Gli erronei giudizi nei confronti delle macrostrutture

UCTAT Newsletter n.79 – GIUGNO 2025

di Duccio Prassoli

Il 9 giugno 1994, sulle reti Mediaset, va in onda una puntata del Maurizio Costanzo Show [1] durante la quale prende atto il format denominato Uno contro tutti. Quella sera, la celebre trasmissione – che per oltre un trentennio ha segnato il palinsesto televisivo italiano – ospita una figura di rilievo del panorama culturale nazionale, chiamata a rispondere alle domande incalzanti di intellettuali, giornalisti e rappresentanti delle più svariate discipline. Ospite principale della puntata è Bruno Zevi, uno dei maggiori interpreti del dibattito architettonico del secondo Novecento, intellettuale dal pensiero talvolta divisivo e figura attiva nella sfera politica. Tra gli interlocutori, invece, l’amico e collega Paolo Portoghesi, con cui Zevi ha condiviso un trentennio prima la realizzazione del celebre volume Michelangelo Architetto. Ben lontani dal rievocare quell’esperienza, Portoghesi – stuzzicato dalle argomentazioni di Zevi in difesa della periferia italiana – irrompe nel dibattito spostando la discussione su un edificio che, nonostante la sua realizzazione recente (1984), era già al centro del dibattito pubblico: il Corviale di Roma. Di seguito viene riportato un estratto della conversazione:

Dice Portoghesi:

[…] Wright ha sempre difeso l’armonia dell’architettura. Ha detto, a un certo punto, che l’architettura deve essere come un cigno che si rispecchia nel lago e quindi deve appartenere all’ambiente ed essere essenzialmente bella. Come fa [Zevi] a mettere d’accordo questo con il Corviale, il decostruttivismo, con quello che lui difende in questo momento.

A fronte di ciò, Zevi risponde:

Io credo che Corviale costituisca una pietra miliare della storia dell’architettura moderna sulla scia delle macrostrutture inventate da Le Corbusier […] Naturalmente, sia in una struttura così grande che in una piccola, se uno vive al sedicesimo piano e gli ascensori non funzionano ci sta male. Ma anche se vive a Palazzo Farnese all’ultimo piano e l’ascensore non funziona […] si trova male. Quindi io dico che Corviale è criticabilissimo come tutte le cose. Ha il merito [però] di essere stato un tentativo per non mangiare ettari ed ettari di territorio […] e in secondo luogo rappresenta, da un punto di vista evocativo, la fine della città.

Interviene Maurizio Costanzo dicendo:

Ma è vero che si è ammazzato l’architetto che lo ha costruito? Non è vero? Girava la voce di questo. E trovavo anche che era ragionevole che si fosse ucciso visto il Corviale com’è. Penso a chi ci abita, credo che vivano malissimo.

Zevi:

Vivono malissimo per come è mantenuto non perché è il Corviale!

Renato Nicolini:

Ha ragione Zevi, è una bella architettura. Che poi il risultato sia un fallimento questo è ovvio. Ma non è un fallimento dell’architetto […] è un fallimento del modo con cui è organizzata la città, una città senza qualità. [Corviale] Non è più feroce di una città che consente le borgate abusive o di una città che consente un’edilizia senza qualità.

Il tema sollevato da Portoghesi verrà ripreso fino al termine della puntata, alternando colte interpretazioni a uscite fuori luogo, in un dibattito in cui il tragico e il comico si intrecciano. Il dialogo riportato, oggi distante dalle argomentazioni proposte dalla televisione commerciale, mette tuttavia in luce la prossimità della cultura italiana a temi come quello della periferia e degli edifici che la occupavano – e ancora la occupano. Questioni, oggi, perlopiù circoscritte agli addetti ai lavori e a chi si interessa della gestione urbana, ma che negli anni Novanta – evidentemente – assumevano un carattere viscerale, tanto da trovare spazio in uno dei programmi di maggior successo dell’epoca.

Il Corviale rappresenta senza dubbio un caso emblematico, ma non isolato, tra le forme edilizie che caratterizzano i margini delle grandi città italiane. Dal “Biscione” di Genova (quartiere Forte Quezzi) progettato da Luigi Carlo Daneri, al quadrilatero di Rozzol Melara firmato dallo Studio Celli-Tognon, la macrostruttura si afferma come immagine sedimentata nella memoria collettiva. Edifici dal carattere monumentale – qualità indotta dalla loro dimensione – che finiscono per configurarsi come centri semantici attorno ai quali si addensano significati e associazioni. Queste ultime, prevedibilmente, legate alla percezione di episodi fallimentari della modernità, a cui si stringono immagini più o meno nitide di tali sperimentazioni.

È in questo contesto che si può richiamare la definizione di tipo fornita da Quatremère de Quincy nel suo Dictionnaire historique d’architecture (1842), che descrive il tipo come “un oggetto secondo il quale ognuno può concepire delle opere che si assomiglieranno punto tra loro […] Tutto è preciso e dato nel modello; tutto è più o meno vago nel tipo”. Con queste parole, l’archeologo e saggista francese pone particolare differenza tra i termini modello e tipo, non attribuendo a quest’ultimo “forme particolari desunte dalla storia, quanto piuttosto [una] volontà di definizione dei caratteri di un edificio “stabili”, certi, necessari al fine di una sua riconoscibilità” (Landsberger, 2017, p. 44).

