UCTAT Newsletter n.78 – maggio 2025
di Luca Marescotti
“In the 1990s, market language took over government itself. “Customer service” became the watchword in every government agency. We’ve lost the ‘civil’ in ‘civil service’, (…) one federal worker recounted (…) We no longer see ourselves as part of the citizens; now we’re outside, doing things for the people or to the people. (…) With the transformation of free spaces rooted in local communities – parties, unions, even congregations and schools became service providers – citizens lost the settings of public life and democratic culture lost its wellsprings. The democratic movements like the New Deal reform and civil rights can be seen as counter trends. With the loss of identities and practices of participation in the civic life of places, a focus on efficiency that held ends constant and focused on techniques triumphed across political systems.”[1]
“La città è questo grande spartito di quanti l’hanno progettata nelle mappe e nei disegni, poi di quelli che l’hanno costruita e la vivono. (…) La città racconta ciò che nessuna rappresentazione è in grado di esprimere con la stessa efficacia. (…) Nei cortili interni si potevano trovare ancora case a ballatoio, i primi falansteri della città industriale. (…) Il disordine di angusti cortili con ancora qualche laboratorio artigiano, restituiva l’adattamento creativo di una varia umanità. (…) Il disordine di quegli spazi lo attirava…”[2]
Caro Fabrizio,
leggo le tue riflessioni sull’architettura e sull’urbanistica, affabulazioni che si protraggono nel tempo, lasciando pause per riflettere. Con attenzione e calma. Sento formarsi spontaneamente delle assonanze, quasi un dialogo tra i tuoi e i miei pensieri. La città come spartito d’acchito mi richiama altre suggestioni, ma fatico a ricordare; cerco allora tra i miei archivi: 1954 Luciano Berio, Bruno Maderna e Roberto Leydi con un Ritratto di città, esperimento su Milano in cui si mescolano voci e lingue, profezia multiculturale; poi quasi vent’anni dopo le indimenticabili, per chi le ha viste, sperimentazioni della Trilogia Qatsi di Godfrey Reggio maturate nell’arco di due decenni. Mi accorgo quanto sia però diverso il significato: se questi dell’esperienza urbana distillano parlato, musica e immagine, tu analizzi il progettare, indirizzi l’attenzione su come costruire rapporti tra le architetture nello spazio urbano e nel tempo, sulla città attraversata, sull’architettura vissuta abitando, camminando. Visioni che non si escludono, anzi da rimeditare. Credo di capire che il progettare e il pianificare crescano con l’esperienza urbana, e che richiedano sensibilità per cogliere il ritmo dei luoghi. Tu scrivi “disordine”, io colgo leggo “improvvisazione”, un’inaspettata e diversa armonia che si scopre percorrendo passaggi inusuali come quando attraversi i falansteri, così chiami le case a ballatoio che mettevano le vite in comune.
Non posso non riflettere sulla co-esistenza nell’urbanistica di diverse dimensioni, che devono essere tutte giocate simultaneamente per poter realizzare ciò che si era immaginato; la bellezza mi appare conseguenza di una lavoro lungo e progressivo, fatto di invenzioni, accordi, dissonanze che si compiono nelle architetture di edifici, strade e piazze: ogni percorso attraversa luoghi di incontri e di scambi, costruiti per esaltare il contenuto sociale delle città, quella miscellanea di società conviventi senza imbarazzi, né rancori, né pregiudizi. E certamente, tutto a portata di una manciata di minuti per tutti. Ricordi? Gli standard furono istituiti proprio per garantire a tutti l’accesso ai servizi, stabilivano un minimo ma non imponevano un massimo, lasciando ai committenti, i comuni, la scelta di superare quelle soglie e di promuovere la qualità progettuale. Forse era proprio questo che reclamava Aldo Rossi.
Quando ero giovane studente, nelle scuole private confessionali si lanciava un messaggio: “il governo ci deve finanziare per ridurre l’affanno della scuola pubblica”: quante volte le stesse argomentazioni, se non le stesse parole, sono state usate o urlate in Lombardia, e non solo, a proposito della sanità e dell’istruzione, negando sempre che il risultato non sarebbe stato mai, mai e poi mai una parità di accesso al pubblico e al privato. Tralascio le accuse di quelli che attribuiscono alla corruzione e alla mala gestione il degrado pubblico, sappiamo invece quanto la sottrazione di risorse pubbliche sia stata e lo sia tuttora la causa prima del degrado: enorme carenza di personale, tempi d’attesa inaccettabili, emarginazione dei meno abbienti. Chi si impegnerà nell’immediato, non domani, per il diritto di accesso alla sanità e all’istruzione? Quali garanzie offrirà?
