De te fabula narratur

UCTAT Newsletter n.83 – NOVEMBRE 2025

di Paolo Aina

Da studente sono rimasto affascinato e non so perché dalla pagina di un manuale (E. Neufert “Enciclopedia pratica per progettare e costruire”) dove in un foglio di grandi dimensioni si illustra la distribuzione della casa dal monolocale fino al castello.

Una pagina labirintica: dagli angoli del monolocale si dipanano corridoi, scale, magazzini, cucine, bagni, ambienti di servizio, camere, soggiorni, palestre, giardini…

Un dispositivo così complesso che mi aspettavo di veder comparire il Minotauro.

Non ho mai abitato in un monolocale né tanto meno in un castello; eppure quell’esplosione di spazi e funzioni mi hanno sedotto e, al di là della descrizione asettica di cucina, office, dispensa… pranzo, soggiorno, giardino d’inverno… camera da letto, spogliatoio, guardaroba…

Di seguito poi le misure per ogni funzione con gli oggetti che la caratterizzano: pentole, piatti, bicchieri… tavoli, sedie, divani… letti, comodini, armadi…

Un elenco esaustivo per una vita senza sorprese o, come diceva mia madre: “Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa”.

Nei primi progetti da “architetto laureato” credevo di poter mettere tutto in ordine. Qui il soggiorno, là una stanza, lì il corridoio…

Con le schede di un altro manuale (I. Diotallevi – F. Marescotti “Il problema sociale costruttivo ed economico dell’abitazione”) avevo misure certe per funzioni precise da applicare spietatamente.

“Ma architetto, il divano che ho ereditato da mia nonna non ci sta…”

Uff il divano della nonna…

I mobili che mi stipavano il cervello erano quelli moderni, quelli del Bauhaus…

Ragionavo che non è certo un comodo divano tradizionale che fermerà il progresso.

Con superbia pensavo che costruire un edificio in modo preciso “da manuale” fosse la stessa cosa che costruire una casa, che una casa fosse una macchina, che abitare fosse una sequenza di azioni precise nei modi e nei tempi.

L’aveva già pensato e detto un grande.

Il divano della nonna però aveva picconato drasticamente questi assunti.

In fin dei conti l’umanità costruisce città, case, edifici e mobili da mille e mille anni che abbia sempre sbagliato fino all’avvento di noi architetti moderni?

Questa favola cominciava ad apparirmi improbabile, un’illusione corporativa, un racconto   autoritario e senza nessuna indulgenza.

In fin dei conti l’Architettura Moderna era nata nel Nord Europa,  in tempi oscuri, in tempi in cui si sarebbero sviluppate organizzazioni politiche francamente opinabili che consideravano anche gli individui un ingranaggio al servizio della società e quindi sostituibili senza che la vita, la loro vita in quanto tale, avesse valore.

I primi edifici di quest’architettura non erano “case”, troppo contavano i modi produttivi, e le imposizioni.

I quartieri formati da edifici si proponevano come un dedalo di fabbriche uguali, simili, analoghe.

Unico riconoscimento della propria casa restava il numero civico, non si abitava in Via… nella Casa Rossa ma in Via… n. 36.

Anche lo spazio urbano si è adeguato, se ogni città aveva uno spazio pubblico riconoscibile per i colori, per la forma degli edifici, per un grande orologio, per l’acciottolato ora si è trasformato dovunque nella stessa cosa con lievi varianti: high-tech, alluminio, vetro, intonaco grigio e poca fantasia compositiva.

Edifici come astronavi autosufficienti atterrati qua e là senza nessun accenno di una qualsiasi empatia o compassione.

Come potremmo riconoscere la città in cui si trovano gli alloggi per gli atleti che parteciperanno alle Olimpiadi Milano-Cortina 2026 se non ci dicessero: “Sono a Milano”.

Immagini sovrapposte; un edificio moderno a Il Cairo è molto simile a un altro a Mosca.

Parafrasando una famosa poesia: “Dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, la casa dove abito la riconosco sempre meno”.

I geografi dell’Impero saranno contenti, finalmente la mappa ha sostituito completamente gli elementi effettivamente esistenti.

È questa la politica “delle magnifiche sorti e progressive”  di noi occidentali: occupare qualsiasi spazio negli stessi modi, montare edifici dalle forme non molto dissimili perché la loro produzione si è dimostrata la più efficiente.

A Milano, dopo gli interventi di edilizia popolare costruiti nel secolo scorso sulla falsariga dei quartieri nordeuropei con uno spazio stereometrico e senza sorprese  per dare un tetto a chi veniva in città attirato dalle possibilità di lavoro e che tutte le storie dell’architettura illustrano, si è creduto di essere analoghi alle città mondiali e ci si è comportati di conseguenza nonostante né le dimensioni spaziali né il numero degli abitanti fossero affini.

Le dimensioni della nostra città, in genere non equivalgono neppure all’estensione di un quartiere delle metropoli che si tenta di imitare.

Ma modernità e innovazione è la parola d’ordine e queste paiono le chiavi in grado di aprire ogni porta.

In edilizia si punta sull’IA, su “nuovi” materiali, su un elettronica che ci permette di accendere il riscaldamento con un SMS; gli spazi per la vita però si restringono sempre più.

Da regolamento le camere da letto doppie sono passate da 14 mq. a 12 e le singole da 9 mq. a 8,  restare soli in “Una stanza tutta per sé” è problematico.

Abbiamo trasformato le stanze in celle, non quelle della Certosa di Firenze care al grande di prima, ma a quelle di un carcere; non la gioia di vivere ma il nudo riposo per competere meglio.

Le norme edilizie estendono – almeno qui – la  repressione su come abitare sopratutto per chi non ha scopi speculativi ma intende semplicemente migliorare la propria vita.

Anche i colori delle facciate sono sottoposti ad un giudizio e devono avere, come si diceva un tempo, il permesso de’ superiori.

“Posso trasformare il mio balcone in veranda?, Posso fare una serra in terrazza?”

Assolutamente no.

“Posso costruire un grattacielo nel cortile?”

Venga che ne parliamo.

Eppure dalla lettura degli annunci immobiliari i desideri sono quelli di sempre: “vista panoramica”, “una casa immersa nel verde”, “muri in pietra”, “edificio in mattoni”…

Credo si possa dire che dal punto di vista del vivere i sogni non sono granché cambiati e non si sono adeguati alle esigenze della produzione industrializzata.

Non so spiegarmi in altro modo il perché le vecchie città del nostro paese abbiano così tanti visitatori e fin dagli inizi del ‘700 quando apparvero le prime guide di viaggio.

I Turisti di allora cercavano le bellezze artistiche, le vedute e le rovine ma dopo, in tempi più recenti vedevano anche la forma degli insediamenti.

Il tracciato stradale sghembo a formare lotti di forma irregolare che danno luogo ad edifici strani, ad angoli riparati, spazi privati/pubblici, dove ci si può sedere a riposarsi o a chiacchierare.

Una soluzione che l’architetto olandese H. Hertzberger ha adottato nei suoi numerosi progetti per abitazioni collettive

In una società così affannosa e dedita al lavoro continuo che annulla il tempo della riflessione e dei rapporti bisognerebbe tornare a piccoli accorgimenti spaziali di calma e relax.

Mi permetto alla fine una citazione, non di un architetto di chiara fama, non un filosofo pensoso e coltissimo, non uno scrittore di grande sapienza ma un premio Nobel molto popolare e amato nonostante la sua scontrosità.

Una canzone che amo e mi si attaglia: My back pages:

“Ah, but I was so much older then, I’m younger than that now”

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