UCTAT Newsletter n.75 – febbraio 2025
di Maurizio De Caro
Dissoluzione programmatica
È un’attitudine, un pensiero trasversale, un guizzo, è la modalità scomposta della ricerca che, partendo per un ipotetico obiettivo, si perde tra le componenti che l’hanno generato.
L’indisciplina e le indiscipline si nascondono nelle epoche lontane, ma ci attraggono sempre, come canto di sirene irresistibili, come quei suoni misteriosi che pensavamo di conoscere e invece abbiamo definitivamente dimenticato.
Noi architetti, almeno non io che, tale non mi definisco, abbiamo la responsabilità di aver abdicato a questa pratica pericolosa, ma virtuosa, coinvolgente ed escludente al contempo, sempre schiacciati dalle nostalgie che riaffiorano, ricordi di tempi passati o recenti in cui avevamo almeno, speranze, desideri, veemenze e soprattutto concrete incongruenze.
L’architettura ha amato, non ricambiata, molte discipline, quasi tutte, oserei dire, ma diventando un ramo dell’economia ha preferito comodamente non frequentare più l’azzardo, il rischio estetico e concettuale, l’esplosione incontrollata e incontrollabile.
Che ne è stato dei circoli intellettuali, di ALFABETA, delle mostre incendiare fatte esclusivamente di progetti irrealizzabili e ovviamente irrealizzati, performance fricchettone, e Joseph Beuys, Cage e Gianni Sassi (“che il mare ha consumato, sono le mie parole, d’amore, per te”, come diceva il Poeta genovese).
Siamo invecchiati malamente proprio perché in buona salute e abbiamo scambiato la forza con la serenità che i vecchi implorano.
Non ci bastava, spegnere i desideri estetici, i sogni di una città pulsante, pericolosa e irriverente, ci siamo tutti insieme relegati alla narcosi creativa, con immobiliari immobili che non possono che immolare ogni velleità, ogni passione al sogno prevedibile di ogni stolto che, sulle pagine spente della comunicazione, esprime quella noia incapace perfino di rassicurare i più deboli di cuore e di spirito.
Non pensavamo che si potesse cadere così in basso, e non basta dirlo per viverlo, anche perché la qualità infima del Progetto e del Pensiero in un battito di ciglia diventa Legge, senza che nessuno se ne possa accorgere, e poi perché minare il battito flebile di un cuore che non è più attrezzato alle emozioni forti.
Non solo, dunque, non attendiamo più nulla, ma ci accontentiamo del nulla, perché abbiamo perso l’abitudine di raccontare che esiste qualcosa di diverso dalla condizione di normalità, di banalità che ha stabilito le regole della contemporaneità, tolte gli esercizi ginnici planetari di quattro archi-star.
Senza nessuna invidia per quanti hanno fatto anche dell’avanguardia un mestiere, dello “strambo e della stranezza”, una metodologia per affrancarsi velocemente dalla reiterazione delle forme abitudinarie, la sintesi perfetta tra pensiero incendiario ma superficiale e consuetudini edilizie senza alcun spessore ideale: alto e basso si scambiano segnali massificanti.
Solo in questi ultimi anni (qualche decennio) le cosiddette ultra-avanguardie hanno avuto questo generale e incondizionato riconoscimento culturale, lasciando a tutto il resto il compito di costruire il mondo artificiale dell’architettura, grande o piccolo, lussuoso o miserabile, casa, ufficio, museo, spazio civico, tutta la produzione progettuale vive in assenza di una vera critica delle forme, ingiustificata solo dalla scomparsa della critica “tout court”.
Disciplina, discipline, indisciplina, indiscipline
Nell’evoluzione del pensiero umano, epoche diverse si sono susseguite alternando momenti di rivoluzione a momenti di restaurazione, e questo non in stretta dialettica col “tempo della politica e della società”, e non è solo la fortuna di epoche lontane, pensate a Kubitschek e Brasilia e Niemeyer, nei tempi recenti, o episodi lontani nei secoli che, hanno visto la convivenza di orribili dittature e grandiose stagioni storiche d’avanguardia.
Ora il “convento del mondo ci somministra questa zuppa insipida” e le voci dissonanti che sappiano usare non dico la dodecafonia ma almeno il controcanto, tacciono, come le cetre di Quasimodo, e non oscillano lievi, ma statiche, inseguendo motivi per cantare, per dare senso al tempo che ci attraversa.
Per esempio, l’Ordine ci chiede Aggiornamento Professionale, riproducendo la banalità dei crediti (o banalità del male) che impongono quella disciplina che nessuno può trasgredire, quale dogma di una professione che non esiste più: scrivere un romanzo, eseguire un’opera elettronica, lavorare per i quotidiani, realizzare mostre o monografie.
