Contraddizioni (scomparsa l’architettura)

UCTAT Newsletter n.76 – marzo 2025

di Marino Ferrari

Occorre condurre un approfondimento sulle contraddizioni. Le implicazioni strutturali del sistema produttivo e riproduttivo sono le implicazioni capitalistiche che vengono determinate dalla divisione del lavoro e della conoscenza. La divisone del lavoro si è originata dentro le fabbriche ma si è evoluta e trasmessa in ogni ambito produttivo. A rendere “seriali”1 le implicazioni sono la divisione organizzata sulla base dei saperi acquisiti dagli individui secondo le regole della produzione. Il rapporto lavoro capitale si è senza dubbi evoluto sgomberando provvisoriamente le identità subalterne e offrendo loro, sulla base della conoscenza, l’illusione del possesso degli strumenti produttivi. L’illusione si è consumata anche drammaticamente là dove e nel momento in cui, la spontanea ribellione dell’individuo si è posta come contraddittorio vero e reale con il capitale superando decisamente e definitivamente il vecchio schema. Indagare su questa contraddizione significa indagare su ciò che ne è conseguito, ovvero sul “prodotto” generato che ha messo la forza lavoro in una nuova ed equivoca subalternità. Togliendo gran parte del lavoro manuale o seriale dentro la fabbrica, sia pure aiutato dalle innovazioni tecnologiche, la “manodopera” ha subito una metamorfosi nella quale il lavoro squisitamente materiale diviene falsamente intellettuale. A reggere la trasformazione è l’educazione trasmessa ed oggettivamente imposta dalla gerarchia dei consumi; la gerarchia dei consumi viene proposta come gerarchia dei valori. E la gerarchia dei valori mistifica la classificazione degli individui dentro un nuovo processo produttivo il cui utilizzo finale, a differenza dell’oggetto di fabbrica, e la riproduzione di sé stessi in qualità di consumatori; e qui la possente contraddizione consiste nel vedere materializzato il consumatore, l’individuo che acquista i prodotti di consumo, prodotti da sé senza la possibilità o capacità di modificarne la materia (la sostanza) e la forma (ciò che appare). Nella fabbrica, in situazioni specifiche e particolari, l’attenzione dell’operaio sul prodotto, permetteva al capitale di modificarne anche l’organizzazione produttiva in meglio, perfezionando il sistema a vantaggio della qualità e della quantità del profitto. Coinvolgere il lavoratore dentro la produzione con tutti gli strumenti possibili, porta alla partecipazione fittizia del capitale ma potrebbe, come in alcuni casi avviene, predisporre la continuità produttiva anche in assenza del capitale e di chi lo possiede. Il capitale vero e trasformato è il lavoratore come il contadino a suo tempo nella campagna.

La città è in un certo qual senso la “grande fabbrica “umana, in continua operatività dove nelle distinzioni mansionali la dirigenza è il potere politico ed amministrativo. Lì la contraddizione è ampia e articolata e sovente in grado di soccombere alla forza centripeta del divenire storico; il motore, paradossalmente, sono proprio le contraddizioni che di volta in volta si creano e successivamente si modificano in un processo dialettico. Questo “movimento” può apparire come il divenire dell’umanità, delle sue progressive condizioni materiali e spirituali, rimangono invece nella realtà in qualità di vittime che sono state escluse dai processi innovatori e culturali. Anche il comando della gestione e dell’ordine gerarchico porta in sé le molteplici compromissioni le quali per contro trasformano la contrapposizione in energia vitale. La cultura, va detto, non è un prodotto ma un processo che sovente si colloca nel sistema come sovrastruttura acquisendo la forma dei prodotti, in prima istanza virtuali, ma che sono considerati come devote offerte ai poteri. I poteri tendono ad eludersi insidiandosi negli apparati, cercando di mantenere i processi originali pur indirizzandoli verso nuovi obiettivi. Qui ciò che la divisione della conoscenza costruisce, tende ad affrancarsi dalla conoscenza stessa; la conoscenza si virtualizza per corrispondere alle impostazioni produttive dei consumi coprendosi di falsa sacralità e mostrando, nel concreto, le nudità del proprio essere. La funzione svolta trasforma la conoscenza in un inganno, una conoscenza effimera.

