UCTAT Newsletter n.70 – SETTEMBRE 2024
di Marino Ferrari
Abitare, un termine ricco di significati ed ancor più arricchitosi nel tempo da quando il ciclo industriale “puro”, quello della rivoluzione sviluppatasi e progredita nelle sue fasi, si è concluso. Concluso forse è eccessivo, ma per significare che, se da un lato le “ciminiere non hanno più le fabbriche”, anche i luoghi[1] hanno perso le fabbriche. Ne rimangono alcune importanti sia per i cascami produttivi del resto necessari, sia, paradossalmente, per mantenere aperto quel rapporto fantasmagorico tra lavoro e capitale. Ovviamente più per il capitale che per il lavoro. Il lavoro manuale, sempre più trasformato o adattato a quello intellettuale anche se uniti da una particolare subalternità e da una complessa collocazione nello spazio, si sono trasformati e la loro metamorfosi ha portato appresso la metamorfosi dell’”abitare”. Le metamorfosi degli spazi. Abitare, è palese, diventa una necessità, una necessità espressa da gerarchie di valori difficilmente catalogabili. Rappresenta ed è, uno dei bisogni reali dell’umanità; abitare per proteggersi dalle intemperie e dalle relazioni sociali contaminanti, anch’esse gerarchizzate, per procreare e crescere soddisfacendo così tutti i bisogni reali e primari. Ogni bisogno, va da sé, assume valore, non solo spirituale ma economico; per soddisfare il bisogno occorre avere una base economica appropriata. E qui, si sa, l’economia porta con sé differenti ragioni, differenti contesti e differenti modalità di produzione. In tutti i casi è possibile dare valore sia alla qualità sia alla quantità necessaria per soddisfare i propri bisogni; pertanto, anche l’abitare ha un “costo” anzi è l’abitare che si materializza nello spazio e nel tempo ed assume per via del suo valore, un costo specifico ed indipendente dai processi individuali. Abitare, cioè, esistere in una società organizzata che sia in grado di offrire unitamente alla sicurezza fisica, la certezza del presente ed anche una prospettiva per il futuro (credo si possa dire anche così per non entrare nel campo delle discipline sociologiche).
Certamente il rapporto tra individuo e società “dentro l’abitare” viene colto significativamente proprio nel lontano e oramai sbiadito rapporto tra lavoro e capitale ma anche più semplicemente tra il lavoratore e il detentore dei mezzi di produzione[2]. L’uno necessario l’altro indispensabile. Si diceva che il lavoratore dovesse venire fornito del giusto compenso economico[3] per poter vivere oltre la giornata lavorativa, pensando alla famiglia e a tutto ciò che ad essa concerne. Ovviamente il salario veniva commisurato proprio ed esclusivamente allo stretto necessario e non al prodotto realizzato del singolo lavoratore.[4] Pertanto, appare corretto collocare i “lavoratori” sulla base delle loro mansioni, in appositi luoghi con appositi spazi e questi spazi limitati alla semplice funzionalità. Ciò è avvenuto, in alcuni tempi, quando per rendere favorevole la produzione ed il rapporto con le “maestranze “si realizzavano interi villaggi” che ancor oggi sono lì ad esprimerne la valenza sociale ed anche architettonica.[5] La metamorfosi subita dalle città, quando ancora potevano definirsi città fabbrica, è una metamorfosi che ha visto il capitale organizzarsi fuori dal puro ciclo produttivo, coinvolgere più profondamente gli individui, spingendoli verso il soddisfacimento intenso dei propri bisogni sacrificando così ogni ambizione futuribile. In questa metamorfosi il costo abitativo ha subito tutte le possibili mutazioni pur mantenendo come riferimento collettivo, quello salariale. In cambio del proprio lavoro veniva e viene tutt’ora richiesta una particolare partecipazione alla vita collettiva ed economica nel senso che, a ciò che soddisfa le immediate esigenze di sussistenza viene aggiunto ciò che soddisfa le esigenze sociali, di altri; d’accordo, nelle formule complesse, ad esempio, al lavoratore giustamente si offre un emolumento (formula educata e delicata) e chi detiene i mezzi produttivi ne stabilisce la quantità (e qui siamo tranquillamente nella formula più simpatica del rapporto di lavoro). La qualità ne consegue, è fuori dal rapporto, ed eventualmente si può supplire con un emolumento del tipo buono pasto. Dentro a questo grossolano schema (per alcuni potrebbe essere improprio) tutto ciò che esula dal rapporto di lavoro vivo compete esclusivamente al rapporto “sociale”, vale a dire alla qualità dell’ambiente esterno, quello che il regime amministrativo sceglie per governare i cittadini. Ma anche qui si nota un costo, forsanche indiretto ma sempre un costo. Pertanto, considerando che da tempo la grande e rumorosa fabbrica non è più, ove la produzione e la sua ricchezza fa riferimento al lavoro in più che “il lavoratore esegue” oltre alla produzione per il bisogno individuale, la ricchezza generata ed anche trasformata, si ritrova nella maggioranza dei casi proprio nelle abitazioni. Tolti i mirabili esempi delle città operaie, città giardino, luoghi di socializzazione programmata ed organizzata, gli “ambienti” per il lavoratore con la sua famiglia non rimangono in eterno. Subiscono metamorfosi indotte dal medesimo sistema che li ha prodotti.
