C’è ancora un paesaggio agricolo?

UCTAT Newsletter n.82 – ottobre 2025

di Marino Ferrari

Gli effetti del buon governo di Lorenzetti, comunica in modo esemplare il rapporto tra la città e la campagna, un rapporto impostato sull’equilibrio tra la natura e la presenza dell’uomo: è la rappresentazione di una scena che coinvolge la natura e le attività dell’uomo in un determinato contesto ed in un determinato momento. Ci comunica gli effetti che ha la capacità dell’uomo di costruire una foma di equilibrio. Sfogliando di seguito altre opere pittoriche si nota la rappresentazione dei luoghi nei quali l’uomo svolge le sue attività materiali per produrre messi e strumenti per soddisfare le proprie necessità, il soddisfacimento dei bisogni reali quotidiani. Gli artisti rappresentano la realtà con tecniche e linguaggi diversi che riescono a comunicare i luoghi, gli aspetti sociali e anche i caratteri delle popolazioni che li abitano. Sono rappresentazioni realizzate con linee, superfici e colori che lasciano alla percezione degli osservatori la più ampia interpretazione. Se in un ambito squisitamente speculativo pensassimo alle ambizioni filosofiche trasmesseci dalla storia, ci troveremmo a considerare la vita spirituale come un motore di sviluppo e di potenza. Ma la modernità, o almeno quella che rimane, ci obbliga a vivere realtà contrapposte: quella squisitamente banale e quella coltivata dai bisogni accanto a sacche di miseria; entrambe invischiate nella stessa materia della realtà oggettiva. D’altro canto, l’aspetto illusorio appare quello che tende in modo costante a costruire regole anche nella forma di leggi, le quali alla fine, si evidenziano nella realtà come fugaci astrazioni. Rispetto al paesaggio agrario si evince invece la contraddizione tra ciò che appare, si vede, e ciò che si interpreta. È anche vero che la lettura di un paesaggio, se ridotta ai criteri delle modalità artistiche, tende alla astrazione proprio là dove i suoi contenuti non si arricchiscono ma si affievoliscono abbandonando così la possibilità di indagare sulla sua natura e sulla sua umanità alla quale essa si relaziona. L’opera d’arte pittorica invita alla comprensione dei paesaggi in termini comunicativi e didascalici, scolastici, che sollecitano ad andare “oltre”, ad immergersi nelle origini di “tutto il paesaggio”. Il paesaggio agrario, infatti, accompagna l’uomo dalla sua origine in tutte le esperienze tese a modificarne la struttura; il disegno che ne consegue, in base alle esigenze personali e collettive, è verosimilmente la forma del realismo. Il realismo della terra coltivata mette a disposizione un lessico estraneo a quello urbano per questo è in grado di spiegare non solo la natura specifica di quella realtà ma tutti i meccanismi economici che, pur nella loro complessità storica, li governano. È questo il più semplice ed immediato rapporto con la Natura, un laboratorio nel quale empiricamente si apprendono e si aggiornano le lezioni umane, un laboratorio che annota come l’uomo riesca ad imprimere alla natura quelle forme che modificano il suo paesaggio. Oggi, un rilievo satellitare notturno riesce ad individuare la portanza dell’inquinamento luminoso di un luogo e allo stesso tempo come conseguenza scientifica, permettere di leggere lo sviluppo economico di una nazione. La campagna mostra il paesaggio agricolo come la montagna mostra il paesaggio montano, e la città il suo “paesaggio” ma, per avvicinarsi al paesaggio della città, la percezione si rende, invero, difficoltosa perché occorre abbandonare la lezione della campagna: è arduo distinguere infatti dentro le mura degli edifici le presenze umane con tutti i loro molteplici comportamenti e tutti meccanismi che hanno prodotto le forme che li accolgono. È una esperienza a volte praticata nei secoli quella del paesaggio agrario entro la cerchia delle mura cittadine[1] . Il paesaggio agricolo invece ha il privilegio di mostrare per intero il rapporto dell’uomo con la natura perché senza di esso il paesaggio verrebbe meno della sua “anima”; verrebbe meno la sua definizione di natura come “parti di terra” unite alle opere dell’uomo nella infinita connessione delle cose, l’ininterrotta nascita e distruzione delle forme, l’unità fluttuante dell’accadere”.