Corpo e architettura: ripensare la progettazione dello spazio pubblico

UCTAT Newsletter n.78 – maggio 2025

di Andrea Bosio

Il modello culturale che omologa lo spazio pubblico allo spazio commerciale sta progressivamente erodendo i luoghi pubblici e di socialità di Milano, con il tacito assenso dell’amministrazione comunale che vede congeniale questa tendenza alla sua visione di trasformazione urbanistica della città. Accanto alla tradizionale declinazione di centro commerciale come un involucro chiuso, che troviamo a Citylife o nel centro di Merlata Bloom, la “nuova” Milano da diversi anni ha inaugurato con Piazza Gae Aulenti il concetto di ambito commerciale diffuso, dove la piazza esiste in funzione degli spazi commerciali circostanti e per questo è oggetto di particolare attenzione nella cura dell’immagine e nella sua facilità di accesso.

L’intenzione di proseguire con questa strategia urbana si può rilevare nel progetto, di imminente avvio, per il rinnovamento di Piazzale Loreto, ennesima operazione di speculazione edilizia di carattere commerciale spacciata come intervento un “rigenerazione urbana,” che consentirà la pedonalizzazione di parte dell’attuale complicato incrocio stradale, pagando il prezzo dell’edificazione fuori terra di una consistente volumetria commerciale. Ulteriore conferma del fatto che per l’amministrazione comunale uno spazio pubblico merita interesse soltanto quando è in grado di generare un qualche profitto economico o commerciale. A riprova di questo lo scolorirsi delle vernici e il degrado dei pochi elementi di arredo di quegli spazi pubblici giudicati (non sempre a ragione) privi d’identità o di potenziale commerciale e per questo sottoposti dall’amministrazione a interventi di urbanistica tattica, declinazione meneghina di pratiche che in altri paesi vengono condotte, spesso in contrasto con l’operato dell’amministrazione locale, da gruppi di cittadini e associazioni di quartiere per migliorare le condizioni di vita partendo dai bisogni della comunità.

Ancora inferiore e frutto di colpevole disattenzione è tuttavia la cura degli spazi destinati al transito, al passeggio, e alla sosta nel resto della città in quanto oggetto di scarsa qualità costruttiva e di approssimativa manutenzione. Sommandosi a questo, nel caso di alcune nuove realizzazioni, un evidente deficit di progettazione. Un esempio di questo stato di cose è la passerella, in fase di completamento, che scavalca il Naviglio Grande e collega la stazione ferroviaria di San Cristoforo e l’antistante Piazza Tirana con Via Lodovico il Moro, un manufatto che nell’intento del gruppo di progettazione AOUMM dovrebbe configurarsi come un leggero e sinuoso nastro bianco mentre, in realtà, produce un notevole impatto paesaggistico sul contesto. Viene fatto di pensare che l’esasperazione della ricerca formale, unita forse ad una percezione falsata di scala e contestualità data dal disegno a computer, abbia prevaricato la funzione.  L’attraversamento di un breve tratto viene reso lungo e tortuoso a causa della scenografica torsione della struttura e il percorso di salita in quota è dunque inutilmente faticoso. Vi pongono rimedio, per traghettare senza sforzo i pedoni da una sponda all’altra del Naviglio, gli ascensori collocati alle estremità della passerella, volumi la cui incongruità formale viene ulteriormente sottolineata da un camuffamento con citazioni architettoniche tanto ingenue quanto fuori scala.

Questo progetto rappresenta, purtroppo, solo un esempio di una cultura diffusa a Milano che sembra subordinare i due principi fondamentali di sicurezza e facilità di accesso allo spazio pubblico a esigenze architettoniche formali e a criteri di applicabilità riconducibili a visioni esclusivamente economiche e politiche, o a problemi di competenza e difficoltà di gestione nei cui confronti, tuttavia, non sembra esservi interesse a porre rimedio. Pratica sempre più diffusa è, ad esempio, quella di progettare tutte quelle aree di attraversamento, zone di sosta o accessi a mezzi pubblici realizzati secondo i principi dell’accessibilità per le persone disabili, senza però curarsi di un loro raccordo con lo spazio pubblico circostante.

