UCTAT Newsletter n.83 – NOVEMBRE 2025
di Michele Bulgarelli
Scrivere “sulla casa e il diritto ad averla” significa confrontarsi con un tema ampio, stratificato e tutt’altro che risolvibile in poche righe.
È un argomento che può essere affrontato da molteplici angolazioni — sociali, economiche, politiche, urbanistiche, giuridiche — e che, a mio avviso, non possiede una sola verità. È un nodo che intreccia dinamiche storiche, culturali, economiche e amministrative, e che resiste a ogni lettura univoca. Le teorizzazioni politiche del passato, gli esperimenti urbanistici più o meno riusciti, i grandi programmi di edilizia sociale, le normative spesso contraddittorie, e perfino l’assenza di visioni urbanistiche chiare sono tutti tasselli di una lunga storia, sopra tutto italiana che, dalla Rivoluzione Industriale, ha reso il tema della casa uno dei problemi fondamentali delle società moderne.
Pur essendo un fenomeno globale, vale la pena soffermarsi sul nostro Paese, che presenta specificità e contraddizioni strutturali uniche rispetto ad altre nazioni industrializzate. Preferisco farlo con un approccio pragmatico, basato su esperienza professionale, confronto con interlocutori diversi — pubblici, privati e accademici — e un’analisi concreta delle possibilità. Metto volutamente da parte, almeno per questa riflessione, le grandi visioni salvifiche: la giustizia sociale come obiettivo assoluto o l’architettura come panacea. Preferisco rimanere su un piano operativo, pur dentro la consapevolezza che la questione abitativa è, e resta, un nodo complesso.
Nell’attuale scenario, con risorse pubbliche limitate e bisogni abitativi in costante crescita, ritengo che una parte della soluzione possa emergere solo da una cooperazione reale tra settore pubblico e privato. Non come due attori contrapposti, come troppo spesso accade — quasi nemici ideologici — ma come partner che, pur con finalità diverse, hanno convenienze convergenti: il privato ha bisogno di realizzare progetti sostenibili e il pubblico ha il dovere di rispondere ai bisogni della comunità e generare consenso attraverso scelte efficaci. È una sintesi riduttiva, ma realistica: successo imprenditoriale da una parte, legittimazione politica dall’altra.
Negli ultimi tempi, in particolare nel caso di Milano, alcune indagini della magistratura hanno interpretato il dialogo tra amministrazione e operatori privati come un possibile terreno di collusione, uno scambio di favori orientato alla massimizzazione del profitto a scapito dell’interesse collettivo. Senza entrare nel merito delle inchieste — che dovranno naturalmente seguire il loro corso — ritengo però che, quando una città ambisce a trasformare radicalmente vaste porzioni del proprio territorio, sia inevitabile confrontarsi con soggetti privati dotati di esperienza e capacità economica. Non per cedere alle pressioni del mercato, ma per costruire scenari condivisi che permettano di ottenere benefici pubblici attraverso investimenti privati. È un processo considerato normale in molti Paesi europei, come la Francia, dove pubblico e privato collaborano in maniera strutturale. Da noi, invece, il dibattito scivola spesso in un terreno ideologico, con il rischio di paralizzare qualsiasi iniziativa.
A complicare ulteriormente il quadro intervengono alcune caratteristiche tipicamente italiane.
La prima riguarda l’altissima percentuale di proprietari immobiliari: circa l’80% della popolazione possiede un immobile. Questo dato, apparentemente rassicurante, non significa che l’80% viva nella casa che possiede, né che le case siano disponibili per i nuovi nuclei familiari. È piuttosto l’esito di una lunga tradizione culturale fondata sul risparmio immobiliare e sulla stanzialità. Una tradizione oggi meno stabile per le generazioni giovani, molto più mobili e meno protette economicamente.
Secondo elemento: la profonda disparità territoriale nel costo della casa e della vita. Il divario tra molte città del Sud e del Nord è significativo, ma il caso di Milano rappresenta un’estremizzazione: in una città dove i costi abitativi hanno raggiunto livelli tali da escludere intere categorie di lavoratori medio-bassi, il semplice affitto di un modesto trilocale può assorbire quasi l’intero reddito mensile di un insegnante con famiglia, lasciando margini quasi nulli per altre spese.
Terzo elemento: la differenza tra grandi centri urbani e piccoli Comuni. In questi ultimi la rete sociale, la presenza di patrimonio immobiliare familiare e l’assenza di domanda speculativa rendono l’accesso alla casa più possibile e meno gravoso. Le abitazioni dei nonni vengono raramente vendute, non per scelta culturale ma per assenza di un mercato. Rimangono così disponibili all’interno dei nuclei familiari, fungendo da risorse utili per i più giovani. Tutto ciò è quasi impossibile in una città come Milano, dove valori immobiliari elevatissimi e domanda costante rendono ogni spazio prezioso.
