UCTAT Newsletter n.63 – GENNAIO 2024
di Andrea Tartaglia
Dal 30 gennaio al 25 marzo 2024 nello Spazio Mostre della Scuola di Architettura del Politecnico di Milano (via Ampere 2) si terrà la prima mostra dedicata all’opera di Arrigo Arrighetti, una selezione di progetti con disegni originali, a cura di Adriana Granato e Marco Biraghi. L’importante evento è patrocinato dal Comune di Milano, in collaborazione con tre archivi storici milanesi. Per l’occasione UCTAT ripubblica il saggio di Andrea Tartaglia in F. Schiaffonati, E. Mussinelli, a cura di, Dall’Ina-Casa alla Gescal. 15 quartieri milanesi, Maggioli Editore, 2023.
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Il quartiere Sant’Ambrogio I si caratterizza nel contesto milanese per alcune particolarità, se non unicità, e anche per la complessità dei molteplici livelli di lettura cui si presta. Si tratta di un intervento edilizio di scala territoriale: i quattro corpi di fabbrica residenziali, di cui due con uno sviluppo planimetrico di 400 metri, definiscono il perimetro di un lotto lungo 900 metri, largo più di 200 nella parte centrale e che si rastrema verso le due estremità. All’interno del lotto si alternano ampie superfici a verde attrezzato e edifici bassi che ospitano i servizi di quartiere. Costruito tra il 1964 e il 1966 su progetto di Arrigo Arrighetti (1922-1989), progettista di evidente capacità, operante come dirigente dell’Amministrazione pubblica milanese, la cui fama è significativamente inferiore alla qualità delle molte realizzazioni progettate dal 1949 in poi (tra cui, ad esempio, la biblioteca Sormani) che ancora oggi arricchiscono la città di Milano. Un progettista poliedrico la cui cifra espressiva è la diversità delle soluzioni e dei temi affrontati, che trova come unica forma di specializzazione il valore pubblico delle architetture e delle funzioni ospitate nei suoi edifici.
Il quartiere Sant’Ambrogio è uno degli insediamenti di residenzialità pubblica più visibili ma anche dei più sconosciuti.
Giò Ponti, quando nel 1965 scriveva ad Arrighetti perché voleva pubblicare il suo progetto, si riferiva all’intervento come “quartiere curvilineo” che vedeva ogni volta che passava per l’autostrada dei Fiori, ma di cui non ricordava il nome.
In effetti, Ponti esprime quello che è normalmente il livello di conoscenza più diffuso che i cittadini hanno del Sant’Ambrogio I. Chiunque arrivi o esca da Milano seguendo l’asse radiale ad alto scorrimento che poi diventa la A7 Milano-Genova, nota immediatamente questo intervento che accompagna lo scorrere dei veicoli per quasi un chilometro. Un edificato che, pur schermato da una sviluppata cortina verde, si percepisce nella sua massa e continuità, senza sensazioni di degrado o di monotona ripetitività. Questa è una delle prime particolarità del progetto. Si tratta, infatti, di un intervento che, a pieno titolo, può entrare a far parte di quei progetti di residenze sociali caratterizzati da “gigantismo”, come altri in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta. Si pensi al Quartiere Forte Guezzi (1956-1968) di Luigi Carlo Daneri a Genova, al Nuovo Corviale di Mauro Fiorentino del 1972 a Roma, al Quartiere Rozzol Melara (1968-1982) di Carlo e Luciano Celli e Dario Tognon a Trieste. Progetti con lunghi e continui corpi di fabbrica in cui la scala architettonica si fonde con quella urbana, con sistemi articolati di spazi privati, semi-privati e pubblici pensati per favorire la vita sociale e l’incontro tra le persone, che spesso sono stati oggetto di rapidi processi di degrado sociale, altre volte funzionale oppure, più semplicemente, materico cui non ha fatto seguito alcun intervento di cura. Tipologie di degrado che, tuttavia, non hanno interessato in modo significativo il quartiere Sant’Ambrogio I. Certamente si possono osservare i chiari segni del tempo, il disordine di interventi di modifica o di attrezzamento non sempre coerenti con l’estetica originaria, le modifiche nell’uso di alcuni spazi. Ma si tratta sempre di situazioni limitate e indubbiamente anche comprensibili, in un sistema edificato che ormai ha quasi sei decenni; in altri casi analoghi processi combinati di degrado fisico e sociale (e l’uno e l’altro in un circolo vizioso che risulta più difficile da interrompere e da convertire) hanno interessato in modo più significativo altri quartieri coevi realizzati nel contesto milanese.