Nonostante il conseguente disordine urbano e periurbano ottenuto, l’oggettività viene affrontata metodicamente con un approccio mirato ad analizzare le sue criticità; proprio perché la realtà urbana è oggettiva, rimangono evidenti le implicazioni strutturali di sistema. Questa è l contraddizione principe. Ogni singola parte si manifesta autonoma e funzionale per sé stessa ma è l’insieme delle parti che forma “il sistema”. Sistema che appare alquanto lontano dall’essere affrontato seriamente; lui stesso è difficilmente catalogabile. Quando piove se non ci vogliamo bagnare apriamo l’ombrello; terminata la pioggia ritiriamo l’ombrello. Le contraddizioni urbane e periurbane2 rimangono se non vengono affrontate e risolte; ovviamente non sono assimilabili alla pioggia, pertanto vanno affrontate agendole. Comprensibile è che durante la pioggia si guardi al cielo nella speranza che la pioggia smetta, ma le contraddizioni urbane non sono volte alla speranza ma, per loro natura, alla conflittualità. Riversare la conflittualità nella realtà materiale è un metodo, forse l’unico. Le contraddizioni, da agire sono fondamentalmente quelle storiche, meglio dire storicizzate3. Esse possono definirsi all’origine dell’urbanesimo nel momento in cui la città costruita secondo regole puntuali, viene assoggettata al sistema produttivo capitalistico, il quale ha il grande “merito” di trasformarla immediatamente in città fabbrica; è lì che si sviluppa la prima grande contraddizione tra lavoro e capitale ed è lì che avvengono le prime grandi trasformazioni sociali. Fuori dalla fabbrica la città, privata in seguito della sua “ragion d’essere materiale”, privata dei suoi simboli materiali e dei luoghi della conflittualità, prosegue nella attenzione e nella gestione delle contraddizioni dando loro forma materiale in qualità di merci.

Ciononostante, e forse anche per questo, la città e costretta suo malgrado a convivere con alcune grandi contraddizioni: 1) il rapporto città campagna, il quale ha subito il suo divenire

2) la costruzione della città sulla base dei bisogni e delle merci, 3) la mistificazione del conflitto con la Natura.

L’architettura, che ha come suo ambito “culturale” l’urbanistica, espressione del governo del territorio, è una contraddizione che si consuma in sé; propone approcci differenti, in parte caratterizzati dai dialoghi con la storia, in parte con gli aspetti squisitamente materialistici che la riducono a pura edilizia; un approccio volto alla “narrazione” della sua bellezza secondo canoni immateriali fortemente legati agli aspetti reconditi della psicologia, non riesce a mantenerla in vita. Nonostante l’importanza riconosciuta dell’architettura essa rimane, all’interno del sistema4, una sovrastruttura. Ovviamente, mantenendo fede agli ambiti culturali tradizionali, l’architettura merita il dovuto rispetto essendo una delle più significative e contraddittorie manifestazioni della creatività umana. Dalle origini dell’uomo sino ai nostri giorni, l’architettura ha giocato un ruolo la cui espressività ha raggiunto livelli di sacralità. Senza soffermarci su ciò che conosciamo e condividiamo, oggi, avendo l’umanità sacrificato la sua spiritualità e la sua creatività alle innovazioni tecniche ed ai processi tecnologici, pur salvando alcune e diffuse manifestazioni di coerenza e saggezza, si può affermare che l’Architettura è morta. Di conseguenza ciò che si propone con il suo profilo ingannevole è, come detto, una pura ed anche interessante edilizia; infatti, è oramai in quanto tale, producibile e re-producibile secondo affinati processi industriali. Il percorso tracciato e visibile agli occhi attenti e critici, propone una “lettura” delle sue contraddizioni alla base dello sviluppo umano dentro a quelle enunciate, cioè, il rapporto città campagna, la costruzione della città e il conflitto con la natura, contraddizioni che sono articolate negli aspetti appartenenti all’architettura che si è mutata in edilizia. La tipologia edilizia cerca di riappropriarsi della Natura, la natura condivide le improbabili manifestazioni rappacificatorie umiliandosi e rendendosi inservibile, il rapporto con la campagna scompare definitivamente.