[2]. I paesaggi danno certamente l’idea dei territori ma in particolare sanno individuare e classificare i luoghi, le parti che lo caratterizzano sotto tutti i profili. Dentro il ricrearsi della natura e delle opere umane il paesaggio agricolo assume in sé una oggettiva responsabilità, quella di creare le più semplici forme di socializzazione. Rincorrendo le definizioni di paesaggio si trovano articolazioni che sembrano però avere in comune il “disegno”, la definizione dello spazio mediante il disegno e da questo “punto di vista” l’arte è in grado di proporre allusioni e immaginazioni. Il disegno della campagna non è spontaneo, è organizzato in spazi precisi calcolati sulla base del coltivo e le coltivazioni sulla base della loro produttività: tutto regolato dai bisogni, sin dalla Tavola Di Eraclea ove si rappresenta la forma regolare dei campi con strade di servizio vicinali; e ciò è andato sviluppandosi e modificandosi sulla base delle “scelte” coltive, dai sistemi a campi di erba a quelli delle piantagioni arboree ed arbustive. Colture di tipo capitalistico che si improntano al progredire del commercio non solo locale ma anche con l’estero; campi larghi per avere campiture lunghe quasi a perdita d’occhio ma anche contrastate da vegetazioni che ne confondono l’immagine, sono questa impronta. Vere spianate che ritroviamo facilmente oggi nelle estensioni a monocoltura. La campagna è a servizio della città; produrre fuori dalla città e portare i prodotti della campagna all’interno della città sapendo che il lavoro della campagna è ben diverso dal lavoro nella città; ma altresì lavorare all’interno della cerchia delle mura cittadine, come descrivono immagini pittoriche. Un paesaggio diverso rispetto al rapporto con la Natura, ma certamente un paesaggio. Il paesaggio agrario è andato modificandosi nel tempo per l’intervento dell’uomo, ad esempio, con i piani di colonizzazione e con le opere irrigue legate ai latifondi e generatrici di novità paesaggistiche. L’uomo scopre dopo la pastorizia, intensa nel periodo feudale, l’agricoltura e costruisce le regole in base ai cicli naturali e a loro volta strettamente legati ai cicli dell’acqua e dei terreni fertili. I benefici che offre la città sono le trasformazioni dei prodotti agricoli, le trasformazioni con le conseguenti accumulazioni di ricchezze, che portano allo sconvolgimento del rapporto con la campagna. I processi di industrializzazione modificano drasticamente le relazioni tra la città e il mondo agricolo modificando entrambi i paesaggi. L’industria preleva la mano d’opera dalle campagne e dai boschi per portarla nelle fabbriche ove il lavoro mantiene precisi ritmi di vita e, in apparenza, diverse forme di libertà; allo stesso tempo il contadino, diventando operaio per contro, vive contraddizioni completamente diverse da quelle originarie e le sue forme di libertà si trasformano in forme nuove di socializzazione. Ora il capitalismo è fuori dalle fabbriche ed il vecchio contadino si trova ai margini della organizzazione sociale nonostante i luoghi della sua atavica produzione rimangono, sia pure ristretti e contaminati dall’apporto intensivo di fertilizzanti, oggetto della produzione. La coltivazione dei campi, la raccolta dei foraggi, l’allevamento del bestiame che in parte veniva utilizzato per alleviare le fatiche dell’uomo, sono i processi che lasciano sul terreno segni indelebili  delle fatiche ma contemporaneamente esprimono una particolare bellezza che scandisce in modo armonico l’equilibrio con la natura; campo aratro secondo una precisa regola, simmetrica o ondulatoria secondo la natura del terreno, filari di alberi posti sulle ripe dei canaletti per segnalare i confini di proprietà. La natura del terreno colora di seguito i