Costruire nel terzo millennio

UCTAT Newsletter n.64 – FEBBRAIO 2024

di Alessandro Ubertazzi

Ritengo che gli eventi concernenti la evoluzione della comunità umana siano assai poco caratterizzati da automatico determinismo. Essi non sono sostanzialmente prevedibili poiché in realtà, istante per istante, sono fortemente influenzabili dall’interesse delle proposte formulate dai soggetti più immaginativi e, soprattutto, dalla capacità politica di realizzarle (1).

Poiché la mia ricerca scientifica è strettamente riferita all’attività progettuale, a tutte le scale (dal design degli oggetti d’uso alla costruzione degli edifici e alla organizzazione dell’ambiente), conosco la capacità trainante di quel rivoluzionario tipo di ragionamento che introduce l’innovazione come trasgressione sistematica di ciò che già esiste: questo, infatti, spesso non appare come risposta esatta e perfetta alle esigenze dei singoli e della collettività.

Che tratti di un diverso modo di concepire l’organizzazione sociale ovvero che tratti di una automobile particolarmente confortevole ed economica, il progetto è comunque un ragionamento di tipo sintetico che può convincere gli esseri umani a cambiare repentinamente traguardi consolidati proprio per la sua capacità attrattiva.

Non traccerò bilanci, non snocciolerò numeri né, pur conoscendoli, fingerò di decifrarli.

Se, infatti, i dati relativi al rapporto dell’umanità col suo multiforme ambiente non possono generare certezze di carattere induttivo, più di essi varranno le affermazioni che formulerò in quanto frutto di una “digestione” culturale-progettuale in grado di ammettere anche il paradosso e perfino l’intuizione poetica.

Nel prossimo millennio, il processo di antropizzazione del territorio si spingerà a livello planetario: la città dell’uomo tenderà davvero a coincidere con tutto lo spazio fisico disponibile.

Da questo immenso fenomeno di artificializzazione dell’ambiente saranno risparmiati solo quegli spazi, del tutto particolari, caratterizzati da uno spettacolare contenuto naturalistico ovvero dalla presenza di significativi documenti dell’opera umana (2).

Tutto lo spazio a disposizione, comprese le profondità marine e, assai presto, perfino pianeti e satelliti del nostro sistema solare, sarà intercalato da impianti produttivi o da nuclei insediativi tecnologicamente aggiornati.

Nel prossimo millennio, tutti i contesti antropizzati saranno caratterizzati dallo sviluppo della qualità insediativa e dalla sua omologazione ai livelli più alti. Ciò non sarà, naturalmente, immediato, ma il processo è comunque irrefrenabile.

Le multinazionali che stanno elaborando nuove apparecchiature per la casa e nuovi dispositivi per la comunicazione o per l’equipaggiamento del territorio lavorano, più o meno consapevolmente ma simultaneamente, a un unico progetto strategico che coinvolgerà tutto il consorzio umano. I continenti solo di recente attinti dalle logiche del progresso tecnologico già tendono a una progressiva sistemazione dei servizi e alla loro uniformazione ad uno standard effettivamente superiore.

Eppure pensare al destino della cultura urbana e a ciò che si costruirà nel terzo millennio costringerà dapprima ad affrontare e risolvere con grande chiarezza il problema delle “diversità” (3): il grande problema è di come e di quanto si potrà accelerare il processo di autospecificazione delle altre civiltà che, giustamente, devono poter afferire ai livelli prestazionali ricordati senza rinunciare al sistema dei loro valori caratteristici che noi troppo spesso sottostimiamo.

Oggi esistono comunità in grado di proiettare nel cosmo veicoli abitati ed equipaggiati di sofisticatissime apparecchiature scientifiche e altre comunità che ancora vivono allo stato elementare scheggiando pietre e producendo fuoco mediante lo sfregamento di legni secchi; dico questo non tanto per evidenziare il gap tecnologico che divide queste realtà umane, ma piuttosto per sottolineare come, prescindendo dai livelli prestazionali degli aggregati urbani, il progresso non possa adattarsi ugualmente a tutto e a tutti né debba essere connotato da un’unica forma espressiva destinata a salvaguardare le differenti e molteplici accezioni culturali.

Si dovrà capire presto che le “diversità” sono il “patrimonio genetico” della nostra specie: esso non può in alcun modo essere dimenticato, bensì valorizzato.

