Ancor più tecnologia per un migliore ambiente dell’uomo

UCTAT Newsletter n.66 – aprile 2024

di Aldo Castellano

Prometeo è una delle figure mitologiche centrali nella nostra cultura della modernità. È l’eroe divino che infuse negli uomini gli strumenti intellettuali fondamentali per affrontare il futuro (Dal fissare il destin distolsi gli uomini, e Nei lor petti albergai cieche speranze, ci dice il Prometeo di Eschilo), e che donò il principe degli strumenti materiali, il fuoco / padre d’ogni arte, con il quale appresero i modi di trasformare progressivamente il loro ambiente e la loro vita.

È per questo che David Landes appose su un suo fortunatissimo libro del 1969 sulle trasformazioni tecnologiche e lo sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, il titolo Prometeo liberato. In realtà, lo storico statunitense interpretò molto, forse troppo, liberamente la storia di quel mito.

Com’è noto, nella versione più recente di Prometeo – quella di Eschilo (stiamo parlando del l’ultimo quarto del VI e metà del V sec. a.C., e della tragedia del Prometeo incatenato, rispetto alla prima versione di Esiodo, forse degli inizi dell’VIII sec. a.C., contenuta nella sezione “Prometeo e Pandora” di Opere e giorni), il personaggio è una divinità e tutta la sua storia si svolge in un contesto divino, da condannato alle catene eterne.

Gli uomini sono e restano sempre in secondo piano. Sono citati ripetutamente solo perché destinatari dei doni di Prometeo, e non solo del fuoco, sempre ricordato, ma anche e soprattutto della consapevolezza di loro stessi.

Prometeo era libero quando fece questa impresa straordinaria a favore degli uomini, anche se contraria al tirannico volere di Zeus. Per questo pagò il terribile scotto inflittogli dal signore dell’Olimpo. Una volta liberato – ma è un’altra storia – non sembra che abbia più fatto nulla di altrettanto decisivo per incrementare l’inventività e l’operosità umana. Dunque, a rigori, non è il Prometeo liberato a poter essere considerato il mito fondativo della grande modernizzazione industriale d’Occidente, come scrive Landes, ma il Prometeo ancora libero che fu incatenato per aver creato i presupposti dai quali, dopo millenni, sarebbero scaturite le condizioni di quella rivoluzione industriale.

Nella versione di Eschilo, agli uomini non sembra imputata alcuna colpa per aver accolto i doni di Prometeo. Non erano stati i mandanti del furto del fuoco. E non li si accusava neppure di ricettazione, per averlo accolto. D’altra parte, cosa ne sapevano gli umani di quel che accadeva nell’Olimpo, e delle regole che Zeus aveva imposto al suo regno celeste?

Vero è che nessuna divinità si era mai interessata veramente agli uomini. Anzi, Zeus li voleva addirittura annientare, ma Eschilo non ne spiega il motivo. Forse lo dava per scontato, visto Esiodo lo aveva già spiegato:

Sappi – scriveva – che tengono i Numi nascosto ogni bene che valga / a sostentar la vita. Se no, col travaglio d’un giorno, / agevolmente un anno campare oziando potresti: / staccar presto il timone potresti, ed appenderlo al fumo, / dei buoi nulla varrebbe, dei muli ostinati il lavoro; / ma Giove i beni ascose […].

Pur incompleto su questo punto, il racconto di Eschilo è, comunque, più intrigante e profondo. Prometeo era già incatenato su un dirupo montano in una regione deserta della Scizia, probabilmente nell’area del Caucaso. Qui racconta del perché del suo scontro con Zeus:

Come si assise al trono di suo padre / [Zeus] divise i privilegi tra gli dei, / a ognuno i suoi, distribuì i poteri [nota mia: insomma, una specie di spoil system!]: /e non contò i mortali, gl’infelici, / anzi voleva annientare il loro seme /e seminare un’altra stirpe umana. / Nessuno gli si oppose, tranne me. / Io l’osai. E liberai i mortali / dall’essere dispersi nella morte.

Ma cosa fece in concreto per liberare i mortali?

Spensi all’uomo la vista della morte. / [… e] / seminai la speranza, che non vede. / [… e] / poi li feci partecipi del fuoco. / […] / e molte arti da essa impareranno.

Prometeo era perfettamente consapevole del proprio crimine, anche se perseguito a quel che credeva fin di bene.

Ho voluto, ho voluto il mio peccato [egli ripete]: / e non lo smentirò. Per dare aiuto / a chi moriva ebbi la mia pena.