Il rapporto città campagna

Risulta complessa l’analisi del rapporto città campagna alla luce della contemporaneità, perché questo rapporto è inficiato (direi contaminato) dal più complesso rapporto con la natura, sostenuto se non generato dalle “narrazioni” contemporanee; rapporto che si è andato mutando dalle sue origini, origini nelle quali l’individuo è riuscito a stabilire ed alimentare per necessità, l’equilibrio. L’equilibrio scaturisce dall’economia primitiva, dall’agricoltura come forma di “progresso”. Rovinare l’equilibrio significa mettere in crisi sia il sistema famigliare (la prima forma di gerarchia sociale e di governo) quale condizione basilare dell’equilibrio, sia i luoghi della sua esistenza. Guardandolo ed esaminandolo sotto questo aspetto, quindi liberato dalle “sofferenze contemporanee” che sono attente sì alla salvaguardia dell’ambiente5 come semplice protezione diffusa, ma sofferenze rese interessanti solo sulla base dei luoghi comuni e delle conseguenti prassi “modali”; non ci si può esimere dal riconoscere, comunque, che da un lato lo studio della natura e la sua conseguente pratica hanno fatto sbocciare conoscenze positive.6 Una sorta di effetto collaterale. Per contro, analizzare se e quali frutti, in quel senso, abbia prodotto la “coltivazione” dell’uomo nell’epoca della industrializzazione capitalistica con tutto il suo divenire, risulta significativamente importante. La campagna è il luogo della produzione agricola, dei beni materiali finalizzati alla vita ed alla sopravvivenza, proprio in rapporto con la Natura quindi in una forma dialettica che, storicamente, esclude le attitudini alle quali ci siamo abituati. La Natura va in realtà osservata nella sua interezza, anziché nei dettagli, sviluppando di conseguenza il nostro motore della intuizione; l’intuizione è la prima forma di conoscenza. L’industrializzazione ha mortificato questa sensibilità mortificandone gli strumenti della conoscenza lasciandoli alle specificità scientifiche che vengono, per le loro specificità, richiamate di volta in volta. La campagna è il luogo primario delle contraddizioni che il “lavoratore” riusciva a superare ed attenuare modificando positivamente la natura dileguassi per lasciare il posto al frutto medesima. Non uno sfruttamento come normalmente viene inteso secondo le regole della produzione, ma una opportunità materiale di “cogliere dalla Natura per” trasformare “i suoi prodotti a proprio benefico. Il capitale agricolo era la vera capitalizzazione della natura. Il lavoratore della terra, sempre nel rapporto felice ed equilibrato con la sua specifica natura sia pure nelle “diverse mutazioni materiali”, concorre a costruire un paesaggio; paesaggio formato da singoli elementi naturali in equilibrio tra di loro e anche se diversamente organizzabili con l’intervento dell’uomo.7 E la modificazione del paesaggio a sua volta concorre alla dinamicità del paesaggio medesimo; solo le fasi di trasformazione trovano una “staticità momentanea” nelle opere pittoriche. Il paesaggio è dinamico e qui l’uomo ha saputo coglierne i “frutti”. Nella “costruzione” della campagna gli individui non sono precipuamente lavoratori come da tempo li conosciamo nella realtà urbana, perché il loro “sforzo” (il lavoro) è quello di conservare la comunità ed il luogo di appartenenza; più in là, individuando nel proprio lavoro un valore, subentra la tendenza a codificare il possesso del luogo e di tutto ciò che lo caratterizza. Quando il possesso del lavoro e dei luoghi passa alla città, (per induzione sistematica) il carattere della campagna si modifica, si modifica il rapporto con la natura ed anche con la città; si modificano soprattutto i rapporti sociali. Ciò che interessa in questo processo è il passaggio del lavoro da un ambito naturale a quello