Desidero riflettere ora sulla propensione, tipicamente umana, a vivere in forma aggregata, generando la moltitudine delle città conosciute; in più occasioni ho ripetuto che la natura umana contiene “originariamente” una idea insediativa che spinge incessantemente le varie culture ad organizzare le comunità secondo schemi tendenzialmente urbani. Qui ci occuperemo di quelle realtà aggregative che, ferme restando le loro differenze, hanno raggiunto un equipollente livello di complessità.

Quando si parla della qualità dei servizi erogati dalla città o richiesti ad essa, ci si riferisce normalmente a quella serie di prestazioni che essa deve essere in grado di dare, dietro semplice richiesta o secondo le forme di compensazione stabilite: attrezzature, servizi, forniture, realtà edilizia, infrastrutture per il trasporto, ecc.

E’ facile credere che il desiderio di qualità si manifesti nel raggiungimento dell’essenziale e del necessario; tuttavia, nel mondo contemporaneo, il desiderio di qualità è una condizione collettiva che si manifesta in seno a una precisa cultura solo quando sembrano risolti i temi urgenti del vivere comune.

La civiltà tecnologica sta preparando gli strumenti metodologici e operativi per il raggiungimento della cosiddetta “qualità della vita” e perciò anche della qualità del paesaggio materiale nel quale si svolge la vita stessa (4): ricordo il controllo del particolare nella complessità, la cura del dettaglio significativo, la intima coerenza tra forme e materie, l’accurato dosaggio di finiture, il senso delle proporzioni, i messaggi impliciti aggiunti alle necessità prestazionali, l’intelligenza e l’eleganza come ideologie di una vita.

Ad esempio, la qualità urbana di dettaglio riguarderà l’identità della parte più minuta della città, ovvero del sistema di attrezzature e di finiture dell’ambiente collettivo. Perseguire la qualità urbana di dettaglio significa alzare il livello qualitativo di queste finiture attraverso progetti globali, coerenti e sistematici tali da garantire l’estensione di quella immagine che la città presenta nella sua parte più consolidata e antica.

Alla radice della qualità pongo comunque la ragione.

Da quando l’uomo è uomo, esso tende progressivamente a smaterializzarsi, a liberarsi di quelle implicazioni biologiche che ancor oggi lo legano all’ambiente naturale: anche se fantascientifico, è però suggestivo pensare che l’uomo, in futuro, possa ridursi alla semplice attività pensante.

Per quanto paradossale, la qualità che cercheremo nel costruire il terzo millennio sarà la qualità originaria alla quale siamo avvezzi da millenni e senza la quale non vi sarà comfort sostanziale. Quando, ad esempio, si porrà il problema dell’acqua da bere, affiorerà la necessità di disporre di una bevanda fresca, assolutamente simile a quella che, nel passato, si poteva raccogliere a una sorgente alpina nel cavo delle mani.

Analogo discorso vale per i mezzi di spostamento che dovranno consentirci di raggiungere celermente i luoghi desiderati nei termini di un comfort elementare. Le risposte tecnologiche e organizzative che possono essere date alla esigenza di spostamento sono marginali: sostanziale è invece che tutto il territorio sia connesso con servizi appropriati che garantiscano davvero la facilità e la comodità di muoversi con particolare attenzione al livello individuale.

Poiché la scala raggiunta dalle grandi metropoli è infatti talvolta di grande complessità e vastità, la questione dei servizi implicherà una grande capacità di intervento: la necessità che le città siano dotate di servizi sempre più raffinati non dipenderà tanto dalla volontà di affrontare i problemi, quanto dalla capacità di progettarli e dalle possibilità di realizzarli e di gestirli. Diversamente dalla condizione attuale nella quale prevale l’atto politico, la dimensione raggiunta dal consorzio umano obbligherà a prendere decisioni fondate solo su una articolata ed esplicita progettualità. Il futuro possibile è legato a un vero e proprio Processo Progettuale Integrato, ovvero ad un grandioso ragionamento complesso e finalizzato all’interesse collettivo.

Al procedere della omologazione della qualità, che ormai è ritenuta indispensabile per vivere civilmente, si svilupperà un senso del territorio del tutto nuovo. La nozione contemporanea di “territorio” (che in verità parte da una idea geometrica della superficie del Pianeta), contiene forti contraddizioni e perfino antinomie: da un lato essa si riferisce agli spazi già conosciuti e urbanizzati e, dall’altro, a quella parte di ambiente che non manifesta ancora una certa utilità: essa raramente contiene l’ipotesi della globale godibilità di una risorsa predisposta alla razionalità ordinatrice dell’essere umano. Invece il futuro prossimo vedrà tutto il territorio divenire fattore indispensabile, complementare e integrativo alla realtà urbana propriamente detta: pervaso da reti informatiche, da un invisibile tessuto di connessioni e di cablaggi, l’ambiente urbano costituirà infatti solo un aspetto del multicolore gioco di spettacoli che corrispondono al processo creativo dell’operare umano nella sua Grande Città.