Il lotto di intervento, dalla forma allungata, è definito lungo il perimetro da quattro corpi di fabbrica residenziali di otto piani fuori terra, i cui prospetti sono stati differenziati nelle soluzioni compositive tra il lato esterno e quello interno, riflesso anche della distribuzione data agli spazi residenziali interni alle singole unità abitative, sviluppate secondo la tipologia del corpo di fabbrica in linea. Nella parte centrale del lotto, destinato alla mobilità pedonale erano stati progettati e realizzati un centro civico, una chiesa, due scuole materne, una scuola elementare con una adiacente palestra e alcuni negozi. Tali edifici si alternano a spazi gioco e a superfici verdi ricche di piantumazioni. Anche gli edifici per servizi, così come lo spazio pubblico in cui si collocano, si caratterizzano per una elevata qualità progettuale in cui la funzionalità non penalizza le soluzioni formali. A partire dai due semplici corpi rettangolari che ospitano i negozi fino alle forme dirompenti del complesso parrocchiale intitolato a San Giovanni Bono, l’area pubblica all’interno del lotto è certamente uno spazio per molti versi inaspettato − soprattutto per chi ha avuto modo di visitare contesti simili in altri interventi di edilizia pubblica. Uno spazio da scoprire superando l’evidente barriera costituita dalla viabilità e dai parcheggi che circondano il lotto e soprattutto dalle residenze che a distanza non evidenziano la loro permeabilità in diversi punti del piano terra. Ma, quando si superano queste barriere, più percepite che reali, lo scenario cambia rapidamente.
In questo senso, particolarmente esplicativo è un resoconto scritto da Martino Mocchi, filosofo e studioso di paesaggi sonori, dopo una sua visita al quartiere in un giorno d’agosto.
«Non appena lasciato alle spalle il primo ambiente, l’impressione cambia in maniera decisa. Il colpo d’occhio è quello di un grande spazio verde, accogliente e molto vivibile, certamente significativo all’interno della condizione cittadina. Le caratteristiche che mi colpiscono sono due. La prima è relativa al senso di sicurezza. Nonostante mi trovi in un ambito periferico della città, e nonostante la natura dichiaratamente popolare del quartiere, percepisco una sensazione di assoluta tranquillità, distesa e serena, mai sgradevole o di paura […] qui persone anziane passeggiano solitarie per i vialetti, gruppi di bambini giocano indisturbati nelle aree comuni […]. Spazi dedicati al gioco dei ragazzi, ambienti per la sosta e per il riposo, aiuole più semplicemente ornamentalisi intervallano in modo naturale, invitando il pubblico a una specifica fruizione. Mi risulta istintivo rinunciare ad attraversare un’area “decorativa”, svoltando a destra per rimanere sul vialetto. Ancora una volta mi appare evidente come la progettazione dell’ambiente possa incidere sui modi di vivere lo spazio. Mi siedo su una panchina di tipo “Milano”, coperta e ombreggiata dalle fronde di un pino. E finalmente respiro» (Mocchi, 2015).
Parole che ben descrivono la qualità dello spazio sia in termini funzionali che di progetto, solo apparentemente chiuso e invece fruibile da chiunque. La chiusura si fa elemento di protezione.
Avvicinandosi poi ai corpi residenziali, sono facilmente intuibili le ragioni delle scelte compositive dei prospetti.
Le facciate esterne si presentano regolari, minimali e austere. Il piano terra svolge il ruolo di basamento in cui sono inseriti i box privati, innalzando il primo piano residenziale a un livello di maggiore qualità, con minore interferenza visiva e maggiore privacy. Questo zoccolo si presenta continuo e differente dai piani sovrastanti per l’uso di rivestimenti principalmente ceramici dalla superficie tridimensionale alternati a intonaco semplicemente tinteggiato, probabilmente in origine nei toni del grigio a cui oggi si sovrappongono interventi manutentivi che hanno preferito l’uso del bianco ma probabilmente con una perdita di qualità generando contrasti più marcati.
I piani superiori sottolineano invece l’orizzontalità attraverso balconi a sbalzo con parapetto pieno intervallati, in corrispondenza dei vani scala condominiali, da sfondati verticali in cui sono collocate le finestre che portano la luce nei diversi livelli intermedi. A eccezione del piano terra, la facciata si caratterizza per l’uso diffuso di un paramento esterno di cotto rosso rimandando alla matericità degli edifici rurali lombardi. Il richiamo alle cascine è ancor più chiaro, osservando le schermature che sono state poste con regolarità alle estremità di tutti i balconi che sottolineano ancora più il piano della facciata già definito dai parapetti pieni che, quindi, si percepiscono quasi come un unico volume.
Con tale regolarità è anche disegnato l’ultimo piano che, per ospitare anch’esso degli appartamenti, si configura come un tetto a mansarda in cui sono ricavati dei balconi a tasca su cui si affacciano delle ampie porte finestre vetrate che permettono la visione lontana oltre che una corretta illuminazione e ventilazione dei locali abitativi.
Lungo le facciate esterne si affacciano principalmente i locali di servizio (cucine, bagni e qualche camera da letto), mentre i locali giorno danno verso l’ampia corte interna a differenza di quanto accade in altri contesti e tipologie urbane, in cui i cortili rappresentano il retro.
