UCTAT Newsletter n.68 – GIUGNO 2024
di Matteo Gambaro
Il 22 maggio scorso alla Triennale di Milano, nell’ambito della Milano Arch Week 2024, si è svolta la giornata di studi internazionale intitolata “(A new) Torre Velasca? I grattacieli milanesi tra storia e progetto”. Tale iniziativa, organizzata da un gruppo di docenti del Politecnico: Francesca Albani, Alessandra Coppa, Matteo Gambaro e Damiano Iacobone, si è posta l’obiettivo di sollecitare una riflessione critica sull’approccio metodologico per l’intervento sui “grattacieli” milanesi che stanno dimostrando un’intrinseca fragilità al passare del tempo e non sono più in grado di rispondere adeguatamente alle esigenze della società contemporanea. La prima parte della giornata di studi è stata dedicata alla Torre Velasca, attraverso i contributi di studiosi del Politecnico di Milano (Chiara Baglione e Maria Teresa Feraboli), dell’Università di Kent (Gerald Adler) e del MAXXI di Roma (Carla Zhara Buda), che hanno affrontato il tema del delicato rapporto tra il progetto e la storia, anche alla luce di una rilettura dell’amplissimo materiale d’archivio, conservato appunto al MAXXI; ed anche grazie alle relazioni del progettista del recente intervento di restauro, Paolo Asti, della proprietà e di una delle aziende che hanno supportato il restauro del paramento esterno.
Nella seconda parte il dibattito è stato orientato a interventi contemporanei che hanno interessato alcuni edifici alti milanesi, come la Torre della Permanente, le Torri Garibaldi e la Torre Turati, rilevanti da un punto di vista storico e luoghi pienamente vitali che hanno definito il volto della città. I temi connessi al riuso di questo complesso patrimonio sono stati discussi in una tavola rotonda coordinata da Francesca Albani (Politecnico di Milano) alla quale hanno partecipato Matteo Gambaro (Politecnico di Milano), Paolo Asti (Studio Asti Architetti), Filippo Pagliani (Park Associati), Massimo Roj (Progetto CMR) e Alessandro Scandurra (Scandurra Studio).
Il filo conduttore del dibattito è stato sul paesaggio urbano milanese, caratterizzato, storicamente, dalla presenza di un numero rilevante di edifici con tipologia a torre di varia altezza. Non grattacieli come sono intesi nell’accezione comune e come sono stati costruiti negli Stati Uniti d’America e in altre città europee, ma comunque “torri” con la distribuzione verticale centrale e i quattro lati completamente liberi, edifici che emergono nel tessuto urbano contraddistinto prevalentemente dalla cortina edilizia.
La città di Milano con la sua conformazione urbanistica e planivolumetrica testimonia chiaramente la stratificazione costruttiva connaturata alle diverse epoche storiche: dalle origini alla città ottocentesca, ai piani Pavia-Masera e Albertini, con gli spazi pubblici e i viali alberati, dalla ricostruzione post-bellica alle trasformazioni urbane avviane negli anni Duemila.
I primi edifici alti sono stati progettati e costruiti negli anni ’30, rispettando, nonostante i progressi nel campo tecnico, la regola non scritta di non superare i 108,5 m. della Madonnina, posta sulla guglia più alta del Duomo il 30 dicembre 1774. LeTorri Branca e Rasini di Giò Ponti nel 1933, la Torre SNIA, in piazza San Babila, di Alessandro Rimini nel 1937 e Palazzo Locatelli, prima “porta” di accesso al centro storico in piazza della Repubblica alla conclusione di via Vittor Pisani, di Mario Baciocchi nel 1939.
Null’altro è stato costruito con tipologia a torre fino al termine del conflitto bellico e l’avvio della ricostruzione. Il dopo guerra è stato per Milano prima un laboratorio di sperimentazione costruttiva e poi un museo a cielo aperto dell’architettura moderna. I numerosi edifici realizzati sono la traccia di un’epoca irripetibile per l’architettura: idee, sperimentazione costruttiva ed anche grande coraggio; sono una parte ineludibile del paesaggio urbano contemporaneo e la testimonianza costruita e concreta di una città e della sua cultura. In questa stagione un significato particolare lo hanno rivestito gli edifici alti, un’eccezione per i tessuti urbani italiani, indubbiamente un caso unico che con le sue architetture rappresenta il più rilevante esempio nell’Italia del dopoguerra.