Questi elementi, banali forse, mostrano tuttavia con chiarezza come il tema del diritto alla casa diventi particolarmente drammatico nei grandi centri ma anche in alcuni piccoli Comuni ad alto richiamo turistico-residenziale, dove è praticamente impossibile per i residenti accedere alla proprietà abitativa.
In attesa che la politica nazionale avvii una revisione radicale dell’intero impianto urbanistico, oggi obsoleto, frammentato e contraddittorio, occorre lavorare con gli strumenti che abbiamo. Una riforma seria — una sorta di nuova “tabula rasa” normativa — è più che auspicabile, così come un moderno “Piano Casa” ispirato ai modelli storici tipo piano Fanfani o dei PEEP. Ma nell’attesa è essenziale collaborare. La realtà impone soluzioni sostenibili, anche piccole, che possano almeno attenuare la tensione abitativa crescente.
Il nodo politico rimane cruciale. Per affrontare la questione abitativa, la politica deve assumersi responsabilità concrete e adottare scelte coraggiose. Deve saper dialogare senza pregiudizi con gli operatori privati e costruire accordi che garantiscano un equilibrio: sostenibilità economica per chi investe e vantaggi reali per la comunità. Questo purtroppo accade raramente.
Milano rappresenta un caso emblematico di questa difficoltà. Nonostante la previsione annunciata con clamore del PGT, di avere migliaia di abitazioni in ERS, risultata solo una vana speranza, le unità di edilizia residenziale sociale realmente realizzate negli ultimi anni sono una minima frazione rispetto a quelle inizialmente annunciate. I dati mostrano un divario evidente: migliaia unità di edilizia libera realizzate, contro poche centinaia di ERS, totalmente insufficienti a rispondere alla domanda. Le ragioni sono molte, ma una spicca più di altre: i valori economici imposti per l’ERS non coprono più nemmeno i costi di costruzione, cresciuti in modo esponenziale negli ultimi anni. Ciò rende l’ERS non sostenibile, se non inserita in una strategia più ampia di incentivazione.
Le associazioni di categoria hanno avanzato nel tempo proposte concrete — incremento degli indici edificatori, revisione dei valori minimi di vendita e locazione, introduzione di quote proporzionali sostenibili — ma tali proposte non hanno trovato adeguata accoglienza. La nuova variante del PGT sembra orientata a ulteriori limiti, che rischiano di ridurre ancor più la possibilità di sviluppare interventi equilibrati.
Il risultato è un corto circuito tra esigenze sociali e opportunità reali. Da un lato si invoca la calmierazione dei prezzi; dall’altro si ostacolano le condizioni che permetterebbero di generare nuova offerta. Continuare a demonizzare la densità edilizia, la verticalità o il nuovo in quanto tale — mentre si invoca, al contempo, il non consumo di suolo — crea una contraddizione difficilmente superabile. L’Europa, anzi, chiede di costruire in verticale proprio per contenere il consumo del territorio: una linea che noi continuiamo a leggere con sospetto ideologico.
In un mercato sano, è il nuovo che abbassa il prezzo dell’usato: la mancanza di offerta mantiene invece elevato il costo anche di immobili datati o di scarsa qualità. A ciò si aggiungono i tempi biblici delle autorizzazioni, che aumentano i costi complessivi degli interventi e che inevitabilmente vengono ribaltati sul mercato. Serve dunque una razionalizzazione del sistema autorizzativo a livello nazionale, non solo per Milano ma per l’intero Paese.
In attesa della tanto desiderata rivoluzione urbanistica, è necessario un cambio di prospettiva: una collaborazione reale tra pubblico e privato, basata sulla trasparenza dei dati e sulla condivisione degli obiettivi. È necessario identificare margini di manovra che permettano la realizzazione di progetti sostenibili anche per quella parte della popolazione che rischia di essere esclusa dalle città in cui lavora. L’alternativa è un aumento del pendolarismo, dei costi sociali ed economici per la collettività, e un ulteriore peggioramento della qualità della vita dei cittadini costretti ad andarsene dalle città.
Serve un tavolo stabile di confronto in cui operatori, architetti, amministratori e parti sociali possano discutere dei progetti senza pregiudizi e senza reciproche demonizzazioni. Da un lato, non si può negare il diritto del privato al profitto; dall’altro, è necessario che il privato accetti l’idea di una sua possibile riduzione in nome dell’interesse pubblico. Ideologia e demagogia non risolveranno un tema così complesso; la collaborazione potrebbe farlo.
Solo un approccio condiviso potrà produrre benefici sociali reali e contrastare il processo di gentrificazione che sta trasformando molte città italiane e località turistiche. Non è negando la realtà del mercato che lo si controlla, ma governandolo con strumenti adeguati.
Prima di immaginare rivoluzioni globali, occorre riconoscere ciò che è possibile fare ora. È necessario rinunciare alla tentazione di dipingere il privato come nemico del bene comune o il pubblico come ostacolo allo sviluppo. Il tempo delle contrapposizioni sterili è finito. Serve concretezza: piccole soluzioni per grandi problemi.
Proviamoci.