Tu indaghi l’essenza dei rapporti tra architettura e urbanistica, anzi l’essenza dell’architettura-urbanistica e dell’urbanistica-architettura. Le tue parole sono convincenti anche se non nomini il piano; ti soffermi sulle differenze per ricondurle a una questione di scala, e sulle interconnessioni tra luoghi e spazi, per valorizzare quel “sistema armonico di luoghi” in cui si avverano multiple “catene di relazioni”[3]:
“Questa dimensione pratica e concettuale dell’architettura-urbanistica non può prescindere quindi da un’evoluzione dei principi di socializzazione, libertà e giustizia, per il miglioramento delle condizioni di vita. Un percorso collettivo, con il contributo di molteplici conoscenze. Per il progetto della città esiziale è la capacità di tradurre questi obiettivi in spazi adeguati, in una concezione prossemica che deve essere dell’architetto. E in questo senso l’urbanista-architetto progetta le relazioni spaziali tra i manufatti, mentre l’architetto-urbanista progetta lo spazio dei manufatti.”[4]
Dici che l’urbanista-architetto gioca non solo sulle quantità e sulla loro distribuzione ma indica come relazionarli così valorizzando l’armonia architettonica a scala urbana. Nelle città armoniose risaltano l’accoglienza, la facilità d’accesso ai servizi, le proporzioni architettoniche, la funzionalità, la facilità, la sicurezza. Tenere insieme le scale dell’architettura e dell’urbanistica è la bellezza di una città, un tema che riprende i discorsi scontri di quarant’anni fa sui rapporti tra morfologia e urbanistica e al discorrere tra Bohigas, Campos e Leira, che quest’ultimo così ricordava: “Campos concluyò con una lúcida reflexión integradora, escatológica referencia a Dios y al diablo, con papeles que, como en otros tantos aspectos, parecieran confundidos.”[5]
Città e società sono un inestricabile insieme fisico e sociale, dove si mescolano influenzandosi spazi e abitudini, protezioni e opportunità, inclusioni ed esclusioni, un groviglio che si rimodella nel tempo. La scelta di parte è costruire un urbano solidale, che accoglie dignitosamente chi gli chiede soccorso e che offre un’educazione alla cittadinanza nella vita quotidiana. Questa scelta non appartiene né all’architettura né all’urbanistica, ma alla politica, al governare. Senza farla vivere e abitare, senza adeguate risorse sociali ed economiche la bellezza dell’architettura e degli spazi sarebbe come “come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna”, vuoto, senza scopo.
Questo è il punto.
Da sempre affermo che il piano urbanistico, nonostante sia stato così variamente definito nei dialetti regionali, è lo strumento principe della disciplina; so anche che non è l’unico, eppure, e questo è un fatto, è l’unico che possa offrire un quadro di insieme di quanto si vorrà fare su cui mettere il sigillo dell’accordo tra tutte le parti sociali, evitando discrezionalità e incertezze. Il piano non è uno strumento tecnico e burocratico, ma un codice vivo che tiene assieme società, urbanistica ed architettura; nel rispetto delle finalità concordate può accogliere libere improvvisazioni per adeguarsi a necessità nuove e imprevedibili. L’urbanistica e l’architettura leggono e interpretano lo spartito urbano costruendo relazioni e rinvii.
Eccoci quindi a interrogarci su che cosa offrano Milano, la città metropolitana e la Regione Lombardia, dal punto di vista della casa, dei trasporti e del traffico, della sanità e dell’istruzione: possiamo quindi parlare senza retorica di “principi di socializzazione, libertà e giustizia”? Possiamo chiederci se e in qual modo se ne debba occupare l’urbanistica?
L’urbano, questa miscela di città e società, è l’unico spazio del giudizio; è qui che dobbiamo domandarci se stiamo veramente costruendo una città “per il miglioramento delle condizioni di vita”. In un’epoca così fortemente straziata dal sibilo dei missili e dal crescendo delle anomalie climatiche potrebbe parere strano parlare di governi urbani giusti e di città armoniose, abitate da società capaci di sentirsi arricchite dall’essere insieme: eppure qui sta l’inizio del vivere in pace per abitare la Terra, nella cittadinanza condivisa:
“Abitare, esser posti nella pace, vuol dire: rimanere nella protezione entro ciò che ci è parente (Frye) e che ha cura di ogni cosa nella sua essenza. Il tratto fondamentale dell’abitare è questo aver cura (Scbonen). Esso permea l’abitare in ogni suo aspetto. L’abitare ci appare in tutta la sua ampiezza quando pensiamo che nell’abitare risiede l’essere dell’uomo, inteso come il soggiornare dei mortali sulla terra.”[6]
Mi chiedevo a che cosa stessero portando le trasformazioni di Milano e della Città Metropolitana e devo dire che, viste da fuori, la risposta non pare molto difficile: una città ricca, giovanilistica, chiassosa, internazionale, attraente capace di fagocitare ogni spazio appetibile lasciando il resto in ombra. Un centro che si dilata, contornato da periferie che si allontanano senza svanire per quanto a esse si cerchi di togliere la voce.
È questa una città assai diversa da quella antica di cui parlano i libri di storia, fatta di orti e giardini nascosti dietro le facciate di severe dimore, quando nobiltà e borghesia nascente si celavano; assai diversa anche da quella più recente della nostra infanzia, quella del dopoguerra quando l’urbanistica appena reinventata era dominata dai piani di ricostruzione, dove i giardini storici erano sacrificati per una densificazione ante litteram nel nome della modernità, della crescita, o della rendita o forse in una miscela di tutto questo per dimenticare gli orrori della guerra. Grattacieli senza acciaio e palazzi capaci magari di costruire un nuovo dialogo con la città, non certo indolore se ripenso alle polemiche guidate da Italia Nostra: polemiche tra innovazione e tradizione o tra diversi professionalismi? Polemiche per creare confusione e incertezza? Nostalgie? Immagini in bianco e nero da confrontare tristemente?
Il passato offre lezioni, offre eredità senza testamento, offre uno spartito aperto da reinterpretare. Ecco, la questione del giudizio diviene una discussione sui valori, dove non si può ignorare che questi mutano nel tempo attraverso imprevedibili metabolismi. Nessuna nostalgia, dunque, verso un passato che per definizione non può tornare, nemmeno con la riapertura del Naviglio, questa, quand’anche avvenisse, genererà luoghi affatto diversi. Nessuna invenzione, quindi, della tradizione, liberiamocene! Solo una richiesta di chiarezza sui programmi per il futuro. E poi, semmai, un’altra domanda: quale attenzione sarà dedicata alla qualità urbana delle scuole, della sanità, del verde, di tutti i luoghi dell’abitare in ogni parte della metropoli? Terreni di risulta lungo la cintura ferroviaria o lotti centrali nelle strategie? Quale urbanistica concorrerà a dare spazi dignitosi ai lavoratori meno protetti, a volte costretti a orari e turni defatiganti? Come rendere dignitose le zone industriali?