Era palese il suo delitto di lesa maestà contro Zeus, ma non lo rinnegava, neppure davanti alle implorazioni di Oceano, suo parente:

Deponi, sventurato, le passioni, / cerca di stornarle, le sventure. / Pensi forse che dica vecchie cose? / Intanto con i tuoi detti sublimi / Prometeo, ecco che ti resta in mano. / Tu non sai farti piccolo, non cedi / ai mali, anzi ne aggiungi altri ai vecchi.

Per questo motivo si afferma spesso che Prometeo sia la perfetta incarnazione della hybris, termine che in greco significa genericamente insolenza, tracotanza. Attraverso il grande teatro greco, la parola finì per denotare la prevaricazione contro il volere divino e l’ordine delle cose, a cominciare da quello naturale, e cioè l’orgoglio che, derivato dalla propria potenza o fortuna, si manifesta con un atteggiamento di ostinata sopravvalutazione delle proprie forze.

Ma alla hybris corrisponde sempre la nemesi, la vendetta, l’ira, lo sdegno dei Numi contro il colpevole della tracotanza. E in base al diritto dei tempi, tale vendetta poteva essere consumata anche contro i discendenti del colpevole o contro quelli a lui cari, a distanza di tempo. Infatti, solo con il risarcimento del prezzo della colpa, l’equilibrio violato poteva essere ristabilito.

Mi domando: ma siamo proprio sicuri che la hybris fosse la causa scatenante della ribellione di Prometeo? Ho dubbi al riguardo. Prometeo amava, follemente amava l’umanità derelitta. Tutto sembra far pensare che fosse stato questo amore a spingerlo all’insubordinazione contro il tiranno dell’Olimpo.

Forse questa mia lettura risente troppo dell’interpretazione romantica di quella storia sublime, ma era Prometeo stesso ad affermare che l’arte è troppo più debole del fato, al quale neppure il potente Zeus avrebbe mai potuto sfuggire.

Insomma, sembra che Prometeo non credesse a un ordine immutabile delle cose, perché il fato avrebbe potuto mutarlo in ogni momento attraverso l’azione di chiunque. In questa ottica, la ribellione è insensata, perché impossibile da attuarsi, solo contro il fato, non contro il volere del Numi. Dopo tutto, anche Zeus, detronizzando il padre, aveva alterato lo status quo celeste. A quel tempo, evidentemente, il fato gli era stato propizio.

A parte il fatto che la ribellione di Prometeo era stata mossa principalmente da amore, e quindi aveva, in certo senso, una superiore dignità morale, almeno agli occhi degli uomini che ne erano comunque i beneficiari, se l’equilibrio non faceva parte dell’ordine immutabile delle cose, anche la nemesi dei Numi per punire la hybris diventava un semplice atto vendicativo da parte del più forte contro il più debole, privo di qualunque giustificazione morale.

Negli ultimi cinquant’anni, il tema della hybris e della nemesi si è fatto ricorrente nella cultura dell’ecologismo, tingendosi spesso di forti accenti da religione laica. La hybris è attribuita essenzialmente agli uomini che governano il progresso tecnico-scientifico-industriale, e la nemesi è rinvenuta nel danno stesso provocato alla nostra qualità di vita dal deterioramento ecologico del nostro ambiente. Sembra superfluo dire che la storia dell’industria ha testimoniato e continua a testimoniare, purtroppo, molti crimini contro l’ambiente e, dunque, contro l’uomo.

Tuttavia, anche a costo di venire frainteso – cosa che proprio non vorrei, sia ben inteso – credo sia necessario non fare di ogni erba un fascio e che occorra distinguere, precisare.

Di frequente si sente dire che noi continuiamo a procedere tra un irresistibile impulso per la hybris e il terrore per la nemesi. Sogniamo la ribellione di Prometeo, ma temiamo la sua inevitabile condanna. L’una e l’altra polarità sembrano diventate la Scilla e Cariddi della nostra cultura. Per evitare il baratro, che si apre dall’una e l’altra parte, si dovrebbe mantenere la rotta al centro, ma è sempre molto faticoso. Certo, la Speranza, donataci da Prometeo, agisce quasi come la spoletta di un telaio: fa passare la trama della hybris attraverso l’ordito della nemesi, intessendo così la nostra storia.

Mi domando se la nostra vita attuale sarebbe mai stata possibile senza questa serrata dialettica, certamente irta di insidie e di pericoli, che ci ha portato sino all’oggi. Troppa hybris è certamente un mortale atteggiamento demoniaco, ma troppo terrore della nemesi porta all’impotenza e alla conservazione dello status quo, con tutti i difetti che siamo soliti riconoscergli.