tecnologico che trascina con sé il lavoratore e lo trasforma da “artigiano della campagna” a un “produttore” per e della città. Modifica il suo vestito come i suoi comportamenti. I rapporti sociali si modificano di conseguenza e la città, nella sua intensa e diversificata produzione, aggiorna i cicli produttivi, procede nella industrializzazione dei processi e trasmette alla campagna i ritmi della produzione e l’organizzazione del lavoro, espropriando anche il significato atavico sia del lavoro che della sua organizzazione legata in modo subalterno ai cicli ambientali. L’industrializzazione produttiva della campagna porta all’impoverimento “energetico” delle risorse, del suolo e del sottosuolo, riversando sugli “animali allevati” (cresciuti)l’offesa della presunta loro qualità originale ( il così detto marchio). I cicli ambientali della natura vengono trascinati nella organizzazione produttiva come i cicli umani sono stati trascinati nella produzione della fabbrica. Ciò che caratterizza l’ambiente periurbano nel rapporto immediato e mediato con la campagna, è la formalizzazione dello “scambio”, per i lavoratori in termini culturali, impoverendone il linguaggio e le forme di relazione, mentre i luoghi della campagna ricevono l’imposizione tipologica costruttiva urbana; imposizione scevra, a sua volta, da ogni presupposto architettonico, vale a dire dai principi che hanno sviluppato l’architettura come forma di creatività al servizio dell’uomo. Qui è al servizio della produzione. Solo tardivamente e in termini di semplice speculazione, le regole costruttive metropolitane, con il bagaglio di presupposti culturali trasformati in beni materiali, verranno completamente trasferite alla campagna.; si ha dunque una conseguente estensione delle contraddizioni urbane ma con un impoverimento produttivo, rigenerato fittiziamente e oggettivamente necessario, che trova un riscontro nelle colture intensive ed estensive. Le colture sono oggetto di produzione su vaste scale e adottano tutte le prescrizioni della produzione chimica industriale ma applicano anche, con il supporto tecnico, il ciclo produttivo industriale basato sui tempi e sulle relative produttività. Queste colture modificano il paesaggio agrario che ha caratterizzato l’equilibrio tra la natura e le attività economiche umane. Una metamorfosi di quel paesaggio agrario che ha tonificato la storia dei nostri territori. Quindi, una estensione del capitale che in questo modo si appropria della nuova realtà omologandola al suo sistema. Omologazione che, oltre il rapporto con la campagna, trova il giusto connubio nell’urbanesimo; l’uno e l’altro in apparenza sembrano contraddirsi e di fatto si contraddicono. La contraddizione è evidente ed appare anche insanabile; si è materializzata al punto di negare ogni forma “rigenerativa”8 possibile. Rigenerare è un processo complesso e faticoso e non si può limitare alla ricerca di “nuovi contesti” in altri e differenti ambiti geografici. Riappropriarsi dei pascoli e dei boschi, di ciò che rimane, può costituire un approccio ideale accettabile se sostenuto da una misurata forza filosofica, ma le sue condizioni non possono essere quelle capaci di ripristinare le regole che lo hanno formato; regole che di fatto vengono negate nei loro presupposti. La rigenerazione per essere concreta, fuori da ogni compromissione sistemica, dovrebbe ricondursi, in termini squisitamente materiali e dialettici, a quei canoni che, espropriati dalla campagna, sono stati purtroppo neutralizzati o atrofizzati. Un processo che predisponga gli individui ad un cambiamento radicale è diversamente arduo. Il sistema ha avuto la capacità di riadattarlo alla realtà produttiva convincendolo della qualità insita nella mutazione come inevitabile conseguenza del progresso. Utopia allo stato puro.

