UCTAT Newsletter n.83 – NOVEMBRE 2025
di Carlo Lolla
C’è un luogo, nel tempo e nello spazio, in cui l’uomo torna a guardarsi il mondo che sembra piegarsi, non alla forza del denaro, ma alla delicatezza dei sogni. Non è più solo il muro, la chiave, il cancello, la terra, cemento o vetro: è l’aria che vi entra, la luce che vi abita è lo spazio vissuto, respirato, sentito. È il punto in cui la città incontra la vita dell’uomo, e l’uomo incontra se stesso. In questa dimensione, l’abitare non è più solo un atto tecnico, ma un gesto morale, psicologico, poetico. Nel tempo, la casa ha pure riflesso la scala sociale, le tecnologie disponibili, i valori di una civiltà.
Da sempre, la casa è stata il primo laboratorio dell’uomo. Le grotte custodivano il silenzio e il respiro del mondo selvaggio. Le palafitte misuravano l’ingegno contro l’acqua, l’altezza e il rischio. Le capanne raccontavano il lavoro della terra, la fatica condivisa, la comunità nascente. Le cascine intrecciavano vita e produzione, giorno e notte, respiro umano e respiro animale. Poi arrivarono i palazzi, le ville, le città: il segno visibile delle gerarchie sociali, del potere, della ricchezza.
Ogni epoca ha scolpito nello spazio la propria idea di vita. Ma sotto le forme, i materiali, le torri e i tetti, resta la stessa necessità: protezione, appartenenza, bellezza e memoria. Perché abitare è ricordare chi siamo e chi vogliamo diventare.
Nel mondo contemporaneo, le tipologie abitative cambiano a seconda delle latitudini, culture e climi, ma le aspirazioni restano le stesse: salubrità, per la salute del corpo e della mente; comodità, per il benessere quotidiano; sostenibilità, per il rispetto della natura e la riduzione dei costi.
L’abitazione del futuro dovrebbe quindi incidere il meno possibile in termini di: manutenzione (materiali durevoli e facili da gestire); tasse e costi energetici (edifici efficienti e autosufficienti); disparità sociale (stesso livello di qualità e comfort per ogni ceto).
In altre parole, la casa deve tornare a essere diritto e non privilegio, e l’architettura deve essere al servizio della democrazia dell’abitare.
Ricordiamoci che la casa non è mai fredda. È il battito lento delle pareti, il silenzio che accoglie, la luce che svela e il buio che consola. Ogni stanza custodisce gesti ripetuti, parole sussurrate, passi che diventano memoria. Quando l’uomo perde la casa, perde anche la sua narrazione: il filo del tempo si spezza, e con esso l’idea stessa di sicurezza e continuità. Abitare è un atto psicologico: è radicarsi, respirare, sentire il mondo attraverso le pareti e le finestre.
È qui che la filosofia incontra la vita quotidiana: la casa diventa spazio dell’anima, e la città stessa, se ben progettata, diventa un organismo vivente che nutre, protegge e stimola.
La segregazione spaziale, quartieri ricchi da un lato, periferie povere dall’altro, ha generato fratture sociali e culturali.
Per far crescere una vera coscienza democratica, l’ideale sarebbe un intreccio di abitazioni: case signorili, case borghesi e case popolari nello stesso tessuto urbano, in modo che il vivere quotidiano favorisca l’incontro, la solidarietà e la comprensione reciproca.
Questo intreccio non è solo architettonico, ma morale: è l’idea che l’abitare comune possa essere la base di una società più giusta, dove il rispetto nasce dalla convivenza e non dalla distanza. Solo così l’abitazione potrà tornare a essere ciò che era alle origini: una forma di vita, non solo una proprietà.
Oggi la disuguaglianza abitativa è uno dei grandi temi del nostro tempo.
Il mito dell’“housing sociale”, nato come tentativo di conciliare mercato e solidarietà, si è spesso trasformato in un compromesso inefficace: si costruiscono alloggi su aree pubbliche con fondi pubblici, ma destinati a utenti privati selezionati, con redditi comunque alti. Gli appartamenti risultano venduti o affittati a prezzi non popolari, e solo una piccola quota resta davvero accessibile. È un processo che, sotto il nome di “inclusione”, ha spesso prodotto esclusione mascherata.