Desidero ricordare, a questo punto, che l’ambiente è a tutti gli effetti un luogo umano. Oltretutto, in questi ultimi anni, si parla sempre meno di “territorio” e sempre più di “ambiente”. “Territorio”, effettivamente, è una nozione troppo asettica, che identifica in termini solo quantitativi la realtà che ci sta intorno.

L’ambiente è invece uno spazio (o, secondo un’accezione assai puntuale, un “luogo”) dotato di dimensioni e spessore culturale propri.

Pertanto, per intervenire in un contesto umano più o meno antropizzato occorre fare riferimento alla “progettazione ambientale” piuttosto che alla “pianificazione territoriale”, che costituisce uno strumento di crescita. Lo strumento prioritario utile oggi a governare luoghi connotati da un’intima uniformità concettuale è il progetto ambientale.

Vorrei ora soffermarmi sul ruolo che l’industrial design, come progettualità specifica complementare alla gamma delle progettualità tradizionali (ovvero quella architettonica in senso stretto e quella tecnico-ingegnerile in senso più lato), avrà sulle costruzioni per il terzo millennio (5). Il cosiddetto “design”, che rappresenta una forma di progettualità fortemente innovativa rispetto a quelle tradizionali, indica la concezione sistematica del paesaggio materiale, oggettuale e tecnologico.

Le nozioni di “ambiente urbanizzato” e di “città come servizio” portano a un concetto di attrezzamento dello spazio collettivo che coincide con il controllo globale di tutte le componenti concettuali e tecniche che possono rendere effettiva la comunicazione ai diversi livelli.

Nella evoluzione del contesto urbano la cultura del design porterà un contributo significativo alla accessoriazione e all’equipaggiamento di tutti gli ambienti della Terra: essa fornirà i componenti elementari per il progetto architettonico che si occuperà invece, in forma sintetica, dell’aspetto generale degli spazi e della loro immagine definitiva. Il design determinerà una forte evoluzione della prestazionalità dello spazio pubblico e, in un certo senso, anche del linguaggio delle apparecchiature e degli attrezzi che, nell’ambiente domestico e sul posto di lavoro, formano continuamente il paesaggio quotidiano consolidato.

Se, come ritengo, assisteremo a un forte mutamento di immagine dei dettagli del paesaggio che abitiamo questo sarà in gran parte dovuto a questa disciplina della “progettazione per l’industria”. La evidente, attuale, forte dicotomia fra il progetto di architettura e la progettualità inerente alle parti elementari di quella totalità, si risolverà proprio nella complementarietà delle due scale di intervento.

Nella specializzazione e nella specificazione dei luoghi, il design come progettualità legata alla logica delle macchine si colloca certamente a un livello di operatività più puntuale di quello occupato dall’architettura e dall’urbanistica; malgrado ciò, nel prossimo futuro, esso determinerà la concezione e la installazione di enormi quantità di manufatti, occupando immense quantità di spazio e incidendo in maniera fortissima sul gusto delle persone. La forte caratterizzazione dei singoli componenti del paesaggio urbano non dovrà o, meglio, non potrà scardinare la solidità e l’inerzia con le quali l’ambiente umano si è espresso e si esprime, ovvero quegli elementi di naturalezza che, per definizione, il design non è deputato a prendere in considerazione.

L’ambiente non sarà più la conseguenza di un’indiscriminata azione tendente all’insediamento, ma sarà il paziente oggetto di un progetto specifico che vedrà natura e artificio protagonisti a pari merito di un rapporto privilegiato con l’attore sociale.

Molte delle città antiche di ogni continente posseggono una peculiarità appetibile legata direttamente ai valori della storia e dell’arte e comunque alle testimonianze umane accumulate.

Uno dei principali problemi che affronto in sede scientifica e propugno da tempo sarà sempre più attuale per la cultura progettuale del futuro: esso riguarda la compatibilità della modernità con la storia del progresso, con tutto ciò che l’ambiente ha capitalizzato sotto forma di testimonianze esplicite o latenti, ossia con le manifestazioni fisiche dell’attività svolta dagli uomini. Mi riferisco soprattutto all’ambiente urbano e al territorio antropizzato, a quella parte cioè del globo terracqueo che è stato teatro della operosità umana, del vivere associato, della sistematica plasmazione e conformazione dei luoghi naturali alle esigenze dell’uomo.