La costruzione della città.

L’interesse da sviluppare, si sa, non è tanto sulle origini della città che, bene o male si sono acquisite; è il suo il progredire caratterizzato dalle scelte economiche di sussistenza, dalla scelta dei territori e dalla conservazione dei luoghi, i quali si andranno vieppiù uniformando con una precisa e nuova gerarchia di valori. Il passaggio dai primi insediamenti umani a quelli annoverabili con gerarchie puntuali costituisce un fascino culturale perché, nella semplicità del loro divenire, permette l’apertura di un nuovo quadro teorico interpretativo. Un quadro teorico nel quale, anche spontaneamente si collocano gli aspetti della contraddizione basati sulle forme e non sui maccanismi che le generano. I valori hanno sostenuto e dato qualità alle forme della città; le forme a loro volta hanno dato consistenza e rappresentazione ai bisogni collettivi ed individuali: questa è la primitiva forma della contraddizione. Nella gerarchia formativa si è cercato di equilibrare le esigenze delle popolazioni con quelle dei governi. Le sostanziali contraddizioni (di cui sopra) si manifestano di conseguenza anche nel passaggio dalla città “rurale” (da cui dipende una manifestazione originale del rapporto città-campagna) alla città industriale. La formazione della città si evidenzia altresì nei passaggi ciclici della produzione industriale dominata, secondo uno schema sempre valido ed inequivocabile, dal rapporto tra il capitale e il lavoro. La forma dei “due”, in una puntuale dialettica sino alla loro compromissione, ha portato di conseguenza alla formazione, nel senso vero e materiale, dei luoghi in cui si sono andati sistemando come forma pura della contraddizione. Va da sé che il dominio del capitale con tutte le sue articolazioni, ha permesso la realizzazione di parti della città, parti in grado di esprimere contemporaneamente il potere e la sua contrastante vocazione “umanitaria”9. Parti che alla fine esprimono la sintesi reale del “prodotto” e della sua “vocazione”. Una questione semplice di organizzazione dei processi e del loro controllo. Le forme di queste parti di città sono state collocate nella storia attribuendo loro una “forma di paesaggio”, sia pure fortemente discutibile per il falso riferimento al paesaggio della natura,, in grado però di dare significato ai contenuti e fornire agli abitanti i giusti strumenti adattivi ed interpretativi.10 Aspetto che la campagna non poteva avere perché la sua origine è stata tradita, manipolata, espropriata. La città invece se ne è servita per produrre la propria forma, il proprio stretto legame con il capitale, con gli strumenti della sua riproduzione e della sua collocazione nel territorio. La città ha saputo dotarsi degli strumenti capaci di gestire lo sviluppo del capitale. La bellezza delle forme doveva garantire condivisione, doveva istruire in un certo qual modo gli abitanti alla subalternità. Per questo, ponendo l’architettura ab origine nelle “sovrastrutture “del capitale, essa ha permesso il coinvolgimento del sapere e delle conoscenze dentro il lavoro intellettuale produttivo; anche i servizi venivano proposti come merce di scambio ma ammantati di progresso e di necessità. Una intelligente proposta di collaborazione materiale nel processo dialettico del divenire che trascina l’insieme urbano, nelle sue parti distinte, in un destino tutto sommato anarchico. Destino che ha sospinto e sollecitato gli intellettuali illuminati e consapevoli ad immaginare la contraddizione risolvibile nella ricerca della Utopia. Anche le contraddizioni perdono coerenza e adesione, si diluiscono; si separano dai contesti rigenerativi come le molecole dell’acqua ad una certa temperatura. Si potrebbe dire che il processo è inesorabile, inevitabile; ma qui, l’organizzazione “spontanea” del capitale riesce ad intervenire facendo propria la contraddizione, re-formandola, attribuendole nuovo significato pur mantenendone, sapientemente saldi, i caratteri della materialità e in grado di condividerle. È il bello di questa contraddizione, perché in un certo senso ne è il motore del divenire urbano, un motore coinvolgente ed avvolgente, sotto tutti i profili, materiali, sociali, intellettuali. Il suo dinamismo centripeto confonde ed inganna, dando la consapevolezza di aver trasformato sapientemente il “contadino in operaio e poi in cittadino” e collocatolo saldamente nel dinamismo urbano. Tutto ciò che accade quindi, segue le regole “spontanee” del mercato; regole che di fatto non esistono per definizione e non sono scritte nonostante vi siano dottori e sapienti che le proclamano, ma vengono date per certe ed acquisite. Non esistono, esistono solo i templi nei quali mutano le celebrazioni.11 La celebrazione del mercato di fatto costituisce la vera ed unica regola. Appartengono a quella complessa e disorganica organizzazione del capitale che ha la grande capacità di confondere, abbacinare e convincere. Le forme della città, quindi, seguono le contraddizioni e si manifestano partendo dalle sollecitazioni indotte dalla immutabile e salda divisione delle conoscenze e del lavoro. Il lavoro, trasformatosi oramai dopo l’uscita dalle fabbriche, vuole soddisfare i propri bisogni i quali, a loro volta si sono trasformati, da reali ed inequivocabili, a bisogni indotti, indotti dalla complessità delle merci, dalle loro forme e dai procedimenti comunicativi; i bisogni prodotti illudono quindi il “consumatore” con la merce acquistata e poi consumata, facendo credere che essa sia “piena” anche di contenuti culturali. La cultura con i suoi processi non produce materialità, bensì appartenenza sociale; le merci invece immediatamente sì. Le merci, come si sa, hanno una forma ed occupano uno spazio; la sommatoria indistinta delle merci corrisponde alla sommatoria indistinta degli spazi e dentro a queste “immissioni materiali nella realtà “va da sé che il pensiero culturale proceda nel tentativo di discernere e trovare ciò che lo spazio materiale ha inflitto a quello spirituale; la gioia di vivere, il piacere

