UCTAT Newsletter n.57 – GIUGNO 2023
di Paolo Zermani
Avevo conosciuto Paolo Portoghesi a Venezia, appena dopo la straordinaria Biennale architettura del 1980, da lui concepita, dedicata a “La presenza del passato”.
In quell’occasione, mentre camminavamo per le calli, a un certo punto, scendendo dal Ponte dell’Accademia, si era fermato improvvisamente, interrompendo il nostro dialogo sul valore dell’architettura moderna dicendo: “Vedi, io adoro Venezia, perché offre tante strade diverse per raggiungere un identico luogo”.
Parlava della vita, dell’architettura o di noi, del nostro lavoro e del nostro carattere?
Lo avrei capito nel corso di una lunga, quarantennale amicizia tra due architetti divisi da quasi trent’anni di età e che, dal punto di vista dell’espressione formale, non potevano essere più diversi, ma avrebbero condiviso innumerevoli battaglie per l’architettura.
Le “strade diverse” presupponevano un concetto, per Paolo, di disponibilità e di ascolto che avrebbe caratterizzato ogni sua azione, sempre nel senso della ricerca, del rifiuto di ogni omologazione, del rigetto di ogni certezza.
Voglio così ricordarlo attraverso un comune sopralluogo al cantiere della Moschea di Roma, la sua opera più compiuta ed emblematica, perché inevitabile luogo di incrocio di culture differenti, intorno alla fine di quel decennio.
Paolo era generosamente venuto fino a Varano per vedere le mie operette giovanili e, “in cambio” come disse allora mi aveva chiesto di visitare con lui il cantiere della Moschea.
Fin dal Cinque e Seicento gli architetti avevano avuto accesso in prima persona alla direzione delle grandi fabbriche romane dopo un lungo apprendistato, gerarchie di lavoro e di applicazione diretta,spesso garantite dalla consanguineità famigliare.
Da Fontana, a Maderno, a Borromini, per tutti la responsabilità del costruire e le grandi commesse erano sopraggiunte dopo un lungo itinerario di sperimentazione, di esperienza quali assistenti o semplici scalpellini, sul corpo della città eterna. Un travaglio operativo trasmesso sovente di generazione in generazione che fungeva da filtro e da garanzia “di cantiere” sulla confidenza del rapporto che l’architetto avrebbe saputo tenere con la città e l’uso delle tecniche che la avevano modellata.
Alle falde del Monte Antenne il cantiere della Moschea e del Centro Islamico di Roma rappresentava l’ultima grande fabbrica romana, una costruzione che avrebbe riaperto il dialogo a distanza di quattro secoli con le grandi intraprese ecclesiastiche della capitale, non solo in senso metaforico ed evocativo, ma proprio dichiarandone la continuità nel duplice livello dell’applicazione tecnologica e della poesia compositiva.
Era giusto, si avrebbe voglia di dire, era scritto, che toccasse a Paolo Portoghesi il compito delicato e vitale di continuare questa vicenda costruttiva segnata dal sommarsi di grandi architetture, così propria e determinante, nonostante decenni di guasti, nell’immagine di Roma.
Portoghesi ha parlato lungamente al cuore della sua città, l’ha amata, potremmo dire, accarezzandone i muri, le tessiture, i modani levigati e flessuosi come si accarezza un corpo di donna, seguendone e cercandone, in un quotidiano rapporto, le debolezze e le dolcezze riposte e, allochè parlava di Lei, seppure dei suoi difetti, era impossibile non cogliere l’emozione che attraversava le parole.
In quel mattino, arrivando a Monte Antenne, nella via intitolata ad Anna Magnani, la grande fabbrica appariva subitamente diversa dalle altre fabbriche capitoline del nostro tempo.
Era già cosa animata quando decine di colonne incompiute sollevavano le proprie braccia verso il cielo, foresta costruita vicino alle distese di robinie, ai pini, agli abeti del monte, sul punto in cui ciò che era l’Aniene si getta nel Tevere.
Due culture che si conoscevano da secoli e si erano parlate attraverso le invasioni e le crociate dove vani trovare nella vicenda della Moschea il momento di pacifica contraddizione e di incontro.
Celebrare il rito in terra straniera, nella terra romana della cristianità occidentale, significava per la comunità islamica abbandonare una parte della propria integralità dogmatica e viceversa, da parte di quella cristiana, accettare la condivisione. Tutto ciò era affidato all’architettura.
Nella Moschea di cui potevo osservare il lavoro in corso due culture si accoglievano vicendevolmente e si annodavano perché Portoghesi non rinunciava ad estrarre dallo scrigno in cui le aveva raccolte, in tanti anni,le gemme dell’eredità, i frammenti tutelari dell’identità romana, ponendo da una parte la tradizione del luogo di costruzione dell’opera e dall’altra la storia del tipo architettonico che giungeva da lontano.
Il tempo, per lui, era già maturo per accedere a una democrazia espressiva, in cui le influenze e le comunioni assumevano il valore di arricchimento e non di prevaricazione reciproca.
La Moschea e il Centro islamico esprimevano così un tipo-oltre il mondo arabo-senza ignorare le virtualità incontrate nel viaggio e l’identità, non cancellabile, del luogo scelto come meta.
Un sottile processo di distillazione in cui, con mano da alchimista, ma con la corporeità che è esclusiva dote del costruttore, l’architetto aveva voluto misurarsi.
Egli sapeva che il colloquio profondo con Roma poteva avvenire solo aprendo il progetto alle parole del contesto, come la città si era aperta ai desideri del progetto.
In quel mezzogiorno la sintesi di tutto questo era offerta palesemente, verso il cielo, dalla soluzione tecnica della cupola, profondamente romana, espressa nei costoloni che stringevano, ma non costringevano, in un abbraccio non impositivo, sospendendone per un momento la volontà di salita verso l’alto, ammettendo libertà reciproche: comunione laica tra due diversità che è ancora lezione, vorrei dire preghiera, per il nostro tempo.