campi e i campi mutano i loro colori durante le fioriture e i raccolti. È un principio semplice, anch’esso legato al divenire della Natura: permette di affermare che qui il paesaggio altro non è che la forma armoniosa dell’equilibrio tra il lavoro dell’uomo e la natura. Una forma che inevitabilmente ha una matrice economica. E ciò avviene anche sulle montagne ove grappoli di case in pietra rimarcano la presenza dell’uomo dentro la metamorfosi della natura anche qui di colori, di forme e di biodiversità. La medesima biodiversità si trova nei paesaggi di campagna: campi coltivati a mais, altri a frumento intercalando foraggio, foraggio per il bestiame, fioriture spontanee di coronamento unite alle erbe; forme e colori diversi ma accomunati dalla medesima presenza della natura e degli uomini, forme che si aggiornano al mutare delle stagioni e dell’intervento dell’uomo. La raccolta dei frutti è una celebrazione, un rituale che induce a feste tramandate di generazione in generazione. La città, diversamente, esclude per definizione il rapporto con il prodotto della campagna semmai ne consente la celebrazione in forma di oggetto. Senza esagerare con impressioni in grado di sollecitare le sensazioni dello spirito e le poetiche rivelazioni dell’animo, il lavoro dei campi definisce il presupposto del paesaggio. Il paesaggio lo si può definire in tanti modi lasciando a ciascuno la sua spiritualità interpretativa della realtà ma senza dubbio le forme e le colorazioni delle superfici, lo spessore ed anche il profumo delle terre, non può lasciarci indifferenti. Il realismo del suolo coltivato mette a disposizione un lessico estraneo a quello urbano che appartiene invece alle forme diffuse dell’antropizzazione. Qui il linguaggio permette di realizzare con immediatezza sia il rapporto con la natura modificata ma anche i sistemi di appropriazione volti a sostenere ed anche a valorizzare la visione economica. Qui è più semplice ad un confronto con la lettura dei meccanismi invece forieri di diversità economiche che appartengono alla complessa organizzazione urbana. Anche la Geografia coglie questi aspetti come dettagli in grado di contribuire alla classificazione dei territori per forma, superficie, confini. In opposizione alla raffigurazione urbana, sia pure cartografica, quella territoriale si distingue per un valore diverso nella rappresentazione dei luoghi, valore pregno di complessità naturali ed antropologiche. La bellezza del paesaggio agrario è la bellezza che educa la bellezza di tutti gli altri paesaggi; è la bellezza dell’uomo che coltiva la sua sopravvivenza in un rapporto intenso e diverso dagli altri con la terra, con i suoi prodotti, con i processi di maturazione e di raccolta, di trasformazione: tutto ciò che ha celebrato pagine di storia viva ed anche drammatica di un paese. La socializzazione nelle campagne con la cooperazione nel lavoro di altre famiglie ha gettato le basi di una socializzazione diversa e addirittura opposta a quella urbana; una sorta di confine materiale e politico con la città, con la sua crescita e le sue vicissitudini, con la realizzazione di architetture educate fatte con i materiali della terra, addirittura rendendole aristocratiche sia per le condizioni economiche e sociali, sia per la visione della realtà. La città è in continuo sviluppo e si “allarga” sottraendo spazio alle coltivazioni; il paesaggio rurale è pur sempre dinamico, ciclico, caratterizzato dalle colture ma vivendo anche la profonda contraddizione con i processi industriali; eppure, si adegua modificando di volta in volta le sue vocazioni originarie. L’industrializzazione dell’agricoltura trova la sua matrice nell’esasperato bisogno produttivo e corrisponde, con innovazioni tecniche alla necessità produttiva della industria. La maggiore produttività annulla le biodiversità, si omologa e disegna nuovi luoghi con colture intensive, abbatte le capacità rigeneratrici della Natura. Ogni passaggio sulla terra, ogni intervento segna una mutazione