Serve una riflessione profonda: l’housing sociale non ha sostituito l’edilizia popolare, ma l’ha svuotata di senso.
Si è perso il principio originario: quello della casa come diritto pubblico.
L’housing sociale non è la stessa cosa dell’edilizia popolare; la quale nasceva da un principio di diritto collettivo: lo Stato o il Comune costruivano direttamente alloggi pubblici, con fondi pubblici, per garantire abitazioni a canone calmierato ai ceti meno abbienti. Era un gesto di solidarietà strutturale, non caritativa.
L’housing sociale, invece, è spesso una ibridazione pubblico-privata: l’ente pubblico concede aree, agevolazioni o contributi, ma la gestione e la costruzione vengono affidate ai privati.
Gli alloggi risultanti sono in gran parte destinati a una fascia media solvibile, con canoni sì “moderati”, ma comunque fuori portata per i più fragili. Le aree pubbliche vengono regalate ai privati, che poi ne traggono profitto, mentre il bisogno sociale resta inevaso. È una distorsione del principio originario di giustizia abitativa, che si traduce in una finanziarizzazione della casa anche laddove dovrebbe esserci tutela sociale.
E qui mi ripeto: lo Stato non deve limitarsi a “facilitare” il mercato, ma deve garantire il diritto all’abitare. E allora guardiamo il futuro, dove tecnologia e sogno si incontrano. Settanta ettari in Giappone, affidati a Bjarke Ingels, diventano laboratorio di una città che respira. Ogni edificio funziona con celle a combustibile a idrogeno: aria pulita, zero emissioni nocive, unico scarto, vapore acqueo. Non è fantascienza, è progettazione utopica, pragmatica, sensibile. Qui, la sostenibilità non è sacrificio, ma piacere: la sostenibilità edonistica, dove vivere bene significa rispettare l’aria, l’acqua, la luce.
Progetti come VIA 57 West, Mountain Dwellings o CopenHill mostrano come si possano combinare funzione, bellezza e innovazione: edifici riconoscibili, percorribili, integrati con spazi pubblici e natura, eppure perfettamente funzionali.
Nondimeno, la bellezza e la tecnologia non bastano se la città non è giusta. Il nostro principio resta fermo: la casa deve essere un diritto, non un privilegio. Ogni quartiere deve intrecciare case signorili, borghesi e popolari. Ogni strada deve favorire incontri, scambi, comprensione. Il cemento non deve separare, ma connettere; il verde non deve essere lusso, ma respiro collettivo.
Immaginiamo allora una città dove la bellezza di Ingels incontra la giustizia sociale: edifici che rispondono al sole e al vento; alloggi accessibili a tutti, progettati per la qualità della vita, non per il profitto; spazi condivisi, cortili e giardini che generano comunità; tecnologia che libera, non esclude.
C’è in questa idea di città a idrogeno, qualcosa di sentimentale come se l’uomo, dopo aver devastato il pianeta, pensasse che il solo gesto di abitare diventa un atto politico e morale, si da scoprire che, questa utopia tecnica, può servire a ricordarci di poter vivere senza ferire il mondo né se stesso.
Eppure, nel nostro cammino, non dimentichiamo i principi che ci guidano. Perché una città può essere pulita, efficiente, scintillante e tuttavia disumana. L’abitare non è solo sostenibilità o comfort. È anche uguaglianza, incontro, differenza, calore umano. Non basta l’idrogeno se manca la solidarietà; non basta il vapore se manca la voce dei bambini, o il rumore dei passi nel cortile. Ecco allora l’orizzonte in cui i nostri pensieri si incontrano con quelli di Ingels: noi vogliamo una casa per tutti, lui disegna una città che non ferisce il mondo. Insieme, forse, queste due forze possono creare una nuova forma di civiltà: un abitare che cura, che respira, che non divide più tra ricchi e poveri, ma solo tra chi ama e chi dimentica.