Il principio di accessibilità sembra essere sempre più di frequente contenuto esclusivamente nel minimo spazio obbligato per legge, con la conseguenza di una brusca interruzione del tipo di materiali, segnali e indicazioni che sembrano segnare il confine che separa gli “spazi speciali” dallo “spazio per tutti.” Ne consegue che i cittadini con disabilità sono impossibilitati a muoversi in totale autonomia, e in ogni caso, vista la presenza random di spazi accessibili, sono costretti a vivere una vera e propria vita di segregazione, dovendo accuratamente pianificare un percorso che preveda spazi e percorsi pensati ad hoc per loro e, contestualmente e inevitabilmente, vedersi precluso l’accesso a molte parti della città che non rispondono alle norme per l’accessibilità.

Tale contrasto fa emergere una visione abilista di fondo. Il tema della sicurezza – e del rispetto di specifici requisiti progettuali – viene pensato infatti solo per quegli spazi che normative e regolamenti indicano come obbligatoriamente fruibili da corpi non normodotati. Risultato di questa costruzione normativa è la negazione della necessità di realizzare un sistema di sicurezza diffuso, quasi vi fosse la certezza che un corpo normodotato sia immunizzato dalle situazioni di disagio e di pericolo, abilitato a navigare attraverso spazi non concepiti pregiudizialmente per essere sicuri, spazi che presentano pericoli non previsti, anche se il più delle volte prevedibili. Da questo modo di pensare discende una progettazione degli spazi pubblici che, anziché affrontare, anche sotto il profilo psicologico, il tema della accessibilità a tutte le strutture e a tutti gli spazi concepiti per gli esseri umani e assumerlo come principio fondante del progetto urbanistico, si riduce alla stanca pratica burocratica dell’applicare pedissequamente la vigente e non molto recente normativa in materia di superamento delle barriere architettoniche. Tutto il contrario di una progettazione intesa ad aggiornare costantemente il tema del rapporto tra abilità e disabilità, riducendo sempre di più la distanza tra queste due condizioni.

ACCESSO E ACCESSIBILITA’ ALLO SPAZIO PUBBLICO

Alla luce delle precedenti considerazioni emerge la necessità di una svolta culturale, prima che legislativa, volta all’affermazione di una idea di spazio pubblico universalmente accessibile, rendendo progressivamente superflua la costruzione di norme in aiuto a una minoranza di persone considerate “meno abili.” Una svolta che deve vedere come importanti attori non soltanto i progettisti e gli amministratori pubblici, ma anche gli abitanti.

The arsenal of exclusion and inclusion è un intelligente manuale sviluppato da un collettivo newyorkese sull’ambivalente utilizzo dell’architettura come “arma” di inclusione o di esclusione. In esso si descrive l’accesso allo spazio pubblico come “governato da una serie di differenti abitudini, pratiche e strumenti ordinari, tra loro correlati ma spesso in contraddizione reciproca; tutti caratterizzati dall’essere talvolta leciti, talvolta illeciti, autorizzati e non autorizzati, strategici o tattici;” [1] e si parla di un complesso meccanismo sociale attraverso cui ci si relaziona nella sfera pubblica, modulando e negoziando la fruizione dello spazio comune non sempre in maniera equa e non conflittuale.

Soltanto assumendo come prioritaria questa considerazione sarà possibile riformulare e dispiegare questioni normative e regolamenti su un campo più ampio, rendendone sempre più efficace la loro applicazione, fondamentale per bonificare un terreno seminato di potenziali conflittualità. L’accessibilità è prima di tutto una questione collettiva e politica poiché i modelli culturali e sociali sui quali si basano la regole e attraverso i quali si applicano principi di sostegno e aiuto all’accesso a spazi e servizi pubblici e di pubblica utilità variano a seconda della cultura e del paese, da progetto politico a progetto politico. Poiché sono le scelte di politica urbanistica a determinare i criteri d’inclusione e di esclusione stabilendo a quali categorie consentire o negare la completa fruibilità dello spazio pubblico. Conseguentemente l’accessibilità diventa una questione intimamente individuale, perché pone il corpo del singolo individuo più o meno in conflitto con gli ostacoli presenti su uno spazio pubblico organizzato secondo criteri elaborati a partire da una concezione maggioritaria e dunque non universale del concetto di norma e di normalità.