delle socialità, la contemplazione ed altro ancora. La contraddizione, sempre quella, non dà sollievo, illude, spinge a reagire ma non risolve; la contraddizione non è generata dal consumatore, anzi, è anch’essa un prodotto. Il consumatore la gestisce a scapito della sua libertà. L’individuo urbano, ma non solo, si appropria inconsapevolmente della contraddizione e cerca di consumarla, appunto. Seguendo questi percorsi è possibile leggere le trasformazioni urbane, identificarle, attribuire a loro una precisa valenza, sino ad arrivare alla forma dei bisogni più grandi che fanno capo al potere economico, nuovo e rinnovato. Le cattedrali gotiche hanno segnato la storia, le loro cuspidi non appaiono più nella nebbia agli ultimi crociati di ritorno ma rimangono alla contemplazione dei posteri; ora, quelle dei grattacieli sono perfettamente visibili e contraddistinguono il paesaggio urbano formalizzando la più esecrabile iattura della città: la perdita dei suoi caratteri storici, dei i suoi connotati culturali e del suo controllo democratico. Ciò che viene definito identità. Diventa altresì macchinosa la lettura e la interpretazione della città che si è realizzata mediante stratificazioni, secondo il principio della sovrapposizione storica. Ovviamente ben lontano da quella dialettica che si perde fuori dalla universalità e finisce con la natura stessa degli uomini. E qui si nasconde il principio contraddittorio della stratificazione e delle parti con le quali si è via via costruita la città, quasi fosse un processo naturale. La lettura si può estendere ovviamente alle forme “innovative”.

La forma da tempo appare governata dai materiali; i materiali sono governati dalla produzione, la loro forma è “stabilita dal ciclo produttivo”. La sola mediazione consiste nel “disegno” del prodotto; materia, forma, produzione, utilizzo. Cogliere la bellezza tecnologica del prodotto induce immediatamente ad esibirne le applicazioni nella creazione di volumi (involucri) all’interno dei quali, e di conseguenza, manipolare le tipologie abitative utilizzando la semplice classificazione dei materiali, scevra da ogni relazione con i “bisogni”. Molte di queste affermazioni ricordano l’edilizia popolare sovietica, molto criticata, la quale allo stesso tempo, però, assegnava alloggi popolari ed esperimentava processi edilizi.12 L’involucro edilizio da tempo ha soppiantato l’architettura, si è fatto “carne”; essendo involucro che si confà alla disponibilità tecnica dei materiali, ai loro procedimenti di assemblaggio. E ciò comporta una scelta tecnologica puntuale, confacente solo in ultimo agli aspetti formali ed estetici. La produzione edilizia è omologa a quella industriale ed i processi si assomigliano sempre più alla produzione automobilistica per componenti. La omologazione che ne deriva è in parte dovuta all’utilizzo di materiali ormai diffusi nel mondo e trova un riscontro nelle “forme urbane” capaci di confondere esteticamente” l’utente”; l’involucro edilizio viene di conseguenza valutato alla stregua di una merce. In sostanza si tratta di oggetti che andrebbero osservati ed analizzati, ma gli oggetti, nella loro “beltà” perdono la beltà spirituale, che appartiene in modo esclusivo al prodotto artigianale. Competizione e conflitto appartengono naturalmente a questo sistema e in diversa misura coinvolgente; anche le merci ci vengono proposte con questo criterio. È il tradimento della Architettura così come abbiamo conosciuta e praticata, è la compiacenza del manufatto edilizio la cui “pelle” si presenta e si rappresenta come omaggio alla grande capacità rappresentative della tecnologia. La lettura delle opere, dei manufatti edilizi si fa anch’essa superficiale in rapporto con altri oggetti simili; la lettura è sulla dimensione verticale piuttosto che orizzontale e la verticalità ha sempre attratto ed incantato l’uomo. La verticalità, dunque, è lo sguardo verso il cosmo, verso il cielo con le medesime sensazioni provate di fronte al primitivo dio sole. La orizzontalità dei manufatti comporta un maggior impegno, una maggiore preparazione perché comporta l’analisi di porzioni differenti di territorio ed implicazioni immediate con la natura dei luoghi e quindi dei paesaggi. L’arte di unire alla conoscenza dei materiali la tecnica per manipolarli e dare a loro una diversa forma appartiene all’artigiano. La bellezza della tecnologia, per contro, incanta, affascina, trasporta il sentimento un tempo artigianale appunto, nella possibilità di escludere la mediazione tecnica ottenendo in questo modo seriale una infinità di nuovi prodotti. È la produzione che spinge alla forma degli edifici, è la sua novità: la creatività progettuale si limita a stabilire le gerarchie di utilizzo, che non a caso, le applicazioni tecnologiche del progetto permettono, anzi obbligano, nel totale abbandono della manualità, del primitivo rapporto dell’uomo con la materia. L’architettura trasformata è ridotta ad una “istallazione” in cui anche lo spazio di relazione perde il suo profondo ed atavico significato. Qui, il capitale si dimostra una entità astratta ma in grado di modificare la realtà, come nello stesso modo e di conseguenza l’economia immateriale riesce a deturpare i luoghi e le coscienze dell’umanità. Il prodotto globale diventa la città merce.