Un giorno, forse non lontano, vedremo sorgere città che non si chiudono nei loro recinti di vetro e acciaio, ma che si intrecciano come fili d’erba.
Città dove l’architettura sarà poesia concreta: energia pulita, aria buona, relazioni vere, luce giusta. Case che costano poco, ma valgono molto. Luoghi dove la tecnologia sarà la nuova umiltà dell’uomo. Allora capiremo che l’abitare non è un atto tecnico, ma un gesto morale. E che la casa perfetta non sarà quella più grande, o più intelligente, ma quella che non ha paura del domani. E forse, come direbbe Hemingway, con il suo sorriso amaro, “non sarà mai tutto perfetto, ma ci sarà sempre un posto dove tornare, e qualcuno che ti aspetta dietro una finestra illuminata”. E lì, finalmente, l’uomo e la casa respireranno la stessa aria.
Immaginate nella vita quotidiana, in una città del futuro, quando al mattino aprite la finestra e sentite l’aria, e l’odore dell’acqua pulita, del ferro bagnato e delle foglie appena tagliate. Lo sguardo scorre verso la piazza: i bambini camminano verso la scuola, le biciclette passano silenziose, il mercato apre con il profumo di pane caldo. Non c’è traffico, non c’è fretta. Le persone si parlano. Si guardano negli occhi. È una città che invita al gesto lento, al passo umano, alla parola che conta.
E mentre il sole vibra sulla città, le strade si animano non separano, ma uniscono: pedoni, biciclette e piccoli veicoli mentre scorrono nella stessa trama, come fili di un tessuto vivo. Da un edificio all’altro, giardini pensili e ponti verdi collegano spazi pubblici e privati. Non ci sono confini netti tra la casa e la città: tutto è continuo, poroso, condiviso. Giunge il mezzogiorno e un gruppo di operai pranza sotto un pergolato. Accanto a loro, due studenti discutono di filosofia.
L’architettura, qui, non divide per censo o mestiere: intreccia le vite, proprio come avevamo sognato.
Nei laboratori a energia pulita, si lavora in silenzio. Le macchine non gridano, non sputano fumo: respirano come animali addomesticati. E in quella assenza di rumore, regna l’armonia tra mente, materia e ambiente. E quando il sole scende, la città non dorme. Si trasforma. Le luci, alimentate dall’energia dell’idrogeno, non accecano: sfiorano. Camminando lungo i viali, si percepisce un calore umano diffuso, come se le case avessero un’anima che pulsa insieme alle persone. Dentro le abitazioni, i muri non separano, proteggono. Le luci, al giungere della notte, si abbassano automaticamente, seguendo il battito circadiano del corpo. Gli infissi respirano, i pavimenti raccolgono calore. Ogni gesto è semplice, eppure pieno di senso: aprire un rubinetto, chiudere una finestra, spegnere una lampada. Ogni gesto è parte di un equilibrio più grande.
La città a idrogeno di Ingels non è solo un luogo, è un’idea: che l’uomo può ancora abitare poeticamente sulla terra, come diceva Hölderlin. Che la tecnologia può servire la vita, e non sostituirla. Che la bellezza può essere democratica, accessibile, condivisa. E che la felicità, quella vera, non nasce dall’accumulo, ma dalla qualità del vivere: dall’aria pulita, da una finestra che si apre sul verde, da una voce che ti chiama per nome. L’abitare, allora, è questo: una forma di amore per il mondo, costruita con le mani e con la mente, con la logica e con la poesia.
È il modo con cui l’uomo, ogni giorno, dice al pianeta e a se stesso:
“Io ci sono, e voglio esserci bene.”
P.S.
L’ultima novità è, da parte del Comune, la recente decisione di aumentare la tassa di soggiorno per gli affitti brevi a 10 euro a persona, con una famiglia di quattro persone che nel 2026 arriverà a pagare 40 euro a notte, insieme all’innalzamento della cedolare al 26%, rischia di allontanare turisti e attività congressuali verso altre città. È l’esito di ciò che si temeva da tempo: nuove imposte per compensare entrate mancanti, destinate a coprire i costi del SUE e della Polizia Locale.