LE INSIDIE DEL PROGETTO DI ARCHITETTURA PER IL CORPO

Le riflessioni che svolgiamo sugli spazi in cui viviamo necessitano di una altrettanto profonda riflessione sul nostro corpo, poiché è attraverso di esso che maturiamo la scelta di istruire relazioni con lo spazio di carattere fisico e relazionale. Ribaltando la prospettiva attraverso cui si legge il legame tra il corpo e l’ambiente fisico, si può considerare il corpo un’architettura e l’ambiente fisico come lo spazio con cui questa architettura interagisce, dunque uno spazio idoneo a modellarsi, contrariamente a quanto normalmente accade, sull’architettura del corpo.

Un esempio di come la più attenta progettazione all’ergonomia, ai problemi di natura motoria e sensoriale possa comunque contenere elementi di potenziale esclusione è costituito dalla pensilina per autobus costruita dal progettista olandese Rombout Frieling nel 2020 nel quartiere universitario di Umeå, cittadina svedese nota per la sua politica di realizzazione di spazi pubblici informati all’inclusività, con una attenzione particolare alla sicurezza delle donne. Il progettista, constatato come le persone preferissero aspettare l’arrivo dei bus appoggiandosi a una superficie verticale anziché restando in piedi e che preferissero sostare al freddo e alle intemperie anziché ripararsi sotto una piccola pensilina, ha pensato a una soluzione in grado di offrire riparo ma anche comfort psicologico. Il suo progetto prevede, sotto una copertura caratterizzata da una serie di luci che indicano con il colore il tipo di autobus in arrivo, la collocazione di cocoon in legno in grado di ruotare, ai quali le persone possono appoggiarsi. Il corpo viene doppiamente stimolato: per un verso nel potere scegliere se isolarsi all’interno di un elemento di materiale naturale che permette la percezione sicura dello spazio attorno oppure di relazionarsi frontalmente con altre persone; per un altro verso nel consentire loro di utilizzare istintivamente l’udito e la vista per capire quando stia arrivando il bus e quale sia la sua destinazione. [2]

Ma quale è il corpo cui fa riferimento il progetto? Il considerare come unica modalità di attesa lo stare in piedi sotto la pensilina, anche se in maniera decisamente più confortevole, esclude dal ragionamento progettuale le persone che non possono, per ragioni diverse (ridotta mobilità, ipovedenti, ecc.) beneficiare di una struttura innovativa e frutto delle migliori intenzioni. Sorge il dubbio che, in questa occasione, l’analisi dei comportamenti abbia sostanzialmente ignorato i problemi di una minoranza di persone perché non perfettamente risolvibili da un progetto presentato come profondamente innovativo. Con buona pace di coloro che per i loro limiti fisici non riescono a rientrare nella norma in cui viene collocato l’utente di autobus. Tutto ciò ci spinge a riflettere su come il concetto di accessibilità non sia assolutamente chiaro, bensì ambiguo e oggetto, tra le persone – in primo luogo gli addetti ai lavori– di interpretazioni diverse e mutevoli nel tempo. Questo esempio è rivelatore del fatto che il limite del progetto deve essere ricercato nella natura di chi lo ha concepito. Che, in questo caso, è una persona abile, che dunque non può sperimentare personalmente complessità e diversità delle non abilità. Perché, dunque non affidarsi per una ricognizione profonda del tema a progettisti non abili, in grado di rappresentare appieno i problemi che vivono in prima persona?

UN MODO DI PROGETTARE CON L’ARCHITETTURA DEI CORPI

La pratica della progettazione del territorio urbano deve attentamente riconsiderare i modelli di riferimento riguardanti standard corporei, dimensioni, caratteristiche degli spazi, aspetti della mobilità concepiti in un tempo che, pur non molto lontano, presentava caratteri economici, sociali, culturali ben diversi da quelli odierni. Non possiamo poi non far rilevare come le attuali norme in materia di superamento delle barriere architettoniche, risalenti al 1989 siano state redatte ponendo attenzione esclusivamente agli aspetti “meccanici” del tema, ignorando del tutto quegli aspetti di carattere psicologico e comportamentale che estendevano l’utilizzo del corpo a pratiche quali il teatro, la danza, la coreografia. Piuttosto, se una radice teorica dobbiamo individuare nella vigente normativa dobbiamo ricercarla in quelle teorie funzionaliste che vedevano prestare attenzione al movimento del corpo esclusivamente in funzione del migliore rapporto tra spazio-tempo-economia, sull’onda di una forse inconscia suggestione delle teorie sull’existenzminimum.