Certamente la questione del tipo, che è stata ampiamente trattata in maniera più o meno scientifica nello scorso secolo, ha assunto significati oramai consolidati e riconosciuti, rendendo difficile definire le macrostrutture come un tipo edilizio. Tuttavia, provando a svincolarsi da rigide interpretazioni (seguendo di fatto le indicazioni di Quatremère de Quincy) e intendendo il tipo come una condizione di mancata fissità e di genesi determinata dalla sedimentazione dei caratteri di maggior fortuna (in questo caso una dimensione eccezionale espressa in volumi semplici e rigorosi), esso può essere visto come un’immagine più o meno vaga di qualcosa. Un’immagine non dissimile da quella generata – negli individui – dalle macrostrutture sopra menzionate, che, pur nelle loro differenze, assumono caratteri sufficientemente omogenei da poter essere ricondotte a un unico tipo architettonico [2].

Oggi, persiste un giudizio erroneo che associa il tipo delle macrostrutture agli esiti tragici che queste hanno avuto. Esiti non tanto dovuti a condizioni strettamente architettoniche quanto più all’isolamento e all’astrazione di tali insediamenti rispetto alla città, alla generalizzata mancanza di servizi così come a condizioni sociali di ampia complessità e di difficile discussione all’interno di questo testo. Per tali motivi, a partire dagli anni Novanta, si è deciso di orientare lo sviluppo edilizio verso forme insediative meno intensive (dal punto di vista della densità abitativa) e più diffuse sul territorio. Una risposta progettuale, la cui sintesi attribuisce al tipo delle macrostrutture – e in questo contesto alla forma evocata da quelle immagini più o meno vaghe presenti nelle menti dei più – un immeritato stigma.

A ben vedere, infatti, l’idea di macrostruttura non si discosta di molto – in termini dimensionali – da scenari urbani composti da decine di edifici accostati tra loro secondo il principio della cortina continua. In questi ultimi si riscontrano certamente differenze sostanziali quali una distribuzione interna più articolata, un diverso rapporto con il suolo, una maggiore frammentazione volumetrica e l’assenza di una centralizzazione degli impianti. Tuttavia, una lettura morfologica di tali insediamenti, intesi come entità unitarie, li rende paragonabili – in termini volumetrici – a macrostrutture di dimensione più o meno elevata. In questa prospettiva, quei grandi isolati urbani, ampiamente presenti nel contesto italiano, rappresentano una declinazione del tema, distante però dai giudizi negativi solitamente riservati alle macrostrutture. Si potrebbe affermare che la confluenza tra disagi sociali e mancate politiche si sia riversata sull’oggetto architettonico, trasformandolo nell’emblema di un modello da rigettare. La forma architettonica, nelle macrostrutture, assume in tal senso una duplice significato. Da un lato, infatti, si può affermare che le sfortunate sorti delle macrostrutture non siano imputabili a questioni architettoniche, e dunque formali; dall’altro, però, è proprio quella stessa forma – o tipologia – comunemente associata alle macrostrutture, a costituire oggi il principale deterrente alla loro realizzazione.

Se il problema – nella sfera architettonica – risiede quindi in un certo tipo di forma, diventa allora necessario emanciparsene variandola, così da rendere nuovamente possibile la realizzazione di questo genere di edifici. Non tanto per una fascinazione reazionaria verso il passato, quanto più per i benefici concreti (in termini di sostenibilità sia ambientale che economica) che tali edifici sono in grado di generare. Sebbene in Italia si siano avvertiti timidi tentativi di ripensamento già alla fine degli anni Settanta, senza però portare a risultati significativi o alla definizione di nuove traiettorie, in altre parti d’Europa recenti realizzazioni di macrostrutture residenziali, svincolate dai modelli tradizionali, hanno avuto successo. In questo senso, si potrebbe affermare che in Italia non sia stata l’architettura a fallire, ma lo sguardo che, incapace di comprenderla, ha preferito rinnegarla. Il tema della macrostruttura si pone oggi come uno degli argomenti potenzialmente determinanti per il futuro della città che, come è sempre stato, persegue la sua indole vocata all’espansione. La modalità con cui assecondare questo comportamento, se attraverso un modello di città diffusa o secondo un più auspicabile atteggiamento rivolto alla densità e alla compattezza, si pone oggi come argomento di riflessione.

Bibliografia

Quatremère de Quincy, A. C. (1842). Tipo [Dizionario storico di architettura]. In Dictionnaire historique d’architecture (pp. 273-276). Marsilio. (Edizione originale pubblicata nel 1832).

Landsberger, M. (2017). Il metodo analogico per orientarsi nel progetto. In M. V. Cardinale & S. Perego (a cura di), Tipo Architettura Città. Undici lezioni (p. 44). Maggioli Editore.

Note al testo

[1] La puntata del Maurizio Costanzo Show andata in onda il 9 giugno 1994 è visionabile al link https://www.youtube.com/watch?v=lBoYobZPjTU

[2] Nel testo proposto, la nozione di “tipo”, applicata alle macrostrutture, fa riferimento a quegli edifici residenziali di grande scala architettonica che costellano le periferie urbane italiane.
In questo contesto, il termine non intende richiamare aspetti legati alla giacitura dei volumi secondo schemi canonici (linea, corte, ecc.) né alla distribuzione interna degli spazi.
Piuttosto, rimanda a un’immagine “vaga” ma immediatamente riconoscibile, che emerge ogni volta che si evoca questo genere di edifici: uno o più corpi di grande dimensione, percepibili come unità formale, caratterizzati da facciate essenziali, scarsamente articolate.

Progetto di Maurizio Sacripanti.
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