UCTAT Newsletter n.68 – GIUGNO 2024
di Paolo Aina
Facciamo che ero un architetto e giravo per questa città piena di ristoranti e bar con tavola fredda affollati e tronitruanti di urla e chiacchiere.
Gli edifici che li ospitano delimitano uno spazio pubblico che è stato invaso da tavolini e tettoie: io e gli altri passanti ci stringiamo per non urtarci e non rovesciare tavolini e bicchieri.
Nel cielo ci sono nuvole grigie e nere, speriamo che non piova, non ho l’ombrello e penso che non potrei neppure riparami sotto i balconi dei vecchi edifici, sotto un albero con una fitta chioma, al riparo dei portici. Noi passanti per proteggerci dobbiamo trasformarci in avventori.
Questa città ha deciso che lo spazio pubblico non ha più ragione di esistere al di fuori del meccanismo del consumo continuo, solo i parchi non sono ancora stati privatizzati, ma già i cartelli: “La manutenzione di questa aiuola è a cura di…” non promette nulla di buono. E così seguendo il rotolio dei pensieri mi chiedo cosa sia successo, quando sia successo, come sia successo? Potrei farmi adesso, da abitante della città, un pippone sulla bontà della natura ma so che non è vero. La natura non è buona, al massimo è indifferente se non ostile, per averci a che fare occorre negoziare, negoziare duramente e restare sempre in guardia.
Mille anni fa ero giovane, di quel tempo non rimpiango nulla se non la giovinezza, lo spazio cittadino era meno ingombro: per guardare una vetrina non dovevo fare lo slalom tra i tavolini, le piazze in alcune occasioni erano occupate da manifestazioni di vario genere e gli appuntamenti si davano citando le caratteristiche dello spazio e non i nomi dei bar.
Ma di cosa rimugino mi chiedo.
Gli spazi pubblici che più mi aggradano, quelli a che mi vengono in mente se ci penso sono le piazze dove un Garibaldi un po’ sghembo chiama all’unità d’Italia e il conforto dell’ombra fresca dei portici quando sul selciato gli stradini fanno cuocere le uova.
Le vecchie città configurano lo spazio in modo tale che gli abitanti ne traggano una certa comodità. Chi costruiva un edificio per sé e per la sua famiglia non solo cercava il lustro e il comfort personale ma si inseriva nella storia della città, nelle sue fantasie e nelle sue tradizioni tenendone in gran conto. Ogni città , proprio per queste ragioni, assumeva un’identità propria.
Non era e non è difficile distinguere le vecchie città: Padova non è Milano, Berlino non è Parigi e neppure Cervia è Rimini.
Negli anni del dopoguerra tutto il mondo prendeva ad esempio le città italiane.
Ma poi mi dico: non sarai un anziano laudator temporis acti? Mannò mi consolo,
vorrei solo sedermi all’ombra privo di obblighi, vorrei uno spazio che mi mostri un po’ di empatia e non sia così sborrone, come dicono a Rimini appunto.
Mi sorge il dubbio che la teoria dell’autonomia dell’architettura sia stata un disastro per la progettazione dello spazio adatto alla nostra vita.
Vedo che si sta avvicinando un vero architetto, chiederò a lui cosa ne pensa, cosa dev’essere questa sfuggente architettura.
L’utilizzo dell’ultimo materiale messo sul mercato, un modo per spiegare la vita com’è, la bellezza che nasce dall’auto-referenzialità del linguaggio del progettista, chissà che mi dirà?
Mi risponde: “L’archtettura deve essere contemporanea”.
Contemporanea? Mi domando allora come mai mi trovo meglio negli spazi della città vecchia, mi chiedo perché gli spazi nuovi siano così poco empatici delimitati come sono da specchi che mi riflettono e non permettono che mi scordi della mia figura e moltiplicando la dimensione del recinto non mi fanno sentire più libero né più al riparo.
Sarà come diceva uno degli dei del modernismo che “L’architettura è la volontà dell’epoca concepita spazialmente”?
Mi fa impressione questa frase così altisonante: “la volontà dell’epoca” a quel tempo la volontà era una cosa tesa al dominio, alla sopraffazione e alla limitazione della libertà di noi individui non più tali ma masse ubbidienti a cui l’architetto dettava le regole della vita, attraverso uno spazio senza nessuna storia perché la volontà ne aveva fatto macerie dapprima teoriche e poi, con la guerra, reali.
Mi rassicuro e spero che non sia più così e da qui occorre partire “Walking on the Wild Side” per concepire degli spazi che mettano in luce la libertà, la magia e la bellezza di un vivere senza sentirsi costretti a qualcosa.