Il conflitto con la natura.

Oggi in modo particolare il conflitto con la natura mostra i suoi risultati; l’uomo, si è detto, dovrebbe porsi in equilibrio con la natura, dominandola anche ma correttamente governandola. Le sorti progressive legate al pensiero leopardiano parlano e ci sospingono verso la complessità della natura. Il governo della natura è un compito arduo, necessario e fondamentale e presuppone la sua conoscenza; la conoscenza, che va ben oltre la “raccolta dei suoi prodotti”, non porta al continuo inesorabile sfruttamento, al contrario. La natura viene considerata una materia prima da inserire nel processo produttivo escludendo di fatto l’implicazione sociale, utilizzandola nel processo tecnologico per innalzare la produttività del lavoro. Il processo produttivo non è estraneo alla natura ma viene utilizzato secondo presupposte regole ataviche secondo le quali il capitale che lo sostiene appartiene anch’esso al processo naturale. La differenza tra la natura che appartiene al coltivatore della terra e a quello che vive dentro il ciclo produttivo urbano, consiste in un rapporto diretto ed essenziale per il coltivatore, mentre nel secondo, prevale l’aspetto sociale, quindi in un processo mediato dalla alienazione. Nel momento in cui la città si appropria della campagna modificando il primitivo rapporto di interdipendenza, anche il rapporto con la natura viene espropriato. Lo sfruttamento della Natura prescinde dalla sua storica appartenenza a coloro che ne hanno colto le regole, si manifesta invece con violenza nel dominio generalizzato e finalizzato alla ricerca di fonti nuove da immettere nella produzione. La mortificazione della natura passa attraverso la estesa produzione di merci per soddisfare tutti i bisogni primari ed oltre, la circolazione delle merci, l’accumulazione e la distribuzione. La natura diventa essa stessa “capitale “e si accompagna a tutte le forme dei capitali che si accumulano e si mettono in circolo. Entrambi, capitali e merci, hanno bisogno di vettori, di percorsi da seguire e di forme da attribuire allo scambio, e la natura acquisisce nuove forme decisamente opposte a quelle che le appartengono. Il processo diffuso distrugge la Natura senza scampo e senza alternative. Proprio in questo risiede la più evidente contraddizione; oggi essa non si è risolta ma si è diversificata nella creazione, illusoria, di nuovi processi che si ravvisano nei prodotti e nelle merci, i quali, rimanendo all’interno di quei processi, producono a loro volta rifiuti i quali, paradossalmente entrano anch’essi nei processi. Ed anche i rifiuti concorrono alla proliferazione di processi del sistema. Certamente porre l’attenzione su questi processi se da un lato sembra illudere, dall’altro sembra invece lenire le sofferenze umane che l’umanità si è procurato. Ma non lo ha fatto con spontaneità, lo ha fatto nella consapevolezza che appartenere totalmente ai processi produttivi, dall’origine al mercato, potesse restituire in parte quella spiritualità unita alla libertà, del lavoratore della campagna. Anche per questo il sistema accetta ed anzi suggerisce il riappropriarsi di forme territoriali abbandonate, nella speranza che anche lì, con pratiche diverse, si possa purtroppo estendere il mercato. Il rapporto fittizio tra l’acquisizione di una nuova realtà sociale ed economica e le ipotesi meccaniche del mercato scorrono comunque attraverso il respiro di una nuova spiritualità, lontana da quella metropolitana enfatizzata all’origine ma, di seguito, anestetizzata; che ciò contribuisca alla sua estirpazione e arrivi a confondersi con la Natura sino ad averne il timore, può essere illusorio. La mancata conoscenza della Natura e delle sue regole, misconosciute nella presenza urbana e nella sua assuefazione culturale, predispongono alla “paura” verso ciò che effettivamente “costituisce la Natura”, la sua forma, la sua complessità equilibrata nel paesaggio, il rapporto con fauna e flora non immediatamente e facilmente addomesticabili. Qui la Natura o quel che rimane si impone veramente e qui, l’umanità soccombe ma solo perché la sua educazione ha visto il rapporto come dominante e non nelle “sorti e progressive”. In un certo qual senso è un ritorno al primitivo, alla soglia del fabbisogno semplice: riprendendo gli abbandoni di comunità montane si può notare come i luoghi abbandonati testimonino la dimensione materiale degli spazi e la forma dell’equilibrio naturale. Riappropriarsene significherebbe riprendere l’atavico ciclo di vita, ancor più faticoso alla luce della contaminazione urbana. Se ci rifacciamo alla “dialettica” delle forze di produzione e ai suoi rapporti nella produzione, ci convinciamo che qui la legge della storia, se così la si può nominare, abbandona la realtà per trasformare il “movimento della storia “stessa. Ciò nonostante, non liberato dall’affanno urbano, il rapporto nella novità (storica) difficilmente diviene rapporto sociale con il suo relativo sviluppo: il rapporto misurato tra uomo e Natura ritorna a misurarsi con sé stesso sia nella forma che nel contenuto e pur essendo in misura “isolato” non riesce ad estraniarsi dalla condizione sociale. Ciò dimostra che la Natura deve dominare l’uomo senza che lui comunque debba arrendersi, e lasciarsi condurre come il primitivo si lasciava guidare dai cicli vitali?. Nella nuova forma di rapporto il titolo di “superiorità” consiste nella ragione tecnica acquisita culturalmente nella forma di “civiltà” vissuta; qui il nuovo e basilare rapporto permette di superare il “rozzo e primordiale” lavoro per necessità, e può effettivamente indicare il percorso, faticoso, nella ricerca della libertà oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. La lotta può apparire estranea dal contesto generale che ha generato il “trapianto”, sapendo che le reminiscenze sociali rimangono, rimane la memoria del soddisfacimento dei bisogni, delle sue metodiche e procedure, dei suoi incanti. Il rapporto città campagna si rende materiale ed ossessivo, reale, naturale. Ed originale. Acquisire ciò che la Natura ci propone nei termini della dialettica “che le appartiene” ovvero la separazione consolidata tra il nuovo e il naturale, in qualità di conflitto originale, che si è ormai svelata come opposizione primordiale nel tentativo di riappartenersi.