Contrariamente ai sintomi che, dalla seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni, ci hanno fatto ritenere che la modernità avrebbe potuto beffarsi delle testimonianze del passato soprattutto perché ne avrebbe potuto fare volentieri a meno, nel prossimo tempo tutte le tracce che la società potrà riconoscere come significative saranno finalmente dichiarate necessarie per lo sviluppo futuro della cultura umana. Penso che non sarà possibile una reale modernità che non sia fondata sulla conoscenza del nostro passato, sulla sua continua, intelligente ma umile reinterpretazione, sulla sua costante restituzione in forme ulteriori ed aggiornate. Una modernità che abbia fatto terra bruciata del passato che testimonia la stratificazione delle diverse civiltà presenti sulla terra non sarà più lecita.

Chi rinnegherà la ricchezza e la diversificazione del patrimonio genetico dell’essere umano, si precluderà la possibilità di ritornare costantemente alle origini tutte le volte che il processo creativo si affievolirà. L’esigenza di consapevolezza è infatti direttamente commisurata alla urgenza di valorizzare la dignità particolare e insostituibile di numerosissimi luoghi antropici.

La coscienza ambientale ci imporrà di non limitarci a progettare in modo generico, mirando solo a un’ipotesi di modernità senza che questa venga declinata nella specificità locale.

Nel prossimo futuro la regola con cui si potrà mantenere l’omogeneità locale si fonderà sull’utilizzo consapevole di una “tavolozza di materiali”, secondo l’ipotesi che ho definito come “evoluzione dell’uniformità” (6). La risposta prestazionale alla esigenza di qualità del luogo abitato e dei suoi servizi non potrà certo tralasciare la riproposizione di tutto ciò che di meglio il passato ci ha fornito. Doversi muovere in un contesto affollato da realtà (architettoniche e paesaggistiche) insulse o presuntuose ma comunque moleste comporta uno sforzo vano e persino umiliante.

Nel prossimo millennio sarà necessario restituire o, se ne sono prive, conferire un linguaggio identificativo alle diverse città; più difficile sarà per le grandi metropoli, più facile per le piccole comunità che manifestano tradizionalmente una riconoscibilità esplicita da interpretare, decodificare o riproporre.

L’obiettivo essenziale di simili operazioni deve essere sempre sorretto dall’idea di poter perseguire una continuità semantica nel contesto costruito.

Ciò che rende gradevoli e desiderabili le diverse città è appunto il prodigioso apparato di particolarità e di differenze, anche di carattere estetico (che cioè ricadono sotto la sfera visiva, tattile, olfattiva, ecc.). Attorno ad una individualistica crescita delle città in competizione tra loro si è formata ed è cresciuta l’idea di un mondo interessante da percorrere e da visitare che solo in tempi recenti rischia di appiattirsi del tutto indiscriminatamente.

Il terzo millennio vedrà la riaffermazione della identità sottratta a molti luoghi umani di grande interesse e, addirittura, vedrà altri luoghi, non così storicizzati, dotarsi di una specifica individualità proprio per non essere travolti, gli uni e gli altri, da quel meccanismo che rende ogni luogo uguale agli altri e, perciò, del tutto inutile la loro conoscenza.

La specificità di un luogo, che peraltro è un bene irrinunciabile e inalienabile di una collettività, si fonda sul suo perfetto equilibrio con il contesto naturale e i fatti antropici già registrati. Questo equilibrio si riscontra di norma nei paesaggi in cui l’ambiente è la sommatoria interattiva dei fenomeni legati a una natura imbrigliata dall’operosità umana. I luoghi oggi antropizzati erano un tempo “natura naturale”, mentre oggi sono sostanzialmente “natura artificiale”, una realtà governata dalla sapienza e dall’esperienza dei suoi fruitori (7).

L’equipollenza sostanziale dei luoghi umani dovrà fondarsi sulla qualità dei servizi proposti mentre la sapienza progettuale cercherà di forgiare o di restituire un volto e una identità peculiare a ciascun luogo, come accade per gli esseri viventi.

Questa attività dovrebbe consistere nella rilettura della storia del sito che ha determinato uno specifico linguaggio architettonico.

Cercare un futuro e una continuità per ciò che possiede un’immagine consolidata non significa solamente la conservazione del patrimonio che abbiamo ereditato, bensì la valorizzazione e l’arricchimento dello stesso attraverso nuovi e ulteriori contenuti.

Tutto al contrario del concetto fin qui praticato della espansione “a macchia d’olio”, la effettiva qualificazione dei centri insediativi più densi avverrà attraverso processi di ulteriore gravitazione centripeti attorno ai riconoscibili centri; le galassie periferiche troveranno una loro qualificazione identificando nuovi punti di aggregazione o implodendo sui centri storici di riferimento: si ridurrà così la dimensione oggettiva dei grandi corpi urbani. Penso ad una città come Los Angeles: nata per essere utilizzata e servita dal veicolo individuale, quella incredibile realtà urbana oggi mostra le corde delle sue smisurate dimensioni e della sua costosissima rarefazione. Le città si ricostituiranno attorno ai loro nuclei, si ridimensioneranno necessariamente per umanizzarsi; esse dovranno comunque legarsi tra loro per scambiare lavoro, strumenti, persone, occasioni ecc., con maggiore semplicità e minore burocrazia.

Prima e contemporaneamente al processo di totale impiego della superficie del globo, i territori devastati da una insipiente e casuale insediatività dovranno essere liberati dalla immensa quantità di inconsistenti realizzazioni, dovranno essere ripuliti dal cemento inutile e volgare. Le città dovranno sconfiggere la ridondanza delle rifiniture e degli apparati di servizio attraverso quello che definisco un grandioso processo di “sottrazione” (8). Attraverso la sistematica demolizione delle inconsistenze, l’ambiente urbano dovrà ripulirsi di ogni uso improprio e perseguire quella spettacolarità di sé stesso che già oggi è considerata necessaria: si deve avere il coraggio di costruire, ma, non si può non avere il coraggio di demolire ciò che, secondo una miope gerarchia dei valori ambientali, per troppi anni si è costruito senza senso, al di là di ogni logica utilitaristica e con smisurati costi sociali.

Assisteremo presto alla sistematica demolizione di intere parti di molte città non più adeguatamente abitabili: solo così si potrà infatti procedere alla scoperta di nuove opportunità e alla fabbricazione di nuove parti di città che non dovranno certo sommarsi a quelle esistenti ma sostituirle in un incessante processo di riqualificazione.

Occorre guardare coraggiosamente in faccia alla città, pianificando la distruzione delle parti irreparabilmente degradate per avviarle a un nuovo destino: ciò che deve essere restituito all’umanità è il vero senso dei luoghi.

Cupola geodetica, Buckminster Fuller, 1960.

Note.

1.

A. Ubertazzi, La città diffusa, Il Pomerio-Lodigraf, Lodi 1993.

2.

A. Ubertazzi, Risorse naturali, antropiche e paesistiche; un progetto di valorizzazione ambientale per la Valle Imagna, in Gente e Terra d’Imagna (a cura di G. Sgalippa e M. Silva), Il Pomerio, Lodi, 1996.

3.

A. Ubertazzi, Alla ricerca delle regole della peculiarità, contributo scientifico alla tesi di C. Pedrana e N. Leveni Legni da abitare; analisi delle tecniche costruttive nel Livignasco in vista di una loro riattualizzazione, Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, Corso di Progettazione Ambientale; dicembre 1993.

4.

A. Ubertazzi, La qualità diffusa (con la collaborazione di G. Sgalippa), Progetti Museali, Roma, 1994.

5.

A. Ubertazzi (e altri), Il design degli oggetti, Quaderni del Premio, Gallarate, 1995.

6.

A. Ubertazzi, Per interpretare le linee evolutive del linguaggio costruttivo, contributo scientifico alla tesi di G. Bartesaghi e altri L’evoluzione dell’uniformità; considerazioni metodologiche per interventi di riutilizzo dell’edificato in ambienti storicamente uniformi, con applicazioni esemplificative nel contesto del triangolo Lariano, Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura; luglio 1985.

7.

A. Ubertazzi, Cave e artefatti archeologico-industriali secondo una lettura paesistico-abientale, in Aa. Vv., Fornaci da calce in provincia di Varese; storia, conservazione e recupero, atti dell’omonimo Convegno di studi, Comunicazione Europea, Ispra, 1995, pagg. 17-31.

8.

A. Ubertazzi, Demolire, in “Recupero & Conservazione” n. 9, De Lettera, Milano, aprile maggio 1996.

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