Oppure tutti consapevoli e d’accordo nell’opulenta indifferenza riteniamo di non dovercene occupare?
Alcuni propongono da tempo di sostituire il piano con approcci meno complessi o meno rigidi, magari preferendo proposte morfologiche. Il fatto è che giuridicamente il piano oltre a sancire l’accordo sociale si forma, si adotta e si approva tramite un processo democratico di partecipazione, con facoltà di esprimere necessità e osservazioni. Questo lo pone unico nel perseguire quei “principi di socializzazione, libertà e giustizia”, per me e per qualcun altro, sacrosanti. Una discussione sulla costruzione della città e del territorio deve rimettere in primo piano gli abitanti nel processo urbanistico dalle ipotesi iniziali alle scelte strategiche e alle fasi operative. La partecipazione attiva esiste se e solo se si sarà capaci di mantenere costantemente comunicazioni chiare e concrete sulle attività decisionali e gestionali pubbliche.
Le strade e la città
Alessandro Ubertazzi in un discorso sul futuro della città si muove nell’orizzonte del terzo millennio e a me, che non sono sicuro del prossimo decennio e non certo per la mia età, mi pare un orizzonte inafferrabile. Già parlare del prossimo domani mi pare un azzardo. Spinto forse da una fede tecnologica Alessandro crede in un crescendo qualitativo inarrestabile degli insediamenti che si riflette di conseguenza sulla mobilità:
“Nel prossimo millennio, tutti i contesti antropizzati saranno caratterizzati dallo sviluppo della qualità insediativa e dalla sua omologazione ai livelli più alti. Ciò non sarà, naturalmente, immediato, ma il processo è comunque irrefrenabile. (…) Analogo discorso vale per i mezzi di spostamento che dovranno consentirci di raggiungere celermente i luoghi desiderati nei termini di un comfort elementare. Le risposte tecnologiche e organizzative che possono essere date alla esigenza di spostamento sono marginali: sostanziale è invece che tutto il territorio sia connesso con servizi appropriati che garantiscano davvero la facilità e la comodità di muoversi con particolare attenzione al livello individuale.”[7]
Ora come ora nelle città si vive una presenza ossessiva di automobili, di ingorghi che mettono a rischio le persone. Le automobili sono allo stesso tempo simbolo sociale e prigione, ostacoli materiali in sosta e in movimento, vincolano lo sguardo e celano la città. Non solo non ci consentono “di raggiungere celermente i luoghi desiderati nei termini di un comfort elementare”, ma che persino ci impediscono di vedere vie, piazze e architetture, o di comprendere l’esistenza di una qualsiasi regia urbanistica. L’occhio si perde, non genera più coscienza. Forse dovremmo cercare come distribuire insediamenti, dove costruire infrastrutture per il trasporto di massa così contribuendo a rispondere alle esigenze individuali. I ricordi dei pendolari, con buona pace del celebre Linch, si cristallizzano in una memoria di incroci, code e svincoli: questo è il frutto di decenni all’insegna di ricerche e investimenti sul trasporto privato piuttosto che su quello pubblico.
Questo esito non era un destino inevitabile, ma avevamo perso la ragione. Dobbiamo riprendere in possesso del progettare del futuro, poiché veramente tutto dipende dalla volontà camusiana di ribellarsi, come sostiene anche Aldo Castellani:
“Concludendo, mi sembra di poter dire che l’uomo con la sua tecnologia, purché adeguata, non costituisce affatto il problema per la sopravvivenza del nostro ambiente, come molti vogliono credere, e farci credere, ma, al contrario, la sua unica possibile soluzione. Naturalmente, sto parlando di un uomo che, come Prometeo, ama ciò per cui combatte, ribellandosi, se necessario, allo status quo.”[8]
Per accrescere l’armonia dell’ambiente bisognerebbe incentivare pedonalità e ciclabilità, senza inneggiare a quella assurdità demagogica della “decrescita felice”. Per accrescere l’armonia dobbiamo riappropriarci della città: mi è venuto spontaneo scrivere così, mi ricorda la mia giovinezza, non so perché. Non credo, per chiarire, in un assolo dell’urbanistica tecnica, sotto qualsiasi nome si presenti poiché la sostanza non può cambiare, anche se non voglio sminuirne l’importanza: la tecnica vive solo se guidata dalla massa corale e strumentale di attori, progettisti e fruitori; d’altra parte sono ben consapevole che della riforma urbanistica se ne discute a lungo senza mai giungere alla fine, ma non è della riforma né del piano che vorrei parlare quanto dell’esigenza di chiarezza e di autorevolezza, necessità per tenere viva e per far crescere la partecipazione. Voglio dire che il pianificare è una tecnologia di processo e che la città e il territorio sono prodotti tecnologici, per quanto complesse e in continua rielaborazione nel vivere l’abitare. Richiedono una manutenzione continua, revisioni e adattamenti, e non solo ai drammatici cambiamenti del clima. Come in ogni processo tecnologico si presuppone l’esistenza di standard, sia in fase di redazione del piano, con norme e legende semplificate e unificate, sia in fase di attuazione. Semplicità, chiarezza e autorevolezza rispondono all’esigenza di rispettare un patto sociale, ove condivisione e controllo sono due facce della stessa medaglia.