Quartiere Grigioni, anni Cinquanta/Sessanta, città pubblica/città privata, condomini senza recinzioni.
Torna all’Indice della Newsletter

  1. Sarebbe bello che la serialità corrispondesse alla serialità musicale, tonica, ma qui si intende la ripetitività per nulla armonica delle implicazioni. ↩︎
  2. Contraddizione: nel disegno della formazione urbana sono i ritardi dovuti agli ostacoli frapposti tra le intenzioni e le realizzazioni, le quali surrettiziamente riproducono sé stesse impedendo il progredire verso lo sviluppo sociale ed economico e mettendoli in palese contrasto. ↩︎
  3. Il senso ed il valore dei processi storici che sono in grado di trasformare le contraddizioni pur mentendone la natura. ↩︎
  4. Il sistema è ovviamente quello economico, complesso ed articolato poiché l’economia è uno degli strumenti
    alla base dello sviluppo umano. ↩︎
  5. Indubbiamente oggi il problema ambientale costituisce una realtà che esprime una profonda contraddizione; la separazione del rapporto attivo con la natura per il suo sfruttamento passivo. ↩︎
  6. Bella è nella fenomenologia dello spirito di Hegel, la discussione attorno alla gemma che sboccia sino a dileguassi per lasciare il posto al frutto. ↩︎
  7. La così detta arte dei giardini risponde alla esigenza, posta fuori dall’equilibrio, di ordinare la natura. Ovviamente per la gioia dell’uomo. Acqua, fiumi e laghi, verde, boschi prati radure, cielo. ↩︎
  8. Rigenerazione: si insiste sostenendo la rigenerazione come un “cambio” di” vestizione” senza entrare nell’organismo, nelle sue modificazioni accadute nel tempo e non seguenti alla naturalità del medesimo organismo. ↩︎
  9. Ovviamente la vocazione umanitaria del capitale è affine al capitale stesso, concessioni ma controllate e possibilmente foriere di profitto. ↩︎
  10. Gli abitanti interpretano i loro luoghi sulla base delle insofferenze e sofferenze confidando nella istintiva e spontanea interpretazione e quindi nel conseguente possibilità di miglioramento. ↩︎
  11. Le celebrazioni hanno pur sempre un carattere religioso, il distaccamento dalla realtà sollevando animi e spiriti, la convinzione di essere in quel momento astratti, fatti della materia di cui sono fatti si sogni. ↩︎
  12. Ricordo un albergo nel quale i bagni erano sostanzialmente prefabbricati utilizzando il sistema “parete attrezzata” di cui si veda il quaderno 10 Finsider Comunità europea; parete che tempo dopo trovai
    nell’edificio di Zanuso a Segrate (IBM)e, distrutto. ↩︎