Eppure, nonostante questi noti pericoli, pare stiano diventando sempre più numerosi coloro i quali sentono la necessità di avvicinarsi temerariamente a Scilla oppure a Cariddi, abbandonando la rotta centrale. Come tifosi sportivi, parteggiano convinti ora per l’uno ora per l’altro partito: quello degli eroi che intendono sfidare l’ira dei Numi, e quello di coloro che stanno immobili, quasi senza respirare, per non suscitare in alcun modo l’ira dei Numi.

Nel 1964 Herbert Marcuse aveva paventato l’avvento de L’uomo a una dimensione. È sorprendente come quella condizione eserciti ancora tanto fascino anche tra i giovani. Ma mi domando: senza inclusività, senza un polo positivo e uno negativo, un alto e un basso, un bello e un brutto, come l’energia elettrica delle idee potrà mai prodursi? Come potrà esserci vita? Chi mai costruirà il tessuto della nostra storia?

È frequente sentir dire che il presente sia autosufficiente; che la gioventù non abbia bisogno di altro che di se stessa; che la natura sia sempre buona; e che l’uomo sia la fonte di ogni malvagità. Ma ne siamo proprio sicuri di questo manicheismo? Mi sembra che il male e il bene alberghino un po’ dovunque, anche là dove mai non ce lo aspetteremmo.

All’indomani del catastrofico terremoto di Lisbona del 1° novembre 1755, che con una magnitudo tra 8,5 e 8,7 della scala Richter distrusse la città e uccise tra il 25 e il 30% della sua popolazione, cioè tra 60 e 90.000 abitanti su una popolazione stimata in 275.000, Voltaire scriveva furente un poemetto di 234 versi contro la teodicea di Leibniz. Secondo il filosofo tedesco tutto è bene in questo nostro mondo, ed è perciò che è il migliore dei mondi possibili.

Erano parole terribili e inusitate in un uomo dei Lumi, ottimista per definizione.

Jean-Jacques Rousseau gli obiettò subito che il terremoto di Lisbona non avrebbe fatto tante vittime se gli uomini avessero continuato a vivere in piccole abitazioni campestri e non si fossero ammassati nelle città in case a più piani. Insomma, molto spesso anche il male fisico dipende dall’uomo o meglio dallo sviluppo stesso della storia dell’uomo che, abbandonando le forme semplici e pacifiche della vita agricola, si è trasformato in cittadino e quindi, per cupidigia o per necessità, costretto a vivere in grandi centri sovraffollati, maleodoranti e, appunto, insicuri.

Prototipo della gauche caviar, seppur geniale, Rousseau era nato a Ginevra e vissuto a Torino e Parigi, che – mi sembra – non erano proprio la sospirata campagna; e aveva svolto attività piuttosto distanti dalle forme semplici e pacifiche della vita agricola.

Con la catastrofe naturale di Lisbona e la risonanza che quel tragico evento ebbe in tutta Europa, l’Illuminismo aveva perso di colpo l’innocenza originaria e si era aperto alla modernità romantica, peraltro, presagita dallo stesso Rousseau: una modernità fondamentalmente ambigua, come un Giano bifronte. Da una parte era democratica e dall’altra dittatoriale; da una parte liberale e dall’altra reazionaria; era internazionalista, ma anche nazionalista; era tecnologica, ma anche antitecnologica; artificiale e naturale, una accanto all’altra. E ciascuna di queste polarità contrapposte spesso intendeva imporre la propria agenda, e pretendeva l’esclusività, e, se possibile, anche il dominio sull’altra.

Negli ultimi decenni del Settecento che precedettero la grande conflagrazione politica e sociale d’Europa, aveva preso avvio il fatale take off dell’industria moderna, con le sue brutture sociali ed estetiche descritte, tra altri, da Francis Klingender in Arte e rivoluzione industriale del 1947, e rappresentate, ancora tra molti altri, da Joseph Wright di Derby, morto nel 1797. E proprio in quel periodo di precoce industrializzazione si diffuse in Inghilterra, come non mai, la passione per la natura.

In realtà, era stata coltivata e amorevolmente cresciuta dalla “confraternita dei giardinieri” sin dai primi decenni del Settecento, rivoluzionando la botanica e i giardini d’Europa. La storica e scrittrice tedesco-britannica, ma nata a New Delhi, Andrea Wulf, ci ha lasciato un vivido affresco di quell’epopea straordinaria in un bel libro del 2008, pluri-premiato.

