UCTAT Newsletter n.67 – maggio 2024
di Aldo Castellano
Un po’ per gioco – ma anche non troppo – ho posto una serie di domande a ChatGPT. La soprintendenza di archeologia, belle arti e paesaggio può essere considerata una magistratura? In sintesi, questa la risposta della macchina: no, non può esserlo, perché non esercita il potere giudiziario, svolge solo funzioni amministrative relative alla tutela del patrimonio culturale.
Giusto. Ma insisto: allora cosa si deve intendere per magistratura? E lei risponde: il termine generalmente si riferisce all’insieme delle cariche e degli uffici giudiziari o amministrativi che esercitano il potere statale in un sistema giudiziario (giudici, pubblici ministeri, magistrati amministrativi e altri funzionari con autorità decisionale o di supervisione all’interno del sistema legale e amministrativo di uno stato); le magistrature sono responsabili dell’applicazione delle leggi, dell’amministrazione della giustizia e della tutela dei diritti dei cittadini.
Ok, è l’accezione corrente della parola, anche se in origine aveva un significato ben più ampio. In ogni modo, non ancora soddisfatto, vado avanti. Ma le soprintendenze non sono anche organi giudicanti? Come un disco rotto, mi sento ripetere la solita risposta.
Segue ancora qualche scaramuccia tra me e la macchina, e alla fine, piuttosto demoralizzato, esco con un: ma insomma, la facoltà di approvare o negare il permesso di intervenire su un edificio, in base alla valutazione che esso sia da considerarsi illegittimo rispetto a un dato criterio con valore prescrittivo, non è da considerarsi proprio di un potere giudicante? E ChatGPT, con mia sorpresa: «Hai ragione, mi scuso per l’imprecisione. La procedura di approvazione o negazione dei permessi per interventi su edifici può coinvolgere aspetti che possono essere considerati giudiziali». Ma, forse per fugare ogni dubbio, aggiunge subito che «tuttavia, è più accurato dire che questa autorizzazione è parte del potere amministrativo delle soprintendenze piuttosto che del potere giudiziario».
Vedila un po’ tu come preferisci, ma, a mio avviso, chi ha potestà sanzionatoria svolge ipso facto una funzione da magistrato, sebbene, nelle funzioni del soprintendente, tale ruolo non sia esclusivo o di natura comparabile con quello del magistrato ordinario. E, con questo, chiudo i miei rapporti con ChatGPT.
Riconosco di aver fallito clamorosamente nel mio primo tentativo di spingere quella cosiddetta intelligenza artificiale a elaborare qualcosa di un po’ più sofisticato di semplici risposte da bignami. Forse avevo presunto troppo. Volevo insistere un po’ provocatoriamente sul confronto tra le due istituzioni semplicemente perché convinto che proprio attraverso di esso emerga con maggior chiarezza la problematicità di alcune funzioni del soprintendente. Che meritano non tanto le consuete geremiadi di tanti progettisti e operatori, ma ben più concrete proposte di possibile riforma per garantire una maggiore efficienza della tutela del patrimonio culturale, senza dover mortificare, al tempo stesso, le ragioni dell’ammodernamento urbano e dello sviluppo economico, e la dignità dell’architettura nuova. Credo si tratti di un tema rilevante soprattutto di questi tempi in cui, posti già al riparo dell’arca patrimoniale le maggiori testimonianze culturali artiche e storiche, per un’inarrestabile sindrome di Noè diffusasi nella nostra società, si è cominciato a estendere l’interesse culturale, meritevole di tutela, anche al corrente tessuto edilizio del passato, con il serio rischio di una totale imbalsamazione della città.
Alla luce del proposto confronto, mi preme subito sottolineare un primo punto. Nella valutazione di un fatto giuridicamente rilevante intervengono nel contraddittorio del dibattimento processuale più attori distinti, almeno in teoria: l’accusa, la difesa e il giudice. Nella valutazione se un oggetto edilizio rivesta o meno un interesse culturale, ce n’è, invece, uno solo: il soprintendente, coadiuvato da un proprio funzionario.
Inoltre, mentre la fattispecie di un reato fa riferimento, in genere, a un fatto incontrovertibile, oggettivo – un omicidio è un omicidio; un furto, un furto… –, quella dell’interesse culturale si fonda sul valore storico e/o artistico di un oggetto materiale, almeno nel caso di un edificio. Ma il valore non può essere attribuito per legge, ma in base a una interpretazione di alcune proprietà dell’oggetto, riconosciute di pregio particolare o giudicate importanti.
Il riconoscimento dell’interesse culturale di un dato edificio è, dunque, un’operazione spesso molto complessa e mai “oggettiva”. Si basa su una delle tante possibili interpretazioni della storia dell’edificio. Ed è, peraltro, sempre provvisoria, nel senso che nuove acquisizioni o anche solo nuove considerazioni possono cambiarla o addirittura mutarla di status, da significativo a insignificante. Così avviene in genere in un paese libero e democratico, dove le molteplici interpretazioni del passato sono sempre sottoposte, oltre che al metodo scientifico, alla regola democratica della maggioranza degli studiosi. La più convincente in un dato periodo è anche quella più seguita, ma sempre a fianco di altre altrettanto pertinenti. Naturalmente, in una autocrazia, dove la ricerca non è mai libera, anche le interpretazioni sono ridotte all’unità, quella ufficiale, per legge, e così anche l’interesse culturale di un edificio non può che rispecchiare quella verità di Stato.
Trovo sempre sorprendente che in uno Stato di diritto e liberal-democratico come il nostro alberghino norme di legge che sembrano tratte dai tempi de “Li soprani der monno vecchio”. Al tempo del Belli, nel 1831, c’era ancora l’assolutismo dello Stato pontificio e si lottava disperatamente per sconfiggerlo. Il Codice Urbani, invece, quello dei beni culturali e del paesaggio risale al 2004! Alcune delle sue norme hanno conferito all’inquisitore-giudice dei beni culturali – il soprintendente – il potere autocratico di verificare e dichiarare l’interesse culturale di un edificio senza contraddittorio alcuno con le ragioni della proprietà e della città che lo ospita, e senza supporto alcuno delle varie discipline implicate nella valutazione storica dell’immobile, essendo questa, non più l’artistica, ormai la prevalente per poter imbarcare nell’arca patrimoniale qualcun’altro dei tanti edifici correnti rimasti nel tessuto storico della città. Certo – bontà del legislatore, all’improvviso fattosi memore dello Stato di diritto! – è prevista anche la possibilità di ricorrere contro la decisione del soprintendente. Ma la magistratura amministrativa del TAR è incompetente in qualunque campo storico, oltre che artistico, e non può entrare nel merito storiografico della valutazione di interesse culturale, ma solo rilevare e censurare gli eventuali errori e vizi di forma del provvedimento amministrativo.
Già dal 2015 il Consiglio di Stato ha dovuto riconoscere che il procedimento per la dichiarazione di interesse culturale è connotato – parole sue – «da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari (della storia, dell’arte e dell’architettura) caratterizzati da ampi margini di opinabilità». E, sì, proprio così. Gli storici lo sanno da sempre. Ora lo sa anche la magistratura.
Manca ancora, però, che ne prenda atto il legislatore, ponendo così rimedio a quella aberrazione contenuta nel Codice Urbani che in materia di tale delicatezza ha attribuito al soprintendente quei poteri autocratici. Non si tratta solo di sostituire doverosamente un’impostazione concettuale delle modalità di governo dei beni culturali, tuttora fondati su principi dell’ancien régime, con altri propri di un moderno stato di diritto. Si tratta anche di avviare un nuovo indirizzo collegiale in materia di difesa del patrimonio culturale, che permetta di giungere finalmente a una possibile condivisione delle ragioni della tutela e del cambiamento, pur sempre sotto l’autorevole regia del soprintendente. Le motivazioni dell’interesse culturale di un edificio potranno essere adeguatamente dibattute prima dell’eventuale sua dichiarazione. Il ricorso alla magistratura amministrativa non avrebbe più vera ragione di essere. Per gli altri possibili reati, che dovessero occorrere durante il procedimento, c’è sempre la magistratura ordinaria, civile e penale, a provvedere.