Gli edifici che hanno superato i 30 piani e i 100 m., e che hanno svettato per anni dal profilo urbano, sono stati solamente quattro, e ancora oggi rappresentano un riferimento iconico nel paesaggio urbano milanese: laTorre Breda di Luigi Mattioni e Eugenio e Ermengildo Soncini del 1950-55 e la Torre Galfa di Melchiorre Bega del 1956-59. Forse, i progettisti, sono i due architetti più attenti e sensibili al tema con uno sguardo al mondo americano. Mattioni in particolare anche nel linguaggio. E poi il grattacielo Pirelli di Ponti, Fornaroli, Nervi, Danusso del 1952-60, con il suo profilo unico e la Torre Velasca dei BBPR del 1950-55 con linguaggio e materiali che interpretano il moderno con riferimento alle preesistenze ambientali. La via italiana al moderno.
Oltre a questi casi notissimi, come accennato, sono stati costruiti molti altri edifici di oltre 20 piani, compresi tra i 60 e gli 80 m., l’elenco potrebbe essere davvero molto lungo, mi limito a fare cenno solo ai più conosciuti: le Torri Turati di Giovanni e Lorenzo Muzio del 1963-68 e di Luigi Mattioni del 1958-60 in piazza della Repubblica, la Torre Diaz di Luigi Mattioni e Eugenio e Ermenegildo Soncini del 1953-57. Mattioni è il grande protagonista della ricostruzione milanese, con numerose opere costruite. Il cosiddetto Pirellino (Ufficio Tecnico Comunale) di Gandolfi e altri del 1966, la Torre al Parco di Vico Magistretti del 1955, l’Istituto Svizzero di Armin Meili e Giovanni Romano del 1952, la Torre Monforte di Pasquali e Galimberti del 1953, la Torre Biancamano di Guido Baselli e Piero Portaluppi del 1953, Torre di Porta Romana di Paolo Chiolini del 1965, la Torre di Viale Montenero di Muzio del 1954, la torre di Porta Genova di Baciocchi del 1952, Palazzo Argentina di Piero Bottoni del 1951, le torri del Gratosoglio dei BBPR del 1963 e molti altri meno noti…
Gli edifici alti sono un patrimonio fragile, fondamentale per capire la città, ne più ne meno di altri consacrati a beni culturali, sono manufatti “storico testimoniali” di un‘epoca e del suo sviluppo urbano. La città di Milano è cresciuta e sta crescendo senza una visione, senza una idea di forma urbana: problema diffuso non solo a Milano, in quanto gli interessi e le pressioni economiche spingono a modelli di sviluppo veloci e dai risultati immediati. La città ha però bisogno di tempo e sedimentazione per costituirsi e conformarsi alle nuove esigenze, senza però eliminare le tracce delle preesistenze, tenendo in considerazione le istanze degli abitanti. Un processo necessariamente lento e da programmare.
Molti degli edifici citati oggi sono stati snaturati, ampliati o nella migliore delle ipotesi rivestiti di una nuova “pelle”, con l’obiettivo di migliorarne le prestazioni energetiche o più semplicemente di modificarne l’immagine. È in atto un processo di progressivo smantellamento della città della ricostruzione, operando nelle pieghe delle normative e nel silenzio delle istituzioni culturali e non solo. Mi domando se è davvero necessario trasformare questi manufatti per dare risposta alla legittima speculazione economica oppure se è possibile salvaguardarli e valorizzarli costruendo nuovi manufatti in altre zone della città. In fondo ogni epoca ha le sue aree urbane in cui intervenire. La contemporaneità credo debba misurarsi con la sfida della trasformazione dei siti industriali dismessi, con le aree militari e ferroviarie inutilizzate e in generale con la rigenerazione di porzioni di città inadeguate, piuttosto che con la concentrazione volumetrica in zone della città già ampiamente sature
Non posso credere che non sia possibile, ed abbia senso, salvaguardare e valorizzare il paesaggio urbano ed attribuire un valore a questo museo a cielo aperto dell’architettura del dopoguerra italiano.

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