Certo, con il tempo, il sentimento della Natura, in origine forse un po’ troppo incipriato di Arcadia, era maturato, facendosi più robusto e positivo. Con l’evento di Lisbona, anche le prospettive attraverso le quali si guardava alla natura erano mutate. La semplice passione individuale delle origini settecentesche si era tramutata in moda collettiva, consumistica; anzi, addirittura, in frenesia capricciosa. Nell’eventualità di un’altra improvvisa catastrofe, forse era meglio ingraziarsi la natura, se non altro a scopo scaramantico.

Nel 1711, a 23 anni, Alexander Pope aveva scritto An Essay on Criticism, in cui lanciava questo invito:

Per prima cosa segui la Natura, e forma il tuo giudizio / in base al suo giusto modello, che è sempre lo stesso: / La natura infallibile, ancora divinamente luminosa, / Luce chiara, immutata e universale, / […] / La Natura, come la libertà, è limitata solo / Dalle stesse leggi che inizialmente la ordinarono

Poi nel 1731, a 43 anni d’età, con An Epistle to the Right Honourable Richard Earl of Burlington, aveva suggerito di non dimenticare mai la Natura (sempre con l’iniziale maiuscola) in tutti i lavori di costruzione o di giardinaggio; a tener conto del Genio del Luogo; e a essere consapevoli che la Natura dipinge e progetta insieme al nostro lavoro, anticipando le idee che Ian McHarg avrebbe espresso nel suo libro seminale del 1989, Progettare con la natura.

Questo delicato e poetico atteggiamento riflessivo sulla natura si era trasformato negli ultimi decenni del Settecento in una vera e propria passione frenetica floreale e per il giardinaggio, che, incubata in Inghilterra, si era diffusa come un’epidemia virale in Europa e nel Nuovo Mondo. Almanacchi botanici a buon mercato; manuali di orticoltura da pochi soldi; a Londra c’erano più di 200 vivai.

La mania dei fiori si manifestava anche negli aspetti della vita quotidiana: abiti ricamati e dipinti a motivi floreali. Gemme e metalli preziosi venivano utilizzati per comporre realistici bouquet con cui adornare le scollature delle donne di mondo. Dipingere e disporre artisticamente i fiori erano popolari passatempi femminili. Anche i conducenti di carrozze pubbliche esibivano «mazzolini fioriti» appuntati alla giacca. Le dame inglesi utilizzavano elaborate parrucche per crearvi sopra giardini mobili, sostenuti da filo metallico, rivestito di tessuto e crine di cavallo, e cosparsi da abbondante farina. Erano decorate con ghirlande di petali, boschetti in miniatura e aiuole. Le più estrose o le più esibizioniste, vi aggiungevano anche minuscoli giardinieri, sulla testa. Le ragazze, naturalmente, erano all’avanguardia in fatto di moda. Un commensale a una cena aveva osservato che

undici damigelle avevano sul capo, tra tutte, un acro e mezzo [oltre 6.000 mq, non so se mi spiego] di macchie di arbusti, oltre a prati digradanti, riquadri erbosi, aiuole di tulipani, ciuffi di peonie, orti e serre.

A parte la figura retorica dell’iperbole, la cosa era seria, e contagiosa. Era tracimata anche alla corte francese. Maria Antonietta aveva una parrucca che riproduceva un intero jardin anglais.

Un po’ per accoûtumance, per consuetudine, e un po’ perché i tempi si erano fatti terribili, il periodo sentimentale e capriccioso del giardino ebbe fine nel corso dell’Ottocento. Subentrò un atteggiamento positivo, scientifico, per la natura, da parte degli specialisti; ma la capacità di vedere l’arte nel giardino da parte dell’opinione pubblica si affievolì progressivamente verso gli ultimi anni del XIX secolo.

Intanto, però, la hybris trionfava. Anche gran parte degli oppositori del mercato capitalistico, potentemente venuti alla ribalta con larghissimo seguito nelle classi lavoratrici più umili, non avevano nulla da obiettare al riguardo. La Scala di Milano poteva mettere in scena l’11 gennaio 1881 il trionfo della scienza con il Ballo Excelsior, gran ballo “mimico” di Luigi Manzotti su musiche di Romualdo Marenco.

Certo, nel frattempo, a partire dalle antiche radici romantiche si era fatta strada l’erosione progressiva dell’idea stessa di razionalità, poi accentuatasi ulteriormente di fronte agli eccessi positivistici che sembrarono dominare il secolo. La Belle Époque, l’ultima stagione trionfale dell’Ottocento, dilaniata tra i cantori del progresso e quelli del bel tempo che fu, finì con un colpo di pistola a Sarajevo. In nome del progresso, da tutti invocato, ci furono nell’arco di 30 anni, una di seguito all’altra, due guerre mondiali, una rivoluzione sociale e due genocidi.

