Evviva l’architettura

UCTAT Newsletter n.56 – maggio 2023

di Marino Ferrari

Corre in me l’obbligo di sottolineare come le “belle architetture “metropolitane e non solo, degli anni 60 70, apparivano interessanti ed affascinanti: oggetto di ricerca e didattica. Dovendo produrre una ricerca con una forte valenza tecnologica, visitai il cantiere della IBM di Segrate, ove la realizzazione dell’edificio avveniva completando ogni piano progressivamente e posizionato di seguito. L’edifico non esiste più: niente didattica, solo una normale operazione economica.

Altre analoghe architetture, ove resistono, si confondono e scompaiono dalla visione fagocitate dalla espansione selvaggia pur guidata, come si guida un gregge nella transumanza. Anche nella Valle dei templi le “antropizzazioni” hanno cancellato lo spirito della materialità contemplativa quale espressione pura del rapporto tra l’uomo e i suoi dei; mescolati con i miti degli eroi senza i quali gli dèi non si sarebbero potuti manifestare.

Il rapporto tra la città e la campagna si è talmente laicizzato da diventare una moda fatta di orti sui marciapiedi e piante poste in verticale come se fossero entrambe una grande novità, urbana; se fosse solo per la dimensione, andrebbe bene, la misura ci accontenta e ci sostiene. Ma la misura è di ben altro sapore. Vero è che tutte le belle architetture che ha partorito il nostro Paese o Nazione che dir si voglia, vengono invidiate da tutto il mondo; forse un poco meno da quello di Samarcanda o di San’a, contaminate da culture popolari che non trovano riscontro con le nostre, ma sempre di architettura si parla. Occupazione del territorio al fine di rispondere alle esigenze umane anche indipendentemente dai committenti. Insomma, l’architettura è grande “di per sé”; coloro che l’agiscono son pur grandi anche loro e poco importa se la relazione tra coloro “che pensano ed immaginano” paesaggi urbani o simili e i “fruitori”, alla fine passa attraverso una modestissima attività immobiliare. Rimango fedele all’architettura come “fatto materiale” e pertanto materialisticamente contraddittoria ed anche contraddetta dai presupposti creativi, poetici e spirituali, e tutto ciò che inficia ed ha inficiato i processi creativi e spirituali. L’architettura come mi è stata insegnata è morta e a farla morire son proprio loro, i manutengoli delle “affinità elettive” i cui processi sono diversamente collocati nella sovrastruttura produttiva.

La “cose fatte bene” sono pur sempre belle. Son queste “cose” a non apparire chiare; il linguaggio dalla Valle dei Templi ad oggi, ha percorso una lunga strada sulla quale è riuscito a generare canoni interpretativi, a consolidare funzionalmente i rapporti tra involucri ciechi e trasparenti (chiedo scusa per l’involucri.), bucature e finestre, coperture e piazze sino a quando, superato l’inghippo del “fuoco sottratto agli dèi” e adeguandosi al fabbisogno quotidiano, si è scontrato con la Tecnologia (con la maiuscola). E da quel momento l’architettura ha perso la sua poetica e la sua spiritualità; si è convertita alla produttività del mercato, si è abbandonata agli origami merceologici. I suoi “pensatori” sono diventati profeti delle mode, delle sorti progressive pur di essere, in quanto tali, “fini a sé stessi”. Purtroppo, nell’ambito “spirituale” dell’architettura non vi sono giacobini, non vi sono medici che inventano l’utilizzo di un artificio come risolutore delle più evidenti contraddizioni (sociali). Per questo mi sento alquanto vicino alle espressioni minimaliste, semplici, corrette sotto il profilo de-ontologico e costruttivo, non prosaiche, ma artigianali; non esasperazioni di linguaggi o di visioni oniriche che neppure nelle menti si atomizzano. Se dovessimo, e lo faccio sovente, confrontare le “didascalie” di opere affermate come architetture e le architetture medesime scopriremmo non solo la stupidità ingenua dei linguaggi, ma la capacità di “traslarli” verso gli apparati merceologici e modali facendoli coincidere, benedicendo di fatto l’architettura come merce. E lo è! Ma,” sì come immobil dato il mortal sospiro” l’architettura persevera lungo la sua strada tracciata dagli epigoni, di generazione in generazione, oggi si (ri)trova a vivere una maestosa contraddizione: quella di vedersi ri-posizionata nella natura. Ah, la meraviglia della natura riappropriata, riconquistata! Cosa farebbe l’architettura senza di essa? Semplice, quello che da sempre fa. Disbosca per realizzare la chiesa di Ronchamp, scava per realizzare il progetto di Piano anche se il confronto non può esistere (W L.C.), mette gli alberelli in vasche per collocarli sulle torri,  e  programma qualche migliaio di alberelli in città, toglie i vigneti per realizzare il MART costruisce città nel deserto e ne costruisce lunghe anche 3 km e forse più, emulando proprio L.C. Tralasciando le cantine.

Come abitudine, gli alberelli, siano imbucati nel cemento e nell’asfalto! L’architettura ha dalla sua la bellezza, la bellezza del processo che contamina la Natura per edificare la Contemplazione sopprimendo la contraddizione. Ma ci pare forse che il “grande maestro” o vate o “santone”, sappia dire no al progetto di una città lunga 3 km e più o una città nel deserto? Dove andrebbe a finire l’orgoglio della competizione, il confronto e la superiorità creativa, la dimostrazione della onnipotenza umana? Noi siamo capaci di giustificare le nostre azioni ma non riusciamo a spiegarle perché ci manca la consapevolezza scientifica. Per questo preferiamo la poetica, per questo preferiamo l’idealismo, per questo ci aggrappiamo alla fantasia chiamandola design come chiameremmo qualsiasi prodotto da vetrina. Confondiamo la filosofia con la realtà.

Mentre la grande scelta, faticosa e gravata da intime contraddizioni, dovrebbe essere la scelta di individuare sapientemente le contraddizioni, sviscerarle abbandonando ogni presunzione manichea, richiamarsi al senso dell’umanità stravolta dall’incedere nella ricerca del benessere assoluto.

Ma ci sarebbe un altro interessante approccio, quello sottolineato dal Curatore della esposizione alla Biennale “Lo spazio oltre la soglia” il quale “mette insieme un concetto psicanalitico e al tempo stesso architettonico. Tradizionalmente il confine in architettura è una linea netta contro cui si sbatte, dove incomincia qualcos’altro. Se invece fosse un settore nel quale un po’ si sovrappongono cose che arrivano da una parte e dall’altra, si darebbe luogo a un territorio comune che non appartiene né all’uno né all’altro e che proprio per questo potrebbe diventare il luogo dell’incontro, dove i limiti delle libertà individuali si aprono accoglienti. Spazi intensi, avvincenti, d’intersecazione di individualità”.

Semplice!

Mi piace, ciò nonostante, leggere afflati di contemplazione e dichiarazioni amorose per l’architettura richiamandone la funzione al servizio dell’umanità. Certamente è anche un richiamo al dovere deontologico, pur ricco di umanesimo e di reminiscenze illuministiche. È apprezzabile: significa che vi sono animi generosi anche se pervasi da illusioni, contemplativi per alcuni versi, disponibili ad immergersi nelle grandi contradizioni contemporanee, pur non vedendole chiaramente, che trovano la più alta e drammatica espressione nella città: città illeggibile secondo gli schemi accademici tramandatici dalla Storia perché in ogni momento sono superati dalla realtà.

Se l’architettura deve essere riesumata, orbene, che venga innanzitutto liberata. Ecco dunque, a mio avviso, quale potrebbe essere il terreno di superamento dello stallo: ragionare prima attorno, poi, dentro, la Natura. Portare la Natura in città è una offesa alla Natura stessa. Capovolgere invece il rapporto sin qui operato; scardinare le regole tecnologiche costrittive, immettere nella città elementi di trasformazione culturale veicolando anche l’architettura, ma una architettura ripristinata, anzi, rigenerata come, si rigenera l’albero.

Paolo Portoghesi, Sala del soggiorno, Terme Tettuccio, Montecatini (agosto 2022).
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