C’è poco da ridere

UCTAT Newsletter n.66 – aprile 2024

di Alessandro Ubertazzi

Qualche tempo addietro, mentre ancora insegnavo alla Facoltá di Architettura dell’Università di Firenze, mi sono accorto che era cominciata l’era dell’“insofferenza” dei genitori sui voti ufficialmente riscossi dai loro amati ma poco studiosi figli: in realtà, proprio allora mi capitò di essere aggredito dal padre di uno studente che aveva ricevuto da me un voto scarso almeno quanto scarsa era stata la sua preparazione.

Episodi simili sono riportati ogni giorno su tutti i giornali: sempre più spesso, coloro che hanno torto marcio o, pur manifestando livelli inaccettabili di incompetenza, ritengono indebitamente di avere ragione, “ricorrono” in alto loco con lo scopo di ottenere una immeritata giustizia amministrativa da parte di agenzie oggettivamente incompetenti nel merito e, semmai, molto attente ai cavilli formali delle circostanze.

Parenti di pazienti aggrediscono medici e infermieri ai Pronto Soccorso nella illusione di essere medicati meglio o più celermente degli altri, legioni di «non sa chi sono io!» pretendono immeritati favori, ecc.

L’altro giorno ho partecipato con l’amico Giuseppe Marinoni e gli altri funzionari designati all’ormai famosa riunione per valutare l’opportunità di accettare statue donate al Comune di Milano e/o per stabilire l’eventuale idoneità di certi spazi a riceverle. Tra le altre pratiche, si è trattato di stabilire se accettare la scultura in bronzo offerta dalla figlia di una scultrice (che rappresenta una giovane donna nell’atto di allattare un infante) e se collocarla nella piazza dedicata a Eleonora Duse.

Il parere, distillato all’unanimitá dei presenti, di non collocare quell’opera nello spazio ipotizzato, mi sembra tutt’ora molto motivato e saggio.

Va detto una volta per tutte che la simpatica madre concepita dalla non imprescindibile scultrice non è plasmata secondo le peraltro ampie consuetudini estetiche e formali del nostro tempo ed è comunque inadatta ad essere collocata entro i giardinetti (anch’essi non spettacolari che, però, quantomeno, vi scongiurano il parcheggio delle macchine) di piazza Duse.

Se si prescinde infatti dallo stile sostanzialmente inattuale, il grazioso oggetto apparirebbe davvero “fuori scala”, soverchiato dal perentorio contesto architettonico concepito piuttosto unitariamente dai maggiori progettisti degli anni ’30.

Poiché, fra l’altro, sono stato allattato fino a sedici mesi, nutro un immenso ed esplicito favore per il nobilissimo gesto delle nostre amate madri: l’allattamento è però, comunque, un atto elegante quanto particolarmente intimo che non è certo rivoluzionario spiattellare al centro di un modesto crocevia come quello toponomasticamente definito “piazza” intitolato alla mitica attrice di dannunziana memoria.

Naturalmente gli amici della donatrice della modesta statua si sono immediatamente inviperiti scatenando un vero e proprio putiferio: si sono così rivolti ai giornalisti “amici”, ai soliti “santi in Paradiso” e ad alcune istituzioni cittadine tirando per la giacchetta Sindaco, Assessori e perfino lo stesso Vittorio Sgarbi.

Improvvisati giornalisti-critici d’arte e magistri elegantiaum si sono stracciati le vesti gettando fango sugli incompetenti censori, ovviamente “bigotti”, complottisti e nemici dell’arte chiedendo, fra l’altro, di nominare un’altra commissione, ecc.

Devo riconoscere che il famoso detto «timeo danaos et dona ferentes» è sempre particolarmente attuale; in realtá, personalmente sono solito tradurre questa frase con «temo i greci anche e soprattutto se e quando portano doni». Dietro o dentro a ogni regalo non esplicitamente desiderato puó infatti nascondersi un pericoloso Ulisse.

Non voglio annoiarvi ma è evidente che, nel nostro simpatico Paese, ci sono troppi presuntuosi ignoranti, troppi prepotenti, troppi “no vax”, troppi terrappiattisti, troppi amici degli amici che si affidano sistematicamente all’“altrismo”.

Personalmente sono stanco di assistere a vagiti pseudo-progressisti quali, ad esempio, quelli di coloro che trasformano viale Argonne o corso Sempione da solenni boulevards in generici spazi attrezzati nei quali ricavare aree per il gioco dei bambini, piste ciclabili, zone di conversazione per anziani, attrezzature sportive, episodi di urbanistica tattica, spazi dedicati alla deiezione dei cani, ecc.

Per molti versi, l’indesiderato imbarbarimento di molti dei nostri cosiddetti simili si riscontra anche nella pretesa, squisitamente veterofemminista, di femminilizzare i termini della lingua italiana ritenuti impropriamente “maschili” sostituendo la finale delle parole in “o” con una “a”.

Molti soloni ignorano infatti che la lingua italiana deriva strettamente da quella latina che assegnava il neutro a ciò che non era esplicitamente maschile o femminile: poiché il neutro spesso coincideva glottologicamente col maschile, ancora oggi (come, ad esempio, è tutt’ora esplicito nella lingua germanica), le cose, i ruoli, le professioni sembrano maschili ma sono neutre.

Molto giustamente, le donne che hanno intrapreso la professione di architetto preferiscono definirsi “architetti” e non “architette” (termine questo piuttosto… inelegante). Se proprio si vuole accreditare come prassi consolidata, la ridicola femminilizzazione di termini pseudomaschili, l’espressione “Avvocata nostra” (dedicata nelle suppliche religiose ottocentesche alla Madonna) sembra il goffo tentativo di scongiurare equivoci di genere in qualche persona dabbene.

Ricordo con tenerezza un capo cantiere bergamasco di quelli che non ce ne sono più che definiva “geometro” il direttore dell’Impresa presso la quale lavorava: alla mia domanda sul perché di tale scelta rispose, davvero candidamente, che quel signore… era maschio.

Come dargli torto? Di quanto detto più sopra c’è comunque davvero poco da ridere.

P.S.

Con questa occasione intendo togliermi un ulteriore sassolino dalla scarpa: sembra assodato che per compiacere la scarsa conoscenza che i nostri concittadini manifestano a proposito degli idiomi stranieri, i custodi della lingua italiana si sono piegati ad ammettere l’uso di termini non autoctoni però senza declinarli, lasciandoli cioè al singolare. Ma perché allora molti si sentono nel giusto dicendo, ad esempio, «Nella tal via è stato realizzato un murales»? oppure «In quella cascina hanno costruito un silos»?

Personalmente credo che sarebbe molto meglio dire «E’ stato realizzato un murale»! ovvero «E’ tato costruito un silo» (per indicare un contenitore di autovetture, la nostra lingua prevede già “autosilo” e non “autosilos”).

Sarebbe più semplice e meno ridicolo.

Corso di Porta Nuova, edificio dell’arch. Antonio Cassi Ramelli.
Torna all’Indice della Newsletter