Infatti, non ho mai risposto alle domande dell’Ordine sulla formazione in cui non mi riconosco.
Disciplina, discipline, in assenza di dibattito, nella negazione delle dialettiche.
La professione esiste solo se esprimi una sottomissione pedissequa alle regole volute da chi non potrebbe accettare scostamenti semantici, perché non è in grado di stabilire che cos’è e cosa dovrebbe fare, un architetto.
“Se dovessi insegnarvi architettura? davvero una domanda difficile… Inizierei proibendo gli ordini, mettendo la parola fine a questa incartapecorita stupidaggine degli ordini, una incredibile sfida all’intelligenza. Insisterei su un vero rispetto per l’architettura” (Le Corbusier).
Ma questo non siamo ancora riusciti a capirlo, a parte il burocrate pieno di certezze che dispone i tracciati culturali, che ogni progettista deve assorbire per diventare disciplinato, per non suscitare stupori, pericolosi nella mente schematica del legislatore.
I tempi non sono maturi, ma le forze in campo sono deboli quindi aiutano, quanti amano lo “status quo”, e soprattutto i tanti che non hanno idee ma che continuano a ripetercelo.
“L’architettura è una specie di oratoria della potenza per mezzo delle forme” (Friedrich Nietzsche). Mestiere complesso, professione impossibile, che delega a terzi la sua volontà di essere, tra amministrazioni, soprintendenze, economie e committenti insipienti, il risultato non può che risultare coerente al periodo che non necessita di grandi pulsioni emotive.
Tranquilli e allineati non si cresce, non si evolve ma si sopporta meglio l’esistenza, e se non succede quasi nulla, almeno la “cultura delle consuetudini” può sopravvivere e se lo dice la legge, sono tutti felici.
Disciplina e indisciplina non possono dunque dialogare, seguono tracciati incompatibili e nascono da pensieri opposti, le condizioni produttive sono frutto di volontà che condizionano i risultati, che vivono in pianeti lontani.
Ipotesi teorica generale (o di nicchia)
“Il nostro compito è quello di dare al cliente non quello che voleva ma quello che non aveva mai sognato” (Denys Lasdun).
Dimenticare le premesse nostalgiche e abbandonare le retoriche che impediscono di analizzare vivificandoli in tempi presenti, non per guardare avanti ma per cercare di semantizzare l’adesso, senza necessariamente invocare un futuro che, comunque vada, è insondabile.
Educare all’utilizzo scorretto delle discipline (arte, sociologia, antropologia, musica, grafica, comunicazione), metabolizzarle o addirittura fagocitarle, un sano cannibalismo ci farà solo bene, e guardiamo ai fenomeni in modo disincantato e ironico, senza dover trasformare ogni lezione al Poli, in Essere e Tempo di Heidegger.
Certe volte essere stupidi è molto meglio che “sembrare” intelligenti, e poi in questo modo si riassorbe la capacità poetica dell’ignoranza fanciullesca, un architetto in fondo è un signore invecchiato precocemente che è rimasto profondamente infantile; dunque, gli si perdona anche la sua inadeguatezza e ogni insipienza.
Cerchiamo nuovi territori inesplorati? Rileggiamo filologicamente quelli passati? Cerchiamo di sovrapporre i due metodi, qualcosa di bello nascerà, scantoniamo dalla dittatura del già detto e del già fatto, il terzo millennio è cominciato da un quarto di secolo eppure siamo, o sembriamo statici, come pugili suonati, ma l’arbitro non ha ancora contato il nostro stare al tappeto, e mancano dieci secondi almeno.
Non ho soluzione, non ho sperimentazioni da condividere ma una supplica voglio farla agli uomini di buona o di qualche volontà: lanciamoci fuori da questa palude, cerchiamo un modo qualunque per tornare a dare un significato professionale e umano alla sequenza pesante e vuota di questi giorni, di questi anni che si stanno succedendo invano.
Cerchiamo, continuiamo a cercare senza avere la pretesa che potremo trovare qualcosa, o qualcuno; nella grotta di Montecristo non troveremo il tesoro, ma forse quella voglia incoercibile, perché profondamente umana, di andare oltre, oltre il viaggio, oltre le consuetudini, oltre ogni certezza accumulata in questi decenni di ansia e di rinunce.
L’architettura in fondo è come la vita, devi prenderla di petto, altrimenti non riuscirai più a giustificare il fatto di volerla vivere, praticare, se non addirittura amare.
“Una cieca e inflessibile mancanza di disciplina in ogni tempo costituisce la vera forza di tutti gli uomini liberi” (Alfred Jarry).

