Idee programmi progetti per una città per chi?

UCTAT Newsletter n.23 – maggio 2020

di Marino Ferrari

“Il paesaggio agrario dentro e intorno alla città non è tema secondario nel lungo periodo”; e infatti oggi appaiono in modo sempre più imperante le volontà di scardinare l’attuale organizzazione urbana per invocare una sorta di rigenerazione, che veda ad esempio, l’introduzione nelle città di quella parte estranea ed esterna, riconducibile proprio al paesaggio agrario: esterna perché è evidente il distacco formale e sostanziale dalla città, estranea per la sua reiterata mancanza di relazione. La formula corretta sarebbe la scomparsa del rapporto città-campagnacome si è venuto costruendo nel tempo e scemando di conseguenza. Le formule suggerite sono molteplici e questo è comprensibile venendo dalla idea che molti hanno del mondo all’interno dell’Utopia. Certo, l’utopia è pur sempre un non luogo della immaginazione e della volontà, non per nulla inseguito e ambito dai molti, filosofi, intellettuali, governanti anche illuminati, che ha lasciato all’immaginazione, appunto, anche il ruolo di motore della politica, intesa sempre come massima e quasi sublime manifestazione umana. Maggiore è il pensiero impegnato e svolto, maggiormente si amplificano le dimensioni della utopia, si vengono ad allargare gli orizzonti speculativi per ritrovarli nelle forme delle progettualità più disparate. L’idea che introducendo nella città una parte del paesaggio agrario sortisca benefici rigenerativi per quella parte di umanità costretta “tra le mura”, percorre le strade già percorse dalla pianificazione, dalla disciplina urbanistica e dalle molteplici sintesi dell’architettura. La Pianificazione, nel tentativo di sciogliere tutti gli inghippi che ostacolano il controllo del territorio, (per alcuni considerato e disciplinato diffusamente come sfruttamento), l’urbanistica, nel tentativo di strutturare il territorio urbano stabilendo i giusti parametri per le edificazioni , l’architettura alla ricerca, vana, della forma migliore e maggiormente condivisibile con l’insieme , sia pure per frammenti o per parti, ma anche qui nella totale presunzione che le sue opere contribuiscano o siano il vero ed unico cambiamento dei rapporti umani e sociali. Supremazia della così detta arte a scapito di ogni altra manifestazione artigianale, sia pure modesta, anche del pensiero. Le manifestazioni dell’architettura più enfatizzate rispondono a tutt’altri problemi rispetto a quelli urbani: soddisfano esigenze ed anche capricci che appartengono alla speculazione finanziaria, alla rappresentazione di un “sistema” economico e produttivo che, volto alla sua rigenerazione, finge di realizzare una qualche porzione dell’utopia. Tutto sembra legarsi ma poi nella realtà si slega per percorrere nei propri destini, strade diverse. E la realtà sostenuta dalla storia lo dimostra. Non è una forzatura questa del “paesaggio agrario” rivisto nel rapporto con la città; è da un lato la constatazione che molte idee dell’utopia convergono, ad esempio, su quella che viene chiamata “ecologia” e per la quale, appunto, diverse sono le versioni ma anche le avversioni, e con le “ecologie” l’utopia si viene formando anche dentro e per “l’ambiente”. Al di là delle omologazioni terminologiche, si evidenzia invece dentro il pensiero, la natura differente del pensiero stesso il quale si riappacifica formalmente solo sugli aspetti utopici delle soluzioni materiali che scorrono indifferentemente tra la creazione di boschi ( orizzontali o verticali poco importa perché se solo il paradigma fosse lasciato alla espressività della natura stessa e non alla sua sciagurata costrizione non ci porremmo il problema), allungamento di prati nella illusione che gli stessi garantiscano una biodiversità, creazione di orti in prossimità di viadotti o di centri storici, ( che dovrebbero implicare la demolizione di gran parte di essi come per la costruzione delle cattedrali gotiche) ma anche sui tetti e ad esclusivo utilizzo di pochi, visto che i tetti, sotto il profilo urbanistico, non sono stati concepiti dalla Urbanistica per soddisfare quel determinato standard. Ma ciò che più affascina è veramente il desiderio concreto e progettuale di far “scivolare la campagna nella città”, che appare come la rivalsa della medesima sulla occupazione speculativa dell’altra. Desiderio che spinge addirittura a proporre organismi abitativi semplici attorno ad un nucleo vegetativo esuberante, tanti villaggi attorno ad una foresta; una chiara visione neppure utopica del rapporto città campagna ma solo reiterata coltivazione della propria immaginazione. Eppure siamo consapevoli che la città ideale sia rimasta sui dipinti e le vane anche se interessanti esperienze si sono infrante sullo sviluppo delle attività economiche e non sull’umanesimo del buon governo o sulla gerarchia dei suoi valori. Oggi l’utopia è una semplice distrazione del pensiero, il governo con le specifiche gerarchie di valori si occupa dell’umanità semplicemente occupandosi dei suoi bisogni che le vengono suggeriti sulla base di precise esigenze economiche, governate da chi le produce e non da chi ne abbisogna. Può essere vera la titubanza con la quale si affronta l’origine della prima città, se le motivazioni del suo organismo siano state climatiche ed ambientali, certo è che le migrazioni ed il modificarsi del regime economico di sostentamento, abbisognavano di condizioni ambientali opportune ed appropriate sia pure nel divenire di un continuo e progressivo miglioramento della capacità di gestire le risorse naturali. Il deterioramento di questo sano principio ed atteggiamento, strettamente legato al rapporto “dell’uomo con la sua natura”, lo ha portato anche a costrizioni drammatiche, passando attraverso carestie e pestilenze, che ne hanno irrobustito gli spiriti ma consapevolmente indebolito i comportamenti. Ora le condizioni “opportune ed appropriate” sono venute meno, non interessano, perché la città ha la capacità strutturale di vivere comunque soccorsa e sostenuta dalla tecnologia. È la grande mistificazione contemporanea supportata, questa sì, da una cultura metropolitana che ha esasperato ed infranto l’organismo primitivo ed originario fondato sul corretto rapporto con la natura la quale sola e drammaticamente oggi, affaccia dubbi sulle certezze tecnologiche, innovative e progressive. Un rapporto che, pur dettando le regole che hanno portato “a sistema” le metropoli, aveva chiara la ricerca di equilibri del rapporto città campagna nel rafforzamento del ruolo centrale delle città. Ma la città si è appropriata della “campagna” esasperandone lo sfruttamento e non a suo esclusivo vantaggio, bensì a vantaggio del sistema economico generale che ha avuto il “merito” di trasformare la città ed il territorio in un grande mercato. La città, ancor più la metropoli, si è mutuata al mercato anziché assurgersi a governo dell’equilibrio; ma si sa che la città è comunque un “fatto” materiale la cui materia è trasformata degli individui secondo gerarchie precise e tra loro relazionate. Va da sé che il rapporto città campagna risulti sbilanciato a favore della città anche se è venuta meno, tra le molteplici caratteristiche, quella di luogo dove si può vivere bene, in cui razionalizzare tutti i processi sociali ed economici, nella quale, affacciandosi, corre il sospetto che la pazzia abbia soppiantato la ragione (L. Ariosto). Infatti il capitalismo, motore del mondo, ha superato ogni titubanza storica ed antropologica e ci ha accompagnati dalla “città fabbrica” (anche delle illusioni sociali) alla così detta “globalizzazione” iniziata da Marco Polo e non da Colombo, nella convinzione che questo significhi partecipazione al motore produttivo. Oggi viviamo tutti il rapporto città campagna nella “omogeneità” voluta tragicamente da un virus che, come nel ripetersi storico, vede una umanità di fatto impreparata. Ma al di là della impreparazione, e neanche stranamente, la campagna per la sua conformazione e anche autonomia agisce e re-agisce molto diversamente dalle conurbazioni le quali, dimostrano i profondi limiti della conurbazione medesima; a dispetto dei molteplici studi e ricerche sulle tipologie abitative, sulle partecipazioni socialmente utili, sugli spazi dedicati alla socializzazione e via di seguito. Diventa improbabile la capacità speculativa di fronte a questa realtà, perché la tendenza sarebbe proprio quella di rivedere la tipologia edilizia abitativa e sociale, di riorganizzare gli spazi sociali, commerciali e produttivi; una revisione dimensionale sulla base dei nuovi rapporti interpersonali, come nel medioevo, di fronte all’aumento della popolazione nelle campagne e il consolidamento delle gerarchie urbane per il controllo di un possibile e voluto rapporto con esse: in sostanza la ri-manipolazione di un corpo che ha dimostrato non solo i suoi limiti organizzativi (la gerarchia dei valori) ma la incapacità di governare in equilibrio i propri meccanismi riproduttivi (i valori della gerarchia). “Niente traffico, riduzione dell’inquinamento, solidarietà tra le persone, misure a favore dei più vulnerabili”, sembra essere una considerazione banale , eppure può assumersi come protocollo operativo perché innanzitutto evidenzia che i bisogni collettivi non possono soddisfarsi con la competizione tra città. E i bisogni collettivi vanno individuati e distinti nella gerarchia di valori (e questi sono i veri e reali valori), tra quelli che distinguono e separano le gerarchie sociali ovvero i bisogni primari e fondamentali, che non confliggono con le città ma che le distinguono per il loro reale servizio, indipendentemente dalle Utopie. La sostenibilità e la sicurezza tanto inneggiata devono essere la prerogativa della città, ed anche qui chiarendo sia la sostenibiltà, siala sicurezza in tutte le sue implicazioni. Va da sé che una città “sostenibile” debba radicalmente modificare il rapporto con la campagna e poco importanza hanno i dettagli ideologici anche radicali, perché anche la campagna deve redimersi abbandonando, l’occupazione intensiva del suolo e lasciando o revisionando i processi di industrializzazione. Ne consegue che gli “spazi urbani” assumeranno forme diverse non tanto per la loro re-definizione materiale, ma semplicemente per l’utilizzo diffuso e sostitutivo dei mezzi di trasporto, e le abitazioni, non necessariamente ri-dimensionate sapendo che molti non ne hanno una, ma assegnandone a chi non ne ha. La tipologia urbana se vista in questa semplice ottica, può generare e ri-generare le forme a lei adatte al di là delle quali ed indipendentemente dalla specifica progettualità, deve esprimersi mediante un approccio partecipativo “tra l’oggetto e il soggetto dei bisogni reali, non inficiati dai meccanismi del mercato, ma invece sostenuti dalla partecipazione e dal controllo delle forme progettuali. Una riappropriazione debita che metta seriamente in crisi la contraddizione statica del sistema produttivo. Poi, sulle città intelligenti promosse e sostenute dalla “politica” nei suoi vari anfratti ma richieste dal mercato delle multinazionali tecnologiche, il controllo dell’intelligenza artificiale si confronta con la vivibilità dei soggetti, con il possesso delle proprie informazioni e con il ribaltamento della gerarchia di valori, ovvero la ri-appropriazione dei basilari principi democratici. Senza scomodare le Utopie.

Ebenezer Howard, The Garden City (1898)