, attraverso mutamenti, non sempre lineari e talvolta contraddittori, che nel loro insieme assumono significato e coerenza.
Si affaccia ai miei pensieri una possibile semplificazione che in tutto questo vede il capitalismo democratico che si appropria delle città, che ne seleziona gli abitanti attraverso processi di densificazione e di sostituzione urbana. Troppo riduttivo, mi dico. E se esistesse una visione strategica, come definirla? Valuto allora la possibilità di individuare eventuali strategie nel governo del territorio, ma i fatti sembrano rafforzare l’ipotesi che si tratti di un barcamenarsi giorno per giorno. Possibile che sia solo questo e nient’altro questo parlare di semplificazioni e ammodernamenti amministrativi?
Del traffico ho già scritto e i dati più recenti messi a disposizione da TomTom confermano quelle situazioni: traffico privato, congestione e scarsa sicurezza per l’utenza debole. L’altra faccia della mobilità privata sta nella sosta e le costruzioni dei parcheggi sotterranei per liberare le strade dalle automobili sono servite assai poco, anzi pare che il risultato sia stato un incentivo a disporre di un un maggior numero di automobili per abitante. Anche le biciclette a noleggio sono una bella cosa ma non hanno modificato le tendenze, ci vuole molto tempo e ben altro per modificare i comportamenti al fine di realizzare in sicurezza pedonalità e ciclabilità di una città. Per convivere in una regione particolare tra Alpi e Appennini e ridurre l’inquinamento atmosferico servono grandi strategie e grandi risorse e tempi lunghi.
Salta all’occhio tra le ultime una notizia: “Mobilità. Milano tra le dieci città vincitrici del bando Bloomberg per le infrastrutture ciclabili”. Taccio sulle altre nove, che ben renderebbero il senso della bravura meneghina. Suoni di cembali accompagnano la notizia, eppure si tratta di un premio tutto sommato modesto, 400 mila dollari per sei chilometri di pista ciclabile: un granello piccolo piccolo per un titolo grosso grosso. Non accompagnano né seguiranno concreti gesti e investimenti per ridurre il traffico privato e garantire la pedonalità e la ciclabilità urbana in sicurezza: pare che a Milano la mancetta basti per essere soddisfatti.
Si tratta di andare oltre per mettere insieme dinamiche sociali, comportamenti dei singoli, competenze e comportamenti delle istituzioni, non solo per comprendere ciò che accade, ma soprattutto per indagare la possibilità “di governare bene, di saper amministrare la cosa pubblica senza smarrire una trama, un disegno che sappia muovere emozioni, suscitare speranze di cambiamento”. Chiedo perdono per questo salto pindarico, che lega una breve testimonianza di Umberto Gentiloni su Giacomo Matteotti, la politica con l’urbanistica, ma sento che siano proprio queste le ragioni dell’urbanistica che non possiamo tradire[6]. Riprende forza l’impressione che quanto accade all’urbano milanese non riguardi solo Milano, ma molte altre città, in un processo di appropriazione dettato dalle imprese, o dal capitale privato se si preferisce, entrambi così inclini ad ascoltare la suadente voce di quella sirena che è la rendita fondiaria.
Lontano dai rumori e dalle ansie urbane rifletto. Mi basta salire un poco sulle colline per vedere, se il tempo lo permette, il profilo di Pavia col suo duomo e di lontano qualche elemento milanese sullo sfondo dell’arco alpino: la torre di Rozzano e qualche grattacielo. I miei occhi anziani vedono territori e città che i giovani non sempre riescono a vedere e a capire: essi vi sono nati dentro, la città sale insieme alle loro conquiste, è il ritmo di un dinamismo irrefrenabile che avvolge in un’apparente negazione il presente. La città offre occasioni di ricchezza, l’istante inafferrabile è già passato. La tensione è vivere il futuro.
L’urbano comprende molte categorie e ogni categoria si suddivide per classi di età: vi sono “turisti, uomini d’affari e milanesi orgogliosi della propria città”, come scrive Angelo Rabuffetti[7], ma non solo. La realtà è altra, variegata, con immigrati e figli di immigrati, la cui integrazione non è ancora prossima. Vi è una moltitudine disomogenea che attraversa l’urbano, giovani in carriera, giovani senza carriera, gente i cui sguardi non si incrociano mai, gente che guarda solo in basso. Tutti distratti. Camminiamo gesticolando mentre parliamo d’affari o di amori oppure procediamo come sonnambuli con lo sguardo fisso sullo schermo del cellulare. Orgogliosi della propria città, tutti? Chi sono i cittadini di Milano? Dov’è finita la coscienza dell’occhio?
Giovanni Merlo cerca di dare una dimensione alla città metropolitana e fa riemergere quella dimensione di regione urbana dai più negata[8]. Invoca trasporti pubblici locali, ma tutto è a servizio del trasporto privato.
Mi chiedo quale possa essere lo slogan di queste nostre città che quasi negano il territorio: il Pgt del cuore di Milano esteso a tutto il perimetro comunale, e la città metropolitana: che altro se non un suggerire di affrettarsi perché presto sarà disponibile anch’essa. Ma per chi?
Una città più serena? No, già usato e poi con quel che successe non porta bene. Una città più sicura? Dall’aria pura, senza alluvioni, che si gira a piedi o in bicicletta? Una città più ricca di servizi o più ricca di ricchi? Una città per tutti?
Poi mi chiedo che cosa stia succedendo altrove, a Londra, a Parigi, a Berlino, a New York, a San Francisco, … non tanto per dire, non per fuggire in avanti, ma per chiederci se per caso non dovremmo veramente incrociare le analisi e interrogarci sui risultati. Se quell’omologazione di cui parlava Pasolini ha a che fare con l’aumento degli squilibri sociali, se esiste un rapporto tra le stravaganze architettoniche coi boschi verticali e orizzontali che inglobano ingenti tecnomasse e consumano energie e l’espulsione di tutte quelle attività non connesse all’eccesso, all’ingordigia del liberismo. Facciamo un calcolo per bene sulla sostenibilità di queste opere stravaganti, sulla loro manutenzione, sul loro contributo alla sostenibilità. Non un giudizio, ma un calcolo, che verifichi le ipotesi: positivo o negativo.
I vecchi se ne vanno e i giovano nascono con questo gusto in bocca.
Aprire gli occhi? Chiuderli?
Milano è la città con la più alta densità di automobili, uno status symbol leggermente rétro direi, ma anche in contrasto con la città accogliente, che ricordavo in gioventù. Accogliente? Forse non proprio: era una città anche dura, una città di fabbriche dove, mi pareva, nessuno si accorgeva delle sue reali dimensioni culturali di città storica, produttiva, universitaria, creativa, non molto attrezzata per i servizi e per una crescita impetuosa. Mancavano servizi, anche se però abbondavano negozi e laboratori artigianali. Milano austera? Forse … Lascio in sospensione, in attesa di altri spunti; prendo tempo per ritornare a quanto riportavo all’inizio; forse non solo sono assonanze, occorre comprendere quei testi nella loro compiutezza.
Solnit inizia il suo saggio su San Francisco dalla sperimentazione delle automobili senza guidatore, in cui manca l’interazione, lo sguardo, per poi osservare come grazie ai sistemi automatizzati ci sia una continua e progressiva perdita di interazioni sociali, nelle strade, nei negozi; sempre connessi vuol dire distratti dalla vita intorno, un preludio alla solitudine. L’attenzione di Solnit è catturata allora da altro, dalle origini delle fortune all’epoca dei cercatori d’oro e della costruzione delle ferrovie, che portò alla fondazione della Stanford University proprio da parte di uno di quei baroni, ma subito arriva all’oggi alle ricchezze portate dalla Silicon Valley e alla costruzione dei grattacieli e di insediamenti di lusso: ecco come all’improvviso ci fa sbattere contro la contraddizione tra crimini e sregolatezze della nuova alta società e il clamore delle denunce contro i poveri, svelando così l’insofferenza a regole comuni e, dunque, alla democrazia proprio da coloro che di quelle si erano avvantaggiati.
Davis scrive una prefazione per elogiare un libro complesso sulla ricostruzione di New Orleans[9], ma allo stesso tempo per esprimere il proprio pessimismo sulle sorti dell’urbanistica. Il libro, che potrebbe diventare uno punto di riferimento per gli urbanisti, è composto da una raccolta di saggi che illustrano i diversi approcci alla ricostruzione di New Orleans e tra i molti autori compare anche Solnit che rilancia il ruolo della partecipazione e delle comunità locali. Ma l’inizio, quell’inizio, come non sentirlo vicino: “Gone to die in books, every one. Buried in the cemeteries of design school libraries where they wait for the Second Coming of a liberal urbanism that never comes”.
L’approccio all’urbano di Solnit si attua attraverso la sperimentazione di atlanti tematici su San Francisco, New Orleans e New York[10]. Gli atlanti scompongono e isolano gli elementi costitutivi dell’urbano, senza tralasciare ciò che sfugge dalle rappresentazioni “exploring what maps can do to describe the ingredients and systems that make up a city and what stories remain to be told after we think we know where we are”[11], poiché la città è una struttura complessa, continuamente in trasformazione e rielaborazione:
“A city is a machine with innumerable parts made by the accumulation of human gestures, a colossal organism forever dying and being born, an ongoing conflict between memory and erasure, a center for capital and for attacks on capital, a rapture, a misery, a mystery, a conspiracy, a destination and point of origin, a labyrinth in which some are lost and some find what they’re looking for, an argument about how to live, and evidence that differences don’t always have to be resolved, though they may grate and grind against each other for centuries.”[12]
Dotata di queste lenti l’attenzione di Solnit si rivolge a New Orleans e a New York per leggerne le specificità. Denuncia e smaschera il New Urbanism che trasforma la città storica di San Francisco, fatta di interazioni sociali, in una collazione di periferie alienate, dove la forma scimmiotta le stesse relazioni che ha appena dissolto, sostituendo i negozi individuali e artigianali con catene di negozi monomarca, luoghi senza memoria e senza storia, non-luoghi direbbe Augé:
“Car-based suburbia has been a particularly nowheresville version of Utopia since the Second World War, but the spread of chains, the gentrification of cities, the ability of administrators to control increasing subtle details of public space and public life all threaten to make urban places as bland and inert as suburbia, to erase place. Much has been said about the New Urbanism, whereby suburbs are designed to resemble small towns, but what is happening in San Francisco and cities across the country is a new New Urbanism in which cities function like suburbs.”[13]
Quando ero studente avevo sottovalutato Jane Jacobs, di cui non vedevo una possibile estensione alle città europee, per città e culture così diverse, ma in fondo era forse una questione di tempi e modalità, con la crescita diffusa di catene di negozi, che garantiscono ovunque e sempre la stessa offerta, dove il lusso pare l’unico modo per sfuggire all’omologazione, anche se ci si accorge che allo stesso tempo nega il concetto stesso di spazio libero e che lo stesso lusso diviene un logo che si riproduce ovunque all’infinito. Dovremmo applicare il suo metodo di analisi anche alle nostre città, italiane ed europee, per capirle, confrontarle, governarle. I confronti allargano la visione, danno senso alle cose, offrono prospettive: Milano in questa ottica appare allora assai diversa dall’immaginario costruito sui giovani in carriera che si inebriano nella movida, invadendo le strade. Nonostante la loro percezione, questi non sono spazi liberi.
Il meccanismo della città delle mille società, sembra rotto.