L’amministrazione risponde all’assalto del traffico con la Zona C e la Zona B, con la protezione ove possibile del trasporto pubblico e con nuove linee, con piste ciclabili, ma non prende provvedimenti concreti per ridurre la quantità di automobili in sosta e in circolazione. Senza significativi aumenti della sicurezza di pedoni e ciclisti. Alla densificazione non segue alcuna riflessione sulle conseguenze per il traffico, già di per sé drammatico. Il fatto è che da troppo tempo ci trasciniamo, ingigantendolo, questo problema: un’auto per ogni componente della famiglia. Ha ormai vent’anni l’autocritica di Campos sulla sottovalutazione dello scontro urbanistica-trasporti, già evidente negli anni Sessanta del secolo scorso e tutt’ora irrisolto. Campos ricordava con tristezza di non essere mai riuscito a contrastare l’idea che la motorizzazione privata fosse parte essenziale dell’emancipazione sociale, una pregiudizio che comportava la rinuncia quasi ideologica al ruolo dei trasporti di massa su ferro nei processi di metropolizzazione presente sin dall’epoca delle sperimentazioni intercomunali dagli anni Sessanta:
“A Roma nel 1962 come già a Milano nel 1953 la scelta urbanistica fu, dunque, quella di affrontare il problema della mobilità, affidandolo al trasporto su gomma. (…) L’alternativa riformista per la mobilità romana si basa, naturalmente, sulla più totale integrazione fra urbanistica e mobilità, cioè parte dal presupposto che sia lo stesso modello di piano e il processo di trasformazione urbana che il piano vuole guidare, a trasformare le scelte della mobilità come caratterizzanti del piano e della trasformazione. E l’alternativa, senza alcun preconcetto ideologico per la mobilità su gomma, punta dunque a trasferire su ferro quanto più possibile della mobilità cittadina e metropolitana; mirando, alla fine del processo, a correggere la negativa anomalia genetica dei trasporti che caratterizza Roma come le maggiori città italiane.”[9]
“Ricordo la critica per non avere la strategia urbanistica bolognese indicato una esplicita morfologia per l’assetto territoriale, mentre – ad esempio – per il Piano Intercomunale Milanese (il famoso PIM) Giancarlo De Carlo suggeriva un disegno radiocentrico “a turbina”, che in qualche modo ricordava il green belt londinese. Sono convinto, però, che il difetto più grave di quelle lontane operazioni metropolitane, fosse invece, a Milano come a Bologna, quello generale della cultura urbanistica italiana; che trascurava colpevolmente il ruolo decisivo dei trasporti di massa su ferro, nel determinare tanto le forme, quanto i contenuti dei sistemi territoriali. Difetto principale questo, di tutta l’operazione urbanistica bolognese degli anni ‘60; quello di aver puntato di fatto sulla motorizzazione di massa, considerata in quanto tale un obiettivo di “emancipazione sociale” e di aver così trascurato di prestare attenzione alla rete di trasporti su ferro, favorendo soltanto la rete viaria per il traffico su gomma. Aver provato a rovesciare questo difetto, senza riuscirvi, questa fu la mia sconfitta, in un quadro generale di successi.”[10]
Le parole scritte non fanno più parte di una riflessione collettiva, forse perché sono troppe, forse perché si crede di non avere abbastanza tempo, forse perché l’oggi sommerge tutto quanto appartiene a ieri, ma allora qual è il ruolo dell’università e della ricerca? Come potremo costruire un sapere critico e riflessivo?
Abbiamo perso questo senso profondo dell’istruzione.
Sulla mobilità l’azione milanese è sempre stata improntata all’ambiguità, affermando contemporaneamente il sostegno al trasporto pubblico, al trasporto privato e alla ciclabilità, senza rinuncia alcuna: investimenti sulle linee di superficie per la loro protezione, spesso virtuale; estensione della rete metropolitana sempre tesa a favorire un centro in continua espansione; costruzione di parcheggi sotterranei e concessione di permessi di sosta ai residenti nella tolleranza della sosta, che occupa ogni spazio possibile.
Il tutto mi sembra poco per strappare la città dalla congestione e medito sull’imperativo, più che invito, di Castellano: “come Prometeo, ama ciò per cui combatte, ribellandosi, se necessario, allo status quo”. Ecco, dobbiamo credere fortemente in questo: non solo le tecnologie devono essere guidate, non guidarci, ma bisogna che nella popolazione si diffonda la consapevolezza di gestire in modo alternativo l’urbano, prendendo atto di quella “sconfitta” ricordata da Campos. La libertà sul territorio, la libertà di abitare in pace e di muoversi con facilità deve fare i conti con la necessità di spazi liberi e pubblici, di luoghi di relazioni; non siamo abituati a discutere della capienza delle reti di trasporto, dell’esigenza di sicurezza per pedoni e ciclisti, del rafforzamento e dell’affidabilità dei mezzi pubblici.
La collaborazione stretta tra urbanistica e architettura è una necessità, che esige al di sopra una sensibilità e una volontà politica, ma anche, non dimentichiamolo, di una formazione tecnologica approfondita.
Le case e le città: stimoli per inventare
Forse Milano è come ogni altra città, ma a me piacerebbe che si potesse distinguere tra tutte per la sua capacità di sciogliere quel groviglio di questioni irrisolte che la rendono dura, difficile da abitare; vorrei che fosse capace di ascoltare le voci delle sue genti, che sapesse porgere a ciascuno un sostegno. A proposito della questione della casa a Milano mi riallaccio a due commenti su un quotidiano, uno di Federica Verona e l’altro di Concita De Gregori: la prima rimanda a Natalia Ginzburg, la seconda a Giorgio La Pira. Ero ormai così sconsolatamente abituato a questo scrivere nel presente che mi fa uno strano effetto leggere due articoli a distanza di pochi giorni che per parlar dell’oggi vanno indietro nel passato, nel mio passato[11]. Verona sceglie nella raccolta degli scritti politici di Natalia Ginzburg da poco pubblicata il discorso alla camera dal titolo “Le città e le case (10 maggio 1984)”, un titolo del tutto simile a quello di un suo libro molto noto e dello stesso anno: “La città e la casa”: due strade possibili apparentemente sullo stesso tema, distinte solo dal passaggio dal singolare al plurale.
La prima al plurale si lega alla carenza di case, al rincaro degli affitti e all’equo canone, la seconda al singolare ai legami che le persone hanno con i luoghi del loro vissuto. Una differenza di numero ed ecco che con il singolare siamo invece proiettati nell’universo intimistico dell’identità dei luoghi, quello strano fenomeno collettivo e allo stesso tempo soggettivo ed evanescente della memoria dell’abitare casa e città, ma anche alle relazioni sociali che sono quotidianamente tracciate in quei luoghi. Quel genius loci o identità locale fissato e tramandato nella memoria, quella nostalgia insita nei ricordi, che possono essere allo stesso tempo personali e collettivi. Una dimensione poetica. Con il plurale, invece, ci proietta nei disagi sociali, delle persone estraniate per povertà o per provenienza; stranieri per un verso o per l’altro, alla ricerca di un lavoro, di una casa, di dignità per potersi poi riconoscersi in quella casa [la mia casa], in quella città [la mia città], dove la cittadinanza nei fatti appartiene alll’urbano, all’essere comunità integrata nelle comunità.
De Gregori sceglie invece di parlare del problema della casa ricordandoci l’attività di Giorgio La Pira, democristiano, sindaco di Firenze in due legislature, dal 1951 al 1957 e dal 1961 al 1965[12]. Combattuto e deriso con metodi non sempre politicamente corretti, ma la questione era che fu eletto come antagonista del Pci. Eppure, democristiano e cattolico sincero, si impegnò per una politica della casa in coerenza con il contributo che aveva dato alla redazione della Costituzione, così, dopo aver cercato invano di rallentare gli sfratti e di affittare dai privati gli alloggi, decise di procedere alla requisizione in forza della legge del 1865 non senza suscitare forti reazioni.
In quegli anni casa e lavoro erano l’emergenza e quegli anni furono anche quelli della redazione e approvazione del Prg (1962) di Edoardo Detti e dell’impegno urbanistico di Zangheri per Bologna, con l’edilizia pubblica nel centro storico: questo era il clima che ancora si viveva a Milano e nella Facoltà di architettura un decennio dopo quando nel 1971 si ospitarono gli occupanti degli edifici di via Tibaldi. Alcuni docenti non condividevano quelle scelte: la Facoltà fu sgombrata dalla polizia e i professori del Consiglio di Facoltà sospesi. Anche se anni dopo furono reintegrati, la sperimentazione di una nuova didattica fu stroncata.
Natalia Ginzburg denunciava l’emergenza irrisolta delle abitazioni e si scandalizzava dell’inerzia con cui l’equo canone era gestito. Pochi altri, assai pochi, si scandalizzavano.
Per inciso scriverei de Le Vele, i cui abitanti poco tempo fa hanno occupato l’Università Federico II, senza traumi e denunce, ma di questo taccio.
Quarant’anni dopo a Milano ci accorgiamo che si ripresenta un problema della casa e che purtroppo l’attenzione dell’amministrazione pare concentrata sul costruire edifici più che dare casa a chi non la può avere e che la stessa gestione del patrimonio edilizio per contenere le spese ne ha trascurato il valore sociale. Nel saggio da cui ho tratto l’esergo Boyte accenna ai guasti che comporta un simile dominio della malta e del cemento che fa dimenticare chi ha realmente bisogno della casa:
“a bricks and mortars approach [has often] dominated the urban discourse…The result is a supply-side housing policy that focuses on the number of houses to be built with little regard for demand side issues such as employment, quality, and community building.”[13]
È solo una breve citazione, ma sufficiente per farci intendere che in fondo queste idee milanesi non sono tanto originali e che dovremmo avere il coraggio di domandarci per quali motivi il sindaco vuole far ricrescere la popolazione milanese, quale domanda sociale ha incontrato e fatta propria? La stima del fabbisogno nasce dall’ambizione un po’ retrò di una grande Milano, da esigenze imprenditoriali o da un pregresso fabbisogno inevaso? Quali sono i criteri che guidano la formazione dello spazio urbano?
La città è cambiata; l’urbanistica è accantonata; l’amministrazione dà l’impressione di un barcamenarsi senza lungimiranza; il debito pubblico è alto e senza dubbio andrebbe contenuto, ma purtroppo con un certo strabismo la politica sacrifica servizi pubblici e capitale sociale e tratta con prodigalità il privato senza alcuna contropartita decente. A bocca aperta si elogiano le stravaganze dei grattacieli; a bassa voce si parla di efficienza e di efficacia; in silenzio si accetta l’inasprirsi delle differenze sociali. Si invoca la sussidiarietà, si afferma che le pubbliche amministrazioni sono e devono essere vicine alle loro genti, ma non cerchiamo di capire se lo siano veramente, concretamente. O forse lo sappiamo, ma non sappiamo agire diversamente.
Nel linguaggio specialistico si usano termini come rigenerazione urbana, densificazione (a volte qualitativa), flessibilità, parole, forse concetti, che seppure non sempre nuovi sono ampiamente preferiti al piano di governo del territorio, che così scivola in un’altra accezione: un governare il territorio giorno per giorno, istanza per istanza. All’esplicita dichiarazione di volere la crescita della popolazione urbana non segue alcuna dichiarazione su quale popolazione attrarre. Tra un non vedo e un non sento il lusso di grattacielini e grattacieloni seleziona i nuovi cittadini di Milano. Qualcuno magari torna a parlare del profilo verticale, dello skyline un tempo dominato dalla Madonnina, ma pochi, se non nessuno, discutono del profilo sociale.
Alla situazione attuale si è arrivati scivolando su un piano inclinato di concessioni, di compromissioni e di menzogne che hanno portato all’imbarbarimento dell’urbanistica, ormai composta da un guazzabuglio incredibile, ambiguo e incoerente di provvedimenti legislativi nazionali e regionali che su una sola cosa paiono concordare: indicare nell’insieme un obiettivo e allo stesso tempo renderne possibile il contrario[14]. Un cumulo di menzogne ripetute a se stessi fino a renderle accettabili. Tra queste compare persino un “ragionamento matematico” che dovrebbe risolvere con eleganza il rebus urbanistico milanese: costruire densificando per raggiungere gli obiettivi demografici. Ecco la logica delle cose: poiché “il sindaco ha sempre dichiarato di volere una città con più abitanti” di conseguenza il fabbisogno quinquennale per raggiungere i suoi obiettivi è di: “50 mila alloggi. Sono 9.900 alloggi all’anno da realizzare: a fine 2024 ne arriveranno 2.600, quindi abbiamo un deficit del 256 per cento”. Semplice ingenuità o sarcastico cinismo? Di certo niente piano di governo, anzi sarà rifatto a breve. Basta solo aggiungere che costruendo in altezza si farà una Milano più verde: “Restiamo a Milano, in un’area abbandonata da riqualificare. Io compro 5 mila metri quadrati di volumetrie, cioè di superficie su cui il Comune mi consente di costruire. In questa superficie c’è un capannone industriale sviluppato in orizzontale. Per realizzare 80-100 appartamenti io lo demolisco, bonifico il terreno e devo per forza andare in altezza se non voglio consumare nuovo suolo. Anzi, cerco di liberarne, lasciando alla base del mio edificio spazio per realizzare un parco.”[15]
Non fa una grinza, anche se il problema è visto solo dal lato dell’offerta e non della domanda e se il verde non è rapportato agli abitanti! La questione della casa è stata completamente ribaltata; la casa come servizio è dimenticata, salvo qualche timida, e recente, proposta di cessione gratuite di aree per chi costruirà per affitti a prezzo calmierato: si pensa a 9.000 alloggi. La Milano verde è una città che selezione abitanti, noncurante di operatori domestici, di badanti e di operai. La classe operaia non è in paradiso, esiste lavora, magari costretta al turnismo, e muore, con buona pace della salute e della dignità del lavoro.
È stata issata la bandiera della gentrificazione e nessuno intende ammainarla. L’urbanistica avrebbe dovuto servire per indicare il futuro, per anticipare gli eventi, la scelta morfologica invece ribalta il tavolo: caso per caso, giorno per giorno. In un breve tempo la composizione sociale muterà e con essa gli interessi dell’elettorato verso le tensioni per i “principi di socializzazione, libertà e giustizia”: quella nuova composizione ucciderà questi.
Cittadinanza e partecipazione
Ora per tornare all’inizio, all’urbanistica che riguarda tutti, bisogna cambiare prospettiva, dimenticare la retorica dell’unità della popolazione (il popolo) e coinvolgere tutte le sue diverse componenti in una progettazione articolata per i fabbisogni, diversi per cultura, per età, per salute. Ascoltare tutte le comunità, o società, è già iniziare a progettare il futuro, la chiave sta nel sapere incastrare partecipazione e cittadinanza.
All’inizio del decentramento amministrativo milanese si manifestava una partecipazione attiva, spontanea, attenta ai processi amministrativi e soprattutto all’urbanistica, ai servizi e alle trasformazioni urbane. Era mezzo secolo fa: le riunioni serali in sale affollate attiravano per discutere del proprio futuro urbano, coinvolgendo università e stimolando il moltiplicarsi di comitati civici. Quelle serate erano la dimostrazione di quanto il governare la realtà fosse un processo fluido e dinamico, diverso da problema a problema, dove ogni tema mutava il coinvolgimento. Le analisi prodotte dai movimenti erano spesso ideologiche per enfatizzare rancori e tensioni; la loro esasperazione sboccò invece in una progressiva diffidenza, anticipazione del disinteresse, così venendo meno proprio alle stesse forze generatrici di movimenti popolari e di sindacati di base. Sul versante opposto non credo che si possa affermare che le fasi istituzionali, dai Consigli di quartiere ai Consigli di zona e ai Municipi, abbia rafforzato la partecipazione. La parola popolazione nella politica stava già perdendo di significato, manipolata oltre misura come annota Carofiglio, che peraltro conclude con una metafora dei frattali per parlare di individuo e comunità, espressione locale che si dilatata comprendendo tutto il genere umano:
“I frattali offrono una nuova rappresentazione del mondo che muove dall’idea che il piccolo, in natura (ma probabilmente anche in molti altri ambiti), non è nient’altro che una copia del grande. Comunità è un concetto frattale. Una comunità si può comporre di soli individui nelle sue dimensioni più elementari (famiglie, piccole associazioni), come di individui insieme ad altre comunità diverse ma integrate fra loro, nelle sue manifestazioni via via più complesse. Come accade alle comunità sui territori, fino alla comunità nazionale e alle comunità internazionali, fino al concetto, audace e decisivo per la sopravvivenza della specie sul pianeta, di comunità umana. Il concetto frattale di comunità tiene insieme le uguaglianze e le differenze, le uniformità e le dissonanze. È un concetto attraverso il quale si può praticare un’idea non retorica di progresso, di solidarietà, di convivenza, di rispetto delle differenze. Di cura e di ricerca di felicità.”[16]
E di bellezza. Le immagini dinamiche, colorate, imprevedibili dei frattali ci illuminano sulle potenzialità dei raggruppamenti sociali, espressione delle molteplici immagini dell’essere umano. Spetta per primi ai politici usare un linguaggio di apertura: siamo tutti allo stesso tempo cittadini di un luogo e cittadini della Terra, individui e comunità e società. La forza che ci deve aggregare nasce dalla riformulazione dei principi della partecipazione e dell’educazione alla cittadinanza, una cittadinanza fatta di diritti e di doveri che coinvolge – tutti e insieme – nella costruzione della città.
Da tempo rifletto su un autore lontano da noi, ma forse non così lontano, che non si occupa di architettura né di urbanistica ma di Public Work Philosophy alla Augsburg University: Harry C. Boyte. Mi attira il suo modo di indagare l’educazione alla cittadinanza per promuovere e applicare i principi di cittadinanza attiva, cittadinanza democratica, di spazio libero, principi che nascono dai diritti e che, soprattutto, impongono doveri. Boyte termina quel breve saggio già citato e basato sulla sue esperienza tra i giovani rimarcando come questi sviluppino il desiderio di intraprendere professioni di interesse pubblico e sociale in un deserto di offerte:
“Young people want to do work of consequence for themselves and societies. They want to participate in a public culture that recognizes and values such efforts. If they are in school, they are eager to become citizen professionals.i We need instead a new citizen politics that recognizes the importance of free spaces, citizen professional practice as public work, and democratic culture-making at its center. In such politics citizens are not consumers or volunteers. They are builders of a democratic way of life.”[17]
Dunque, la ricetta deve combinare slancio sociale e stimolo delle istituzioni. La partecipazione, non il movimentismo o il volontariato e nemmeno il formalismo burocratico, implica la volontà di valorizzare il capitale sociale attraverso una rete di attività pubbliche. La partecipazione si costruisce nel lavoro, nell’informazione e nella mobilitazione incessante e sincera, non si sostiene solo quando si è all’opposizione: è un modo di pensare e di agire, di parlare e ascoltare; è nel concreto della vita quotidiana l’educazione alla cittadinanza. Per questo quando si governa è ancor più necessaria; per questo bisogna rivolgersi alle persone senza mentire, per far sentire ciascuno dentro la storia della propria comunità e del proprio comune, a fianco del consiglio e della giunta municipale, poiché lì stanno i rappresentanti eletti con cui quotidianamente confrontarsi. Parlare, parlare e ancora parlare per spiegare strategie e progetti, opportunità e risorse, potenzialità e limiti delle azioni pubbliche e di quelle private; chiarezza su fattibilità, potenzialità e difficoltà delle strategie e dei progetti, allo scopo di mantenere viva l’attenzione durante i processi sociali, politici ed economici della vita urbana. Senza equivoci tra partecipazione e associazionismo, ma usando i municipi e il loro eventuale decentramento come uno degli spazi, non l’unico, per promuovere e mantenere attivo il capitale sociale. L’urbano (polis, urbs) non accetta semplificazioni, deve essere progettato contemporaneamente in tutti i suoi aspetti, governando le tensioni che lo generano e lo tengono assieme con la leggerezza della chiarezza e dell’autorevolezza.
I legami interni alle comunità nella comune cittadinanza si proiettano all’esterno e riuniscono le diverse comunità, questi stessi legami attraverso il piano e il progetto devono potersi materializzare nell’architettura e negli spazi urbani. Così si incentiva la fruizione sociale dello spazio urbano.
La partecipazione reclama lo spazio per esistere, checché ne dicano i sostenitori della socializzazione digitale, troppo legata all’istante e condannante alla solitudine: non si deve costruire se non si hanno contenuti. Pensieri come scintille, abbaglianti tracce da ritrovare. Ritorno ai tuoi libri per riprendere il dialogo:
“Parte del fascino della città risiede nel suo spazio pubblico. Un insieme mutevole per configurazione e modalità d’uso di ambienti della vita civile. Punti di incontro, di manifestazioni e riti collettivi, sistema arterioso come di un corpo umano; non a caso si ricorre all’espressione di ‘cuore della città’. Così ogni città si anima nello spazio che ne racchiude la singolarità, che richiama le idee della sua concezione.”[18]
La città è un Teatro Olimpico per eccellenza, uno spazio scenico vivente. Nelle ricerche sull’identità eviti accuratamente quegli approcci nostalgici, ma affronti la presenza della città nelle nostre vite: lo spazio della vita, la democrazia urbana, la cura della città, lo spazio pubblico, la municipalità, la qualità dell’architettura. utopia e distopia, la città digitale, insegnare e apprendere, identità e identificazione. Discorsi brevi, ponderati, densi. “Poco più di cento pagine, come un liquore forte ma sconosciuto”[19]. Un altro passo racchiude il ruolo del tempo e del vissuto in una soggettiva e progressiva contrazione temporale:
“Così lo spazio del passato mi appare relativamente piccolo, non più con le dimensioni delle immaginifiche visioni d’allora. Una diversa chiave di lettura del mistero della misura dello spazio e del tempo.”[20]
Spazio e tempo dell’architettura e della città sono i temi dominanti, l’insieme rimanda all’inscindibile connubio città e società dove riemerge la questione disciplinare:
“(…) pongo ancora nell’urbanistica e nell’architettura un fondamentale riferimento disciplinare per un rinnovato rapporto con l’ambiente, auspicato ma per ora quasi del tutto assente, che si riconduce al senso pratico del costruire la città per un bisogno con una misura sociale e antropometrica.”[21]
Il cuore della città è dunque l’essenza della polis (“La democrazia urbana”): se nella città greca antica di Ippodamo il fulcro stava nella posizione centrale dell’agorà nella scacchiera, ora l’obiettivo è la trasformazione della città tutta in agorà, in spazio scenico e politico, dove le singole identità possano rispecchiarsi nelle molteplici identità sociali e architettoniche dell’urbano:
“La città è una struttura fondamentale delle convivenze, con radici nella storia e nelle forme di governo mutate nel tempo. Una organizzazione che coniuga aspetti politici, economici e sociali in diverse condizioni ambientali. La globalizzazione superando secolari confini ha posto problemi di convivenze, un meticciato destinato a mutarne la struttura e l’immagine.”[22]
Qui si fronteggiano la dimensione sociale e quella individuale in una battaglia tra le forze che connettono e sostengono la partecipazione e quelle che atomizzano e che spingono all’anonimato urbano. Negli anni recenti questa dimensione ha vinto su quell’altra chiudendo le persone nella proprietà individuale, la casa, il lavoro l’automobile o disperdendole nella folla. Ascoltare tutte le comunità è già progettare il futuro. Sarà poi con il tempo che la vita urbana adeguerà e si adeguerà alla città fisica e che si plasmeranno nuove e mutevoli relazioni tra le comunità. Si formeranno, si dissolveranno e si riformeranno dinamicamente rinnovando dimensioni e ruoli nella politica, nella società, nella cultura e nell’economia. Ma questa consapevolezza non è sufficiente: per sradicare solitudine e rancori bisogna ripartire dal valore pubblico dei servizi e dalla cittadinanza, facendo cardine sui principi costituzionali nostri, dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite rette dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che sancisce la libertà sul territorio di tutti gli esseri umani, anche se a volte non pare che tutti se ne ricordino:
“Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.”[23]
Tutto si tiene e così infine il cerchio si chiude discutendo della cittadinanza, della responsabilità dell’urbanistica, della partecipazione attiva, della diffusione dei servizi sociali, della qualità e quantità degli spazi pubblici, della qualità delle architetture, della costruzione di spazi liberi, ovvero, adattando al presente parole d’altri tempi: tensioni sociali nella formazione e nella fruizione della città.

[1]Harry C. Boyte, “Free Spaces and Social Capital”, Democratizing universities and the future of democracy: The Role of Citizen Professionals, University of Cape Town, 11 August 2015.
[2]Fabrizio Schiaffonati, Lo specchio dei luoghi, Invicem, Milano 2024. pp. 41 e 42.
[3]Ibidem, p. 92.
[4]Ivi.
[5]Alfonso Álvarez Mora, María A. Castrillo Romón (a cura di). 2004. Urbanismo. Homenaje a Giuseppe Campos Venuti. Universidad de Valladolid, Secretariado de Publicaciones e Intercambio Editorial, Valladolid, p. 40. A p. 26 Bohigas definiva quell’approccio “reformismo revolucionario”.
[6]Martin Heidegger (a cura di Gianni Vattimo), Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1991 (1957), p. 99.
[7]Alessandro Ubertazzi, UCTAT Newsletter 64, febbraio 2024.
[8]Aldo Castellano. UCTAT Newsletter 66, aprile 2024.
[9]Campos Venuti, Giuseppe. 2001. “Il sistema della mobilità.” Urbanistica LIII (116): 166–172. Cit.: p. 168; p. 171.
[10]Campos Venuti, Giuseppe. 2005. “Il mio lungo percorso verso la metropolizzazione.” Metronomie XII (31): 49–67. Cit.: pp. 50-51. Si veda anche il commento sulle cause che hanno polarizzato il processo di metropolizzazione sui capoluoghi invece che sullo sviluppo dei sistemi delle regioni urbane.
[11]Federica Verona, “Milano diventi un laboratorio per l’abitare”, La Repubblica, ed. Milano, cronaca, 5 luglio 2024; Concita De Gregori, “Il diritto alla casa”, La Repubblica, ed. nazionale, 14 luglio 2024, p. 23.
[12]Si veda per esempio: Mauro Bonciani, “Case sfitte e fabbriche, i blitz di Giorgio La Pira e gli altri”, Corriere Fiorentino, 16 ottobre 2019.
[13]Harry C. Boyte op. cit.
[14]Si vedano: Marco Engel, Ugo Targetti, Laura Pogliani, Fabio Pellicani. 2024. “Riflessioni sul ‘Caso Milano’ in vista della variante al Pgt.” Urbanistica Informazioni, n. 313 (febbraio); INU. 2024. “Il Campo di battaglia dell’urbanistica milanese.” INUcomunica.
[15]Federica Venni, “Intervista. L’imprenditore dell’immobiliare. Oriana: Servono alloggi. Noi rigeneriamo gli spazi con lo sviluppo in altezza”, La Repubblica, edizione Milano, 24 ottobre 2024, p. 3. (Federico Oriana è presidente di ASPESI Associazione Nazionale tra le Società di Promozione e Sviluppo Immobiliare).
[16]Gianrico Carofiglio, La nuova manomissione delle parole, Feltrinelli, Milano 2021, p. 105-106.
[17]Harry C. Boyte, op. cit.
[18]Fabrizio Schiaffonati, Identità di una città. Pensieri, critiche, progetti. Identità di una città. Pensieri, critiche, progetti. Lupetti, Milano, 2022, p. 55.
[19]Ivi, Maurizio De Caro, p.116.
[20]Ivi, p. 29.
[21]Ivi, p. 29.
[22]Ivi, p. 33.
[23]Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948, articolo 15. Ripresa nella Convenzione sulla nazionalità del Consiglio d’Europa del 1977 dove si afferma che nazionalità e cittadinanza nel contesto specifico sono sinonimi.