Questi prospetti caratterizzati da un portico continuo, percorso fruibile “pubblicamente” anche d’inverno in alternativa agli spazi meno protetti dei giardini e che talvolta raddoppia la sua altezza (senza voler assumere un valore monumentale) risultano maggiormente differenziati con lunghi terrazzi a loggia che seguono allineamenti diversi a seconda del piano, comportando di conseguenza anche il disallineamento delle finestre a tutta altezza a filo di facciata delle camere da letto. Sulle logge si aprono, invece, i locali soggiorno e, talvolta, anche qualche camera da letto a seconda della tipologia dell’unità abitativa (se ne ritrovano quattro di dimensione diversa), anticipando il tema dell’abitabilità degli spazi esterni e della loro funzione di ampliamento dei locali interni.
Anche in questo caso il materiale dominante è il cotto, mentre le logge e i portici sono intonacati e tinteggiati di bianco – tinteggiatura che spesso si è sovrapposta anche ai rivestimenti ceramici originari – forse per aumentare il grado di illuminazione (d’inverno) di questi spazi. Oggi alcune delle logge sono state attrezzate con tende, con veneziane o talvolta sono state chiuse con veri e propri serramenti. Un processo evidente e gestito singolarmente dagli occupanti delle diverse unità abitative, ma che nel complesso non ha alterato in modo significativamente impattante le caratteristiche dei manufatti, in cui le logiche compositive risultano sempre ben leggibili.
L’immagine di insieme del quartiere evidenzia quindi tuttora un certo decoro delle facciate e una chiarezza compositiva prossima a quella che si può riscontrare dalle fotografie in bianco e nero scattate poco dopo il completamento dei lavori di costruzione.
Passando alle costruzioni che ospitano i diversi servizi del quartiere, è evidente come Arrighetti abbia ricercato una chiara relazione tra la forma e le funzioni ospitate, con una logica lineare che permettesse il contenimento dei costi ma anche che costruisse un ambiente urbano dall’estetica dignitosa senza che il singolo manufatto (a eccezione del complesso parrocchiale) assumesse eccessiva rilevanza rispetto all’insieme.
Due strutture con sei spazi negozio ciascuna si collocano ai due estremi del lotto quasi come ponte e funzione di transizione tra la città e il quartiere. Lo schema strutturale segue una griglia quadrata di quasi cinque metri di lato. Due moduli definiscono ogni negozio, autonomo per quanto riguarda i servizi e gli spazi a magazzino. La copertura – sostenuta da esili e ritmati pilastri in calcestruzzo di sezione quadrata – si estende di un modulo oltre il lato delle vetrine e sul fianco dei due negozi laterali creando un’ampia zona porticata ben protetta dalle intemperie e sufficiente per permettere alle attività di ristorazione di collocare dei tavolini all’aperto. Il modulo quadrato viene accentuato in copertura con una soluzione che in origine prevedeva 24 piramidi plastiche corrispondenti ai 24 moduli strutturali. Soluzione che rimanda a quanto già sperimentato da Arrighetti nella stazione della metropolitana di piazza Amendola solo pochi anni prima. Le piramidi che compongono le coperture sono ancora oggi visibili ma sono state rivestite con lamiere metalliche verniciate, probabilmente per problemi di tenuta all’acqua che negli anni si possono essere evidenziati. Negli anni le murature cieche ai lati e sul retro dei negozi sono diventate superfici di sfogo per la creatività dei writer e oggi si presentano disegnate e colorate con immagini e tags la cui circoscrizione le rende quasi caratterizzanti.
Gli edifici scolastici destinati alle scuole materne, di cui uno oggi ospita anche i servizi sanitari della Ats Milano, hanno la stessa conformazione planivolumetrica. Si tratta di costruzioni a un piano abbastanza compatte, che sembrano nascere dall’aggregazione di più corpi di forma rettangolare. In ogni scuola si trovano cinque aule intorno a un ampio spazio centrale che svolge anche il ruolo di sala per le attività collettive oltre che naturalmente tutti gli spazi di supporto alle attività educative. Gli edifici hanno una copertura piana finita con una guaina bituminosa ardesiata, che in prospetto si percepisce come uno sporto di gronda continuo bianco che raccorda e unifica, come un unico cappello, i diversi volumi che costituiscono l’edificio. Le pareti esterne sono finite in cotto come gli edifici residenziali in un’ottica di coerenza e di legame a ben definire il “quartiere”. Ambedue le costruzioni sono inserite in un’area verde a prato con piante ad alto fusto, delimitata da una bassa recinzione metallica la cui finalità non può che essere il contenimento dei piccoli utenti (e non certamente la protezione da intrusioni dall’esterno).
Invece la scuola elementare, corpo di fabbrica su tre piani a base rettangolare con un’adiacente palestra per poter essere utilizzata anche indipendentemente dalla scuola, non sono più visibili. Infatti, il complesso dopo essere stato chiuso per problemi legati alla presenza di manufatti in amianto e di degrado delle strutture e degli impianti, è stato recentemente demolito, in quanto sarebbe stato economicamente insostenibile un intervento di riqualificