UCTAT Newsletter n.80 – luglio 2025
di Carlo Lolla
“La forma segue la funzione.” – Louis Sullivan (1896)
Questa celebre affermazione dell’architetto americano Louis Sullivan anticipa uno dei principi guida del design industriale moderno. La frase contiene l’essenza di un cambiamento epocale: il passaggio dalla produzione artigianale alla fabbricazione in serie, dalla decorazione alla razionalità funzionale.
Il design industriale nasce da una frattura: quella tra l’artigianato e la produzione meccanizzata introdotta dalla Rivoluzione Industriale. Ma prima della rivoluzione industriale all’artigiano dalle mani sapienti era affidato il compito di plasmare oggetti unici, sintesi di tecnica stilistica e bellezza. L’estetica non era un “valore aggiunto”, ma parte integrante dell’oggetto. Con l’avvento delle macchine la produzione si trasforma radicalmente. La quantità prende il sopravvento sulla qualità, la funzione sulla forma, la standardizzazione sull’originalità.
Questa nuova logica produttiva inizialmente ignora l’estetica. I primi manufatti industriali sono anonimi, privi di linguaggio formale, ridotti a strumenti freddi ed efficienti. È proprio in reazione a questa perdita che, all’inizio del Novecento, nasce il design industriale come disciplina autonoma: un campo che si propone di riunire forma, funzione e produzione, restituendo dignità estetica e culturale all’oggetto comune.
Con l’avvento della macchina a vapore, del telaio meccanico e della catena di montaggio, l’oggetto si spersonalizza. La produzione in serie impone l’efficienza, la ripetibilità, il costo ridotto. La forma viene trascurata
William Morris, fondatore del movimento Arts and Crafts (fine XIX sec.), reagisce a questa tendenza, affermando:
“Non voglio arte per pochi e lusso per molti, ma arte per tutti.”
Il suo tentativo è quello di salvare l’estetica anche nel quotidiano industrializzato. Tuttavia, sarà solo nel Novecento che il design industriale troverà una vera definizione.
L’avvento del Bauhaus in Germania segna un momento fondativo. Fondato nel 1919 da Walter Gropius, il Bauhaus fu il primo istituto a fondere arte, artigianato e industria. Architetti come Marcel Breuer, Mies van der Rohe, Gerrit Rietveld progettano oggetti, mobili e edifici con la stessa mentalità razionale.
“Design is not style. It’s a method of solving problems.” – Charles Eames
Lì si educano artisti e progettisti a pensare oggetti utili, funzionali e belli, concepiti per la produzione in serie. Il motto “form follows function” diventa la nuova regola aurea. Il designer industriale è colui che dà forma all’oggetto, meditando sulle sue funzioni, ma anche sul suo impatto sensoriale e simbolico.
Nei decenni successivi, in un mondo sempre più orientato al consumo, il design si lega strettamente alle logiche del mercato e della comunicazione. Diventa identità aziendale, emozione d’uso, simbolo culturale. Marchi come Braun in Germania, Olivetti in Italia e successivamente App negli Stati Uniti, dimostrano come un prodotto possa incarnare un pensiero progettuale, una visione del mondo.
L’Italia, uscita dalla guerra, scopre il ruolo del design nell’identità industriale e culturale. Nascono collaborazioni fondamentali: Achille Castiglioni, Marco Zanuso, Bruno Munari.
Il design industriale diventa anche strategia aziendale, come dimostra: Adriano Olivetti, che unisce tecnologia, estetica e responsabilità sociale.
“Il fine dell’impresa non è il profitto, ma l’elevazione dell’uomo.”
Ma la riflessione sul design non rimane confinata agli oggetti. Gli architetti del Novecento – spesso coinvolti nella progettazione di arredi e prodotti, iniziano a sperimentare una forma di contaminazione tra scala minuta e scala urbana. L’oggetto diventa un microcosmo del progetto architettonico: ne riflette i principi, i materiali, le logiche compositive.
Pensiamo a Le Corbusier, che disegna sedie, tavoli e lampade con la stessa logica funzionalista delle sue unità abitative. Oppure ai maestri del Razionalismo italiano, come Giò Ponti, che passano con disinvoltura dal cucchiaio al grattacielo. Ponti, in particolare, è emblema di questa fluidità progettuale: architetto, designer, editore, pensatore, capace di concepire tanto un palazzo quanto una maniglia, un mobile o una sedia come parte di un sistema coerente.
Nel dopoguerra, con la ricostruzione e la modernizzazione, il design industriale diventa strumento di progresso sociale. Le case si arredano in serie, le città si dotano di infrastrutture e spazi pubblici pensati in modo razionale. Oggetti, ambienti e architetture condividono una grammatica comune, tesa all’efficienza e alla bellezza accessibile.
L’incontro tra design e architettura non è mai univoco: si tratta piuttosto di uno scambio a doppio senso. Se gli architetti portano nel design industriale una visione spaziale e costruttiva, il design offre all’architettura soluzioni modulari, principi di ergonomia, sensibilità materiche e formali che influenzano l’urbanistica e l’edilizia.
Anche l’architettura, dal canto suo, guarda al design per ripensare le abitazioni e i quartieri come prodotti intelligenti, costruiti su misura delle persone.
Il design industriale non si ferma all’oggetto, ma invade lo spazio urbano.
Pensiamo agli arredi urbani: pensiline, panchine, lampioni, dissuasori, fontanelle, elementi progettati secondo logiche tipiche del design industriale, ma integrati nella città come veri e propri elementi architettonici. Il design degli spazi pubblici nasce da un pensiero simile a quello dell’arredamento domestico: modulare, replicabile, sensato. O ancora ai progetti di housing sociale, dove il linguaggio del prodotto, ripetibilità, funzionalità, accessibilità, si riflette nella progettazione del vivere collettivo.
Negli anni più recenti, il design ha contribuito anche alla rigenerazione urbana, grazie a microinterventi di arredo, segnaletica, illuminazione intelligente, dispositivi digitali e spazi temporanei. L’oggetto diventa agente urbano, capace di attivare nuove modalità di fruizione dello spazio pubblico.
Oggi è impossibile tracciare una linea netta tra design industriale e architettura. Entrambi nascono da una medesima esigenza: progettare l’ambiente umano, in tutte le sue scale. Dall’interruttore alla metropoli, ciò che conta è il pensiero progettuale: consapevole, responsabile, capace di dare forma non solo a oggetti o edifici, ma a esperienze, relazioni, stili di vita.
In questa prospettiva, il design industriale non è più soltanto la risposta alla crisi dell’artigianato o la celebrazione della produzione di massa. È una forma di cultura progettuale totale, che continua a dialogare con l’architettura, influenzandola e traendone ispirazione, per costruire un mondo più intelligente, più bello e più vivibile.
Oggi l’integrazione tra design e architettura si rinnova con le sfide contemporanee:
- Sostenibilità
- Interazione digitale
- Spazi ibridi pubblici/privati
Il progettista moderno non è più solo un architetto o un designer, ma un pensatore dello spazio e della relazione umana.
“Il design non è solo ciò che si vede e si tocca. È come funziona.” – Steve Jobs
Il design industriale, nato come rimedio alla freddezza dell’industria, è diventato uno strumento centrale per migliorare il mondo che abitiamo. Architettura e design si contaminano, si ispirano, si rafforzano reciprocamente. Dall’oggetto alla città, il progetto è oggi un’unica cultura trasversale, che mette al centro l’uomo, la bellezza e l’intelligenza delle cose.