completa. Sottraendo “mano d’opera” per immetterla nella produzione, la città lascia sguarnita la campagna: la coltivazione delle terre vien meno, abbisogna di attrezzi che sostituiscano gli animali e la manodopera. È per la campagna una ferita innanzitutto, anche se, la industrializzazione porta con sé innovazioni produttive e benefici complessivi. Con la meccanizzazione del lavoro le terre e le coltivazioni mutano le forme e di conseguenza le rappresentazioni cartografiche ufficiali. Il terreno viene manipolato oltre la sua naturale misura; le colture appaiono più rigogliose, comunicano colori ed equilibri nuovi ma che appaiono astratti: il fascino della industrializzazione colpisce la campagna. La campagna abbandona l’antico e atavico rapporto con gli uomini, si modifica nei regimi temporali, ha subito il ricatto profondo ed inevitabile con la città: la città, luogo di transizione del capitalismo e sede delle maggiori contraddizioni sociali e culturali, restituisce alla campagna barlumi di cultura nelle forme degli oggetti utili sia alla vita quotidiana sia alla produzione del surplus richiesto dal mercato. Le macchine servono alla produzione capitalistica per produrre sempre più e scambiare i prodotti sempre meglio. Le multinazionali della produzione agricola si appropriano del paesaggio cambiandolo con l’avvicendamento e la dimensione delle coltivazioni. La campagna subisce le trasformazioni economiche e il suo paesaggio con la sua produzione si ridisegna; dove erano colture in armonia ora vi sono superfici di  grandi estensioni, grandi spazi la cui tavolozza dei colori è assente e condanna l’antica poetica visione di molti artisti alla monotona riduzione interpretativa: tutto cambia, il contadino considerato “stupido” si è forzatamente scordato della biodiversità, degli indispensabili contrasti con la Natura, con i cicli delle stagioni con le rugiade e le nebbie, che anzi diventano ostacolo alla movimentazione meccanica, come un tempo le alberate infastidivano gli eserciti occupanti. Gli edifici agrari vengono soppiantati da quelli industriali dove anche la destinazione ed uso sovvertono le modalità agrarie.  Il contadino trasformato in operaio cittadino ha perso nella città anche la dignità del lavoro. Ora la città si serve con modestia dei prodotti della sua campagna, produce altro, ma il territorio ed i suoi luoghi rimangono pur riducendosi ad una diffusa antropizzazione edilizia; si rattrappisce il rapporto con la città e con esso si affievolisce la percezione delle vecchie mutazioni del paesaggio. La complessità del territorio, cara anche ai geografi superato il distacco tra l’arte e la scienza, si abbandona inevitabilmente alle strumentazioni tecniche che non ammettono astrazioni pittoriche. Gli strumenti informatici costruiscono virtualità e ne restituiscono con compiutezza una immagine che non abbisogna di spiritualità ma che deve limitarsi alla compiutezza di un procedimento in grado di restituire la corretta integrazione dei processi di governo del territorio. Il paesaggio agrario perde i colori dell’umanità rivissuta nei secoli e acquista i colori delle macchine e dei sistemi tecnologici; l’organizzazione dei coltivi è quella esclusiva della grande produzione, la quale sa di vivere una grande consapevolezza come contraddizione: senza i campi anche la città scompare e con lei gli strumenti del sistema produttivo. Pertanto, e ancora una volta, vale la pena di produrre la quantità nella convinzione che essa sia un giusto succedaneo della qualità?. Il paesaggio agrario rimarrà per, dirla con Emilio Sereni (in storia del paesaggio agrario italiano); anche se un tempo si affidava il destino del paesaggio agrario alla pratica di milioni di donne e di uomini in lotta per la vita e per il progresso civile delle nostre campagne, di tutta la nostra società.


[1] I campi chiusi entro la cerchia delle mura di Bologna nel ‘500

[2] G. Simmel saggi sul paesaggio Armando editore      

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