Forse si è solo inceppato, ma rimetterlo in moto non sarà semplice. La sfida, se qualcuno avesse voglia di raccogliere la sfida, riguarda la dimensione della regione urbana, un campo che significa dare un senso metropolitano e propositivo al piano territoriale regionale, riguarda il trasporto pubblico locale esteso a livello regionale, riguarda il sistema produttivo, il co-working e la promozione di nuove imprese, riguarda l’innovazione, riguarda l’offerta di case, riguarda la collaborazione con progettisti, riguarda la qualità degli spazi urbani, riguarda lo spazio libero delle università e dell’urbano, riguarda la pedonalità e la ciclabilità, riguarda le relazioni con le altre polarità urbane. Riguarda le altre culture, riguarda un’idea nuova di educazione alla cittadinanza e l’ingresso degli stranieri in una nuova cittadinanza. Come le recenti vittorie sportive hanno mostrato.
Forse dovremmo imparare a confrontarci con le altre città europee, per indagare analogie specificità e innovazioni, per studiare le differenze legislative, per valutare il ruolo dell’urbanistica, dei piani strategici e dei piani operativi. Forse, anzi non dubito, ne potremmo trarre lezioni significative da importare qui da noi, e magari altre le potremmo esportare, purché si sia capaci di decidere verso dove vogliamo andare, verso dove queste o altre trasformazioni ci porteranno.
Allora, per concludere non resterebbe che proporre uno slogan. Direi: mai più una città sola e da sola, una Milano centro del mondo in mezzo al deserto di periferie disseminate di logistica e centri commerciali. Se l’urbanistica servisse a qualche cosa, ecco dovrebbe servire a realizzare una regione urbana, fatta di intrecci e scambi, di vicinanza e solidarietà, di efficienza e giustizia.
Milano, una regione aperta.

[1]Solnit, Rebecca. 2024b. p. 59. “San Francisco Non Esiste Più.” Internazionale. Anno 31 (1563): 52–59. Originale “In the Shadow of Silicon Valley.” LBR London Book Review 46 (3).
[2]Davis, Mike. 2014. p.ix. “Foreword. Sittin’ on the Porch with a Shotgun.” In New Orleans under Reconstruction: The Crisis of Planning, ix–xxv. London: Versobooks.
[3]“Eravamo 1.732.068. Chi viene e chi va” ArcipelagoMilano 22 maggio 2024.
[4]Istat 1971 p 136. Censimento generale dell’industria e del commercio 25 ottobre 1971.
[5]ASIA Archivio Statistico delle Imprese Attive (dati al 2020). Totale CMM: 346.509 imprese con 1.535.033 addetti.
[6]Gentiloni, Umberto. 2024. “Così nacque l’antifascismo.” La Repubblica, 31 maggio , sez. Commenti, p. 34.
[7]Angelo Rabuffetti, “Ancora sul nodo 3Ponti”, Uctat Newsletter, n. 66, aprile 2024.
[8]Giovanni Merlo, “Territorio metropolitano e trasporto collettivo” Uctat Newsletter, n. 52 – Gennaio 2023 (da uno studio realizzato con la collaborazione dell’arch. Giorgio Goggi).
[9]Reese, Carol McMichael, Michael Sorkin, and Anthony Fontenot (a cura di), 2014. New Orleans under Reconstruction: The Crisis of Planning. [With a Foreword by Mike Davies]. London: Versobooks. Un libro che di per sé meriterebbe un discorso a parte, più ampio.
[10]Solnit, Rebecca (a cura di). 2010. Infinite City: A San Francisco Atlas. Berkeley, Calif.: University of California Press; Solnit, Rebecca, Rebecca Snedeker (a cura di). 2013. Unfathomable City: A New Orleans Atlas. Berkeley, California: University of California Press. Solnit, Rebecca, Joshua Jelly-Schapiro (a cura di). 2016. Nonstop Metropolis: A New York City Atlas. Oakland, California: University of California Press.
[11]Solnit, Rebecca, Joshua Jelly-Schapiro (a cura di). 2016, p. 1.
[12]Ibidem.
[13]Solnit, Rebecca, and Susan Schwartzenberg. 2000. Hollow City: The Siege of San Francisco and the Crisis of American Urbanism. Verso. p. 29.