Per contro, anche le sperimentazioni spaziali più lontane da una associazione deterministica tra corpo e spazio si sono esaurite in esercizi formali, contenuti nella disciplina dell’architettura, come lo strutturalismo di Frank Gehry o l’architettura parametrica di Zaha Hadid, ricchi di suggestione formale ma non interessati alla ricerca etica e sociale di un nuovo modello di relazione tra il corpo dell’individuo e lo spazio collettivo. Eppure, anche restando nel campo dell’architettura, non mancherebbero riferimenti a esperienze di diversa formulazione di concetti di spazio accessibile e di accessibilità così dariconsiderare la nozione stessa di movimento e di spazio con l’obiettivo di introdurre un radicale cambiamento nel concetto di accessibilità dello spazio pubblico.

Un possibile riferimento è costituito dalla sperimentazione avviata da Rudolf Laban, danzatore e coreografo ungherese attivo nella prima metà del Novecento che elaborò, in collaborazione con la scuola del Bauhaus, un interessante modello geometrico del movimento corporeo sul quale basare nuove sperimentazioni spaziali architettoniche e urbane. La teoria di Laban si fonda sull’inserimento del corpo umano all’interno della kinesfera, uno spazio personale entro il quale il corpo si muove su tre piani (verticale, orizzontale, trasversale), libero di esplorare la propria mobilità, disegnando una geometria più o meno complessa che si modella sui suoi movimenti. Piuttosto che a un codice fisso, Laban pensa ad un sistema di notazione dei movimenti, utile ad acquisire consapevolezza e padronanza del movimento attraverso la sua osservazione e interpretazione. Cardine della teoria è il rapporto tra lo spazio, il tempo e la forza e il variarsi della loro relazione che dipende dalle forme che il corpo assume con il movimento, che viene immaginato come complessa esperienza, anziché come un’azione che si esaurisce in una partenza e in un arrivo. [3]

Per esercitare questo pensiero nella quotidianità, dovremmo esercitarci ad acquisire consapevolezza di movimenti del nostro corpo che compiamo automaticamente in quanto associati a funzioni continuamente ripetute. Questo esercizio servirebbe ad accettare le incertezze, a compiere movimenti non ancora sperimentati, e a impegnarsi in un percorso di presa di coscienza di equilibrio e della funzionalità nel muoversi, abilità non preacquisite e dunque diverse per ognuno.

Se il corpo umano può permettersi, entro certi limiti, di effettuare movimenti incerti e di reagire a situazioni di instabilità senza subire serie conseguenze, così non può dirsi dello spazio generato dal progetto di architettura che se non attentamente meditato rischia di provocare squilibrio in chi si trova a praticarlo. Per questa ragione la consapevolezza dell’importanza del movimento del corpo e il suo studio affrontato scientificamente ma con atteggiamento curioso e aperto dovrebbero costituire presupposto per il progetto degli spazi con la necessaria conseguenza di associare alla ricerca, troppo volte esasperata, della bellezza dell’oggetto anche l’utilità, intesa come conquista di un rapporto simbiotico del corpo con lo spazio in cui si muove.

All’interno di un processo culturale inteso a una radicale revisione dei modelli d’inclusione nello spazio pubblico, finalizzata a frantumare barriere e cancellare ogni soluzione di continuità tra gli spazi della città, il richiamo alle teorie di Laban rappresenta soltanto uno dei possibili approcci al tema di una progettazione degli spazi collettivi liberata dai vincoli di una concezione rigidamente normativa del corpo. Infine, l’applicazione del modello proposto dal coreografo ungherese o di un’altra formula comunque pensata per affrancare il progetto dello spazio urbano dalle logiche dell’economia e del commercio comporterà quasi inevitabilmente (e fortunatamente) il recupero del valore del progetto dello spazio pubblico alla piccola scala contrapposto alla vuota magniloquenza delle grandi operazioni immobiliari contrabbandate come regali alla città. Un progetto capace ancora di cogliere in funzioni considerate banali e non attrattive il senso profondo di una civis fondata sull’ordinarietà.

Bibliografia

1 – Interboro. The arsenal of exclusion & inclusion (Actar: New York, 2017).

2 – https://www.rombout.design/station-of-being.html

3 – McCaw D. The Laban Sourcebook (Routledge: New York, 2011).

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