Il paesaggio urbano

UCTAT Newsletter n.82 – ottobre 2025

di Fabrizio Schiaffonati

Il 20 ottobre ricorreva la Giornata Internazionale del Paesaggio, evento importante per sensibilizzare a fronte di problematiche trasformazioni territoriali. Un evento passato sotto silenzio nonostante il paesaggio venga evocato nei progetti come un mantra per accattivare e conseguire il consenso, dai piani di rigenerazione urbana fino al più modesto edificio sottoposto alla valutazione della Commissione del Paesaggio. La formula magica quindi di affermazioni retoriche e metaforiche che poco hanno a che fare con elementi concreti e misurabili, con ancora una concezione idealistica del paesaggio. Relazioni d’obbligo di ogni progetto, con voli pindarici senza una puntuale descrizione delle relazioni e degli impatti comportati.

Dalla concezione del secolo scorso il tema del paesaggio e della percezione delle bellezze naturali ha avuto una notevole estensione, mettendo in campo nuove conoscenze disciplinari. Categorie e giudizi estetici hanno lasciato spazio a valutazioni più complesse con al centro l’osservazione dell’ambiente nelle varie forme in cui si rappresenta. Quindi, non più solo il bel panorama d’un passato bucolico, ma un contesto complesso in cui natura e artificio si contaminano, anche con interferenze e contrasti. Lontano quindi l’approccio romantico della cartolina col pinnacolo sul Vesuvio, dal pittoresco della tradizione dei luoghi in una fruizione visiva che mutuava i propri giudizi dalle rappresentazioni delle arti. Ma anche dalla letteratura con romantiche descrizioni di selve oscure e di idilliache scene del bel tempo antico.    

Il paesaggio pertanto termine polisemico, urbano, industriale, naturale, spontaneo, agricolo, letterario e altro ancora. Paesaggi plurimi, con la Convenzione Europea firmata a Firenze il 20 ottobre del 2000, che definisce il paesaggio “una determinata parte del territorio come è percepita dalla popolazione, il cui carattere deriva da fattori naturali e umani e dalle loro interpretazioni”. La Convenzione “si applica a tutto il territorio, concerne i paesaggi eccezionali, ma anche quelli della vita quotidiana e degradati”. Una valenza ben più ampia della legislazione italiana sulla tutela e conservazione dei beni ambientali e culturali della prima metà del secolo scorso, col recepimento costituzionale fino ai Piani Paesistici degli anni ottanta. Un approccio quindi incrementale, con al centro la conoscenza del passato coniugata con la continuità del presente.

Poco dopo il Duemila all’Accademia di Architettura di Mendrisio partecipavo con un ristretto numero di docenti alla valutazione dello stato di avanzamento dei progetti di alcune tesi di laurea. Una “critica”, come era chiamata, che dopo una breve esposizione dello studente vedeva noi docenti esprimere un sintetico giudizio ed eventuali consigli. Un laureando illustrando il progetto di una villa che affacciava sul panorama delle Alpi Bernesi aveva sottolineato la scelta di una parete vetrata che inquadrava lo sfondo innevato richiamando il pittoresco che il committente avrebbe così avuto modo di apprezzare.  Luigi Snozzi fu subito tranchant: “il pittoresco è noioso”. Un calembour che ricordo ancora perché ben esprime il non conformismo che dovrebbe essere delle arti come dell’architettura, in questo caso per esplorare il paesaggio con lo scarto concettuale del “pensiero laterale”.

Ora siamo ancora a mezzo di questo guado, tra Sovrintendenze delle “Belle Arti” spesso arroccate e quanti scalpitano per il fastidio di norme e vincoli, con architetti ridenominati per decreto anche paesaggisti e Commissioni Edilizie ridenominate pomposamente del Paesaggio. La critica situazione dell’urbanistica e dell’edilizia evidenzia lo scollamento tra nobili intenzioni e difficoltà di condividere enunciazioni e modalità operative per la tutela ma anche la promozione di nuovi paesaggi. La socializzazione cioè di una cultura e d’un modo d’essere attraverso scelte decisionali che mettano in atto un complessivo miglioramento dell’ambientale e dei manufatti che la configurano.

Le disposizioni normative – a fronte delle aggressive trasformazioni territoriali, ambientali ed edilizie che interferiscono col paesaggio – sono aumentate, con limitati effetti in assenza di una bussola in grado di individuare priorità e nuovi supporti teorici e disciplinari in grado di supportare le scelte progettuali. Progettare il paesaggio (Interlinea, 2020) un testo curato da Matteo Gambaro, richiama questa esigenza e nel titolo evidenzia l’approccio proattivo che il progetto può esercitare.  Il paesaggio che racchiude l’insieme delle attività umane non può essere museificato e in un mondo globalizzato i paesaggi un tempo incontaminati più non lo sono. Chi avrebbe detto di torme di scalatori avventurate nella scalata dell’Everest?

Servirebbero quindi scelte non solo congiunturali, come interdizioni, ticket d’ingresso, numero programmato degli accessi, in una società di massa con tecnologie sempre più sofisticate che incidono con velocità e in profondità sui comportamenti degli individui. Una vera e propria mutazione antropologica. Il progetto quindi è la chiave di volta di orientamenti e decisioni complesse. Il progetto per il paesaggio dovrebbe pertanto soddisfare un bisogno, con la condivisione di un orientamento sociale e culturale.

Con riferimento al paesaggio urbano, in tempi recenti norme e regole desunte da teorie e pratiche dell’urbanistica e dell’architettura moderna definivano la morfologia edilizia, delle infrastrutture, i tracciati viari, la tipologia dei servizi e degli spazi pubblici. Espressione anche di un assetto sociale, con forme e figure di un bon ton d’un condiviso decoro urbano dalla sua lontana origine nelle illuministiche Commissioni d’Ornato. La stessa Encyclopédie aveva trattato il tema del gusto. 

La storia della città ci restituisce invarianti e permanenze. Principi che appaiono in gran parte dimenticati e che Marco Romano ha richiamato come fondanti e identitari della città occidentale. C’è bisogno di condividere l’immagine del paesaggio della città per riconoscervisi, trovare confort e sicurezza, percepire stimoli apparenti e subliminali dalla sua bellezza. Uno scenario dove si rappresenta la vita d’una comunità, con socialità e riservatezze, in forme accumunanti e private, con diritti e doveri, libertà e regole. La città è anche luogo di riti collettivi, di vicinato e allargati, delle celebrazioni di ricorrenze ed eventi. La popolazione vi si riserva anche in modo liberatorio e talvolta trasgressivo, per tornare poi all’esigenza di normalità. La sovreccitazione continua con frastuoni e rumori di assembramenti diurni e notturni è l’obnubilamento di una folla solitaria. Varcata la soglia di un bar, dove una volta un caffè o un aperitivo era un rito per ritemprarsi, si è investiti invece da percussioni ossessive, come in altri esercizi commerciali bisogna alzare la voce per potersi sentire. Così il frastuono aumenta, il silenzio dimenticato, la magia della notte e del cielo stellato cancellata dall’inquinamento acustico e luminoso.

Bisogna quindi ricostruire il paesaggio urbano, dove luci, suoni, colori, odori, temperature, ritornino a narrarci del giorno e della notte, del mutar delle stagioni e del tempo. L’artificiale deve accogliere il naturale di parchi, giardini, viali, aiuole, di un verde diffuso che permei il tessuto della città, senza voler mettere alberi in Duomo e nelle piazze italiane di pietra. La città è stata spesso raccontata dalla letteratura come dalla pittura e dal cinema come un luogo rutilante. La visione dall’eccitazione della rivoluzione industriale agli occhi ingenui dei cittadini venuti dalla campagna abituati a ben altro.

La cronaca sempre più spesso ci riporta un ambiente conflittuale, non di convivenza ma di contrasti e conflitti anche tragici. L’anonimia dalle megalopoli si è via via traferita un po’ dovunque. Una china che sembra non arrestarsi, sempre più in presenza di conurbazioni dove insediamenti preesistenti, nuove espansioni, fatiscenti abbandoni, si susseguono senza soluzione di continuità. La pelle di leopardo di aree periurbane frammiste di disparate funzioni, per la quale qualche tempo fa il Censis aveva coniato il neologismo “cittagna”.

La rappresentazione di questa magmatica situazione d’un crescente degrado, quasi con compiacenza nelle visioni televisive e cinematografiche, finisce per indurre una fatalistica rassegnazione. Una problematica sociale che coinvolge soprattutto le nuove generazioni orfane di categorie e giudizi di valore. Si è indotti così ad accettare come ineluttabile la città così com’è e farsene una individualistica ragione, come condizione di un nuovo progresso, in un appiattimento della storia senza memoria di decadenze alternate allo sviluppo, crisi di civiltà e tragiche regressioni.

Considerazioni che rimandano a problemi politici e amministrativi di non facile soluzione, spesso in assenza di un’etica pubblica che induce disaffezione, l’accettazione dello statu quo e la sfiducia in ogni reazione. A pensare, cioè, che in virtuosi comportamenti personali non vi siano i germi di un possibile cambiamento.

Tornando al paesaggio urbano è quindi importante riaffermare l’importanza di una città con canoni armonici. Ricerche, studi e progetti di diversa scala sono indispensabili per ogni programmazione e gestione dello spazio urbano; l’elenco delle necessità è lungo e riguarda quanto comunemente comprendiamo nel cosiddetto arredo urbano, cioè l’insieme dei manufatti che lo rendono vivibile, con le forme, i materiali e i colori delle quinte urbane, come d’una scenografia teatrale che vuole restituire una immagine del contesto che vuole rappresentare. Con la differenza tra il vero del paesaggio urbano e la verosimiglianza della scena teatrale che invece lo simula. Ma dal teatro e dal cinema ce ne viene un insegnamento, nella capacità cioè di operare un sapiente e logico montaggio di accostamenti e rimandi, anche con le suggestioni simboliche dell’arte che può accompagnarne l’ideazione.

 Pensare quindi al paesaggio urbano non come ad un semplice orpello d’altre funzioni, ma fondamentale invece per la complessiva qualità urbana, dove integrare le esigenze funzionali dei manufatti che lo popolano con l’estetica.

Uscendo di casa non si fa quasi più caso al disordine che incontriamo. Pali di linee d’illuminazione, supporti segnaletici, insegne, pensiline e chioschi, contenitori di rifiuti, transenne, stalli e paline d’interdizione, colonnine per ricariche, albi e tabelloni pubblicitari. L’occupazione e l’uso improprio sempre più diffuso dello spazio pubblico e marciapiedi invasi da esercizi commerciale, ostacolano la circolazione pedonale. Si aggiunga il parcheggio selvaggio, un degrado che richiama degrado fino al vandalismo. Disaffezione per lo spazio comune, all’opposto del concetto di cura, funzionalità e piacevolezza dell’arredo domestico. Una dimensione appagante che trova nell’abitazione una confortevole risposta, sempre più rara fuori di casa.

Girando per la città, a piedi, in biciclette, in auto, sui mezzi pubblici, un flusso di immagini cattura la nostra l’attenzione, in una sequenza con lo sguardo come una cinepresa. Fotogrammi che il cervello elabora in fulminee sinapsi, anche a ritroso nella memoria e in proiezione. Siamo qui, tra poco saremo arrivati, quell’edificio è nuovo, quella facciata è stata rifatta, gli alberi sono rinverditi, il traffico va a rilento, c’è un cantiere stradale e così via.

Questo insieme richiede quindi azioni coordinate per programmare, progettare, realizzare, gestire e manutenere le opere realizzate. Soprattutto per la densità della convivenza, il mutare del tessuto sociale e dei modi di vita anche di nuove migrazioni. Un progetto in grado di considerare molteplici aspetti, con capacità comprensive di diverse esigenze, è indispensabile per salvaguardare storia e tradizione dei luoghi. Un progetto dove le conoscenze tecniche si coniugano con altre competenze disciplinari, come scienze sociali e antropologiche. La mappa delle città italiane è molto differenziata, con diverse capacità delle strutture preposte. Vi sono anche esempi virtuosi di amministrazioni attente alla qualità del progetto e per la capacità di corrispondere ai bisogni.

Milano in tal senso certamente non brilla, lontana dalla celebrata efficienza meneghina di un passato d’opere pubbliche e progetti d’abitazioni e servizi con progetti d’alto profilo di professionisti e di tecnici dei propri uffici. La carenza di risorse limita senza dubbio la possibilità di far fronte tempestivamente a molteplici esigenze, ma la situazione è ancor più problematica se in assenza di una strategia e di interventi significativi che non siano solo per le zone privilegiate della città. Si aggiunga la critica alla recente riqualificazione di importanti piazze, con manufatti che stridono con le intenzioni green, con l’architettura e la cultura milanese del design. Tanto più dopo che questa attività è stata affidata al management della MM, diversamente da un recente passato quando questa municipalizzata è intervenuta sui luoghi delle stazioni della Metropolitana con apprezzati progetti, con concorsi e incarichi a importanti architetti.

La necessità pertanto di una iniziativa complessiva che metta in campo nuove forze e competenze, destinando risorse dagli oneri di urbanizzazione che con mancano vista l’intensa attività edilizia.

Piani e progetti quindi, d’insieme e di dettaglio, a partire da una attenta mappatura. Non lontano è il tempo in cui i Piani urbanistici si basavano su una minuta ricognizione del tessuto urbano da cui desumere orientamenti e scelte, a cui facevano seguito piani particolareggiati. Una diversa attenzione allo storico e al nuovo paesaggio urbano.      

Progetto di riqualificazione di Piazza Cordusio.
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