Quando all’individuo vengono tolti gli “attrezzi della socializzazione”, egli rimane con sé stesso, con la sua mente ed il suo istinto. La condizione di lavoro, la qualità del lavoro forniscono a lui gli attrezzi che hanno un costo sociale. Quando si accenna al “sociale” si pensa fondamentalmente ad una astrazione, vale a dire ad un “qualcosa” di immateriale; le forme esistono, però, nella realtà quotidiana. Come il plus lavoro era un tempo impalpabile così lo era per il lavoratore il plus valore. Nella quotidianità verrebbe voglia di dire che l’uno e l’altro prendono forma in tutti i comportamenti sociali. L’abitare, l’insieme dei comportamenti e delle forme che edificano le conurbazioni sia pure con qualità diverse, è la somma dei costi che gravano sui comportamenti lavorativi ma che non possono esprimersi in modo inequivocabile. Ed è la bellezza ed il fascino dell’illusione, della contraddizione costante tra coloro che, individui in cerca di accomodamenti liberati, si frappongono in modo subalterno alle decisioni generali che appartengono però al medesimo sistema, un tempo governo della produzione di oggetti materiali; quella produzione scandita dal fumo delle ciminiere. Siamo pur sempre nelle condizioni del legionario; viene richiesto a colui che produce ricchezza di costruirsi il suo sistema abitativo che non è solamente o semplicemente l’abitazione, ma tutto ciò che ne governa la sopravvivenza. La città, fuori da ogni contaminazione poetica, è proprio il territorio del “legionario” che ovviamente, per ora, non deve combattere una battaglia per conto dell’impero, ma una quasi inesorabile battaglia contro sé stesso, contro l’illusione che si è fatta per arrivare ad una soglia di consapevole e disciplinata agiatezza, il cui costo è già insito nel suo lavoro. Il che significherebbe, sempre illusoriamente, che fuori dalla propria abitazione la bellezza dell’abitare non comporterebbe sacrificio economico alcuno mentre la realtà propone il suo contrario.
È complesso individuare nella articolata teoria dei bisogni ciò che esprima “il necessario”. Il necessario, nell’ambito dell’abitare, è estremamente confuso e sovente effimero. Ogni “elemento” necessita dell’attribuzione di un valore affinché possa essere scambiato sulla base delle conosciute teorie economiche. L’uomo, il bisogno non l’ottiene dalla natura come non lo ottiene da coloro che forniscono l’attività lavorativa (sorvolando sui concetti maggiormente pregnanti in questo senso) e, ciò nonostante, si trova schiacciato dalle difficoltà esistenziali, diverse ovviamente da quelle della città fabbrica; egli fatica a resistere alla ossessione dei consumi, ne è anzi fortemente condizionato e si assottiglia così la differenza tra lavoro intellettuale e lavoro materiale. Entrambi sono accomunati dalla subalternità economica e decisionale che trova differenze solo marginali nel sistema abitativo; il sistema raggiunge una tale classificazione che solo in apparenza ne è uniformità. La città appare uniforme ed omogenea nelle sue parti ma nella concretezza, che possiamo definire materiale, no; discrimina proprio mediante la sua sostanza economica. È possibile affermare che tutte le contraddizioni passateci dalla storia e divenute acute nella contemporaneità al punto da confonderne la distinzione, sono originate dalla contrapposizione delle forze produttive (quelle alle quali si fa riferimento qui) con la forma dello scambio. Solo osservando, notando ed annotando questa forma si riesce a comprendere il suo contenuto economico estrapolato, in differenti misure, dalla “prestazione” lavorativa dell’individuo.[6] E la misura viene traslata con grande facilità al complesso dei “materiali” sociali, quei materiali che configurano gli assetti urbani, la disposizione delle attinenze, la separazione effimera dei controlli sociali, la materialità degli spazi e delle implicazioni naturali delle umanità. Ogni forma urbana indipendentemente dalla sua razionale collocazione (ormai ha superato i limiti stessi della storicità) ha un costo, ha un valore perché è un prodotto ed è una merce di scambio. Nel processo di scambio che dovrebbe restituire il suo originario valore a chi lo ha prodotto, la merce si aliena automaticamente per ritornare sotto mentite spoglie a coloro che, detenendo gli strumenti della produzione, ne hanno accresciuto indirettamente il valore. Siamo tremendamente lontani dalla natura fonte di tutti gli oggetti e strumenti del lavoro[7];siamo ben lontani, di conseguenza, dai tentativi di liberarsi dal lavoro per educarsi ad una esistenza socialmente utile; la realtà ci propone drasticamente la chiusura del ciclo in cui l’uomo era il solo proprietario della propria forza lavoro mentre appare (ovvero è) schiavo di coloro che posseggono le condizioni materiali del lavoro. Ogni condizione va da sé che abbia un costo, e va da sé che questo costo debba provenire dallo “sfruttamento” delle individualità siano esse intellettuali che meramente materiali. La divisione del lavoro e della conoscenza subisce nella contemporaneità una frantumazione tale da attribuire ad ogni molecola un valore di scambio in grado di favorirne la riproduzione sulla scala urbana ma secondo schemi irriconoscibili nella immediatezza. Il giostraio (per usare una vetusta ma efficace definizione) non si mostra, si mostrano i suoi manutengoli che offrono i biglietti per lo spettacolo. Pertanto, per apprendere concretamente la realtà, che ci dicono essere fatta di numeri, per apprendere e considerare il costo dell’urbanità e delle sue forme abitative organizzate attorno all’individuo, occorrerebbe attribuire, in una gerarchia di valori, il valore ad ogni azione umana, di per sé già complessa in natura ma nella contemporaneità in continua mutazione; valore in grado di assorbire e di assumere ulteriori valori di alienazione.

[1] Luoghi e non territorio; i luoghi definiscono le porzioni di territorio fuori dalle astrazioni geografico-politiche. I luoghi, gli spazi uniformati alle gerarchie della socializzazione, occupazione esistenziale foriera di conflitti.
[2] Ovviamente i mezzi produttivi contemporanei sono diversificati e si sono adattati alla produzione di sistemi, i quali in ultima analisi producono sia le merci che i materiali virtuali. Siamo ormai da tempo, fuori dalle rumorose fabbriche nonostante rimangano ritmi e condizioni lavorative paradossalmente analoghe.
[3] Al legionario romano veniva detratta la somma dei vestimenti e del mantenimento del suo cavallo. La formula più contemporanea ci dice che debbono pagare i mezzi di trasporto per recarsi al lavoro, compresi i ritardi dei mezzi pubblici.
[4] Il plusvalore
[5] Crespi d’Adda, villaggio Sisma a Villadossola, villaggio Leumann a Collegno, Torviscosa nel Friuli, visione panteista e ideologica del passaggio dal villaggio alla città fabbrica
[6] Poiché il valore di scambio è una determinata maniera sociale di esprimere il lavoro applicato alle cose,… Il Capitale, I, I, pag.96
[7] Per dirla con Marx nella Critica del Programma di Gotha