Ma cosa era, ed è, da intendersi con progresso? Il progresso industriale, tecnologico, scientifico, sanitario, artistico, culturale, sociale, umano, o altro ancora? Ognuno aveva ed ha un’idea diversa di progresso. Il fatto è che alcuni di quei progressi erano e sono reali, incontrovertibili, almeno se misurati sul piano quantitativo. Ma, come la libertà di ciascuno è delimitata da quella degli altri, anche il progresso di qualcosa lo dovrebbe essere in relazione a quello degli altri. Che senso ha un progresso che determina un regresso da qualche parte attorno a sé?

Si dice che tutti i progressi sono frutto di rapine, perché sono sempre giochi a somma zero, tali per cui il guadagno o la perdita di uno è perfettamente bilanciata dalla perdita o il guadagno dell’altro. Spesso ciò accade, senza dubbio, e la nemesi dei Numi sembrerebbe suggerirlo, ma non sempre è stato così. Ci sono anche le conseguenze di qualche progresso, che portano a un gioco a somma positiva. Mi sembra che debellare le malattie, allungare la vita media degli uomini e diffondere il benessere sia da considerare un progresso a somma positiva. Qualcuno senz’altro dissentirà, affermando che anche questi progressi sono, dopo tutto, a somma zero, se non altro perché, così, l’Inps è costretta a caricarsi di sempre più pensioni da corrispondere, che dissestano i suoi bilanci e fanno imporre nuove tasse ai contribuenti.

Ma con questo tipo di ragionamento si sta forse equivocando. Si confondono le conseguenze inevitabili, non intenzionali, di ogni azione – e anche di ogni parola – con il gioco di rapina a somma zero, con il prendere, cioè, quel che si toglie all’altro.

Questo non vuol dire che questi effetti collaterali non costituiscano un problema, e anche serio. Tuttavia, non sono necessariamente l’esito della nemesi divina, ma solo il frutto matematico e fisico del cosiddetto effetto farfalla, che già nel 1950 Alan Turing anticipava nel saggio Macchine calcolatrici e intelligenza, affermando che

lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, in un dato momento, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza.

Più poeticamente Edward Lorenz intitolò una sua conferenza del 1972, dando così il nome a quell’effetto: “Può, il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?» Ovviamente, la risposta era affermativa.

Per quanto si cerchi saggiamente di mantenere centrale la rotta tra Scilla e Cariddi, gli effetti collaterali inintenzionali si presenteranno sempre, qualunque sia la nostra azione, conservativa o innovativa. Dobbiamo individuarli il prima possibile e provvedere a mitigarli. In questo, solo una tecnologia adeguata alla bisogna può esserci d’aiuto. Non è il caso di continuare a disprezzarla.

Per fortuna, la natura è anche molto generosa, e con grandi capacità di resilienza. Ma non bisogna volutamente forzarla a dare quel che essa non può dare, almeno subito. Va, al contrario, curata e rispettata, come penso dovremmo fare con il nostro prossimo. Dopo tutto, sia l’uomo sia la natura hanno entrambi uno stesso destino comune, e fanno parte di una medesima vita.

Nel 2007 il giornalista americano Alan Weisman si cimentò in un curioso, ma istruttivo esercizio intellettuale: come sarebbe Il mondo senza di noi, dopo 48 ore, dopo 5 giorni, dopo un secolo, dopo 500 milioni di anni? I quadri descritti in questo libro, che nessuno, ovviamente, avrà mai modo di verificare de visu, sono basati su previsioni fondate sulle nostre attuali conoscenze scientifiche. Possiamo, però, verificarne l’attendibilità, su scala locale, nei tanti territori abbandonati dall’uomo. Un caso istruttivo è stato, ad esempio, la catastrofica tempesta Vaia di fine ottobre 2018 che, per i soli venti di oltre 200 km/h, fece scempio di ben 41.000 ettari di bosco con 42 milioni di alberi abbattuti, fra il Triveneto e parte della Lombardia. Tutti gli specialisti furono allora concordi nell’affermare che effetti così imponenti erano spiegabili solo con l’estremo indebolimento delle foreste in assenza di costante manutenzione.

Concludendo, mi sembra di poter dire che l’uomo con la sua tecnologia, purché adeguata, non costituisce affatto il problema per la sopravvivenza del nostro ambiente, come molti vogliono credere, e farci credere, ma, al contrario, la sua unica possibile soluzione. Naturalmente, sto parlando di un uomo che, come Prometeo, ama ciò per cui combatte, ribellandosi, se necessario, allo status quo.

Largo Treves, demolizione edificio di Arrigo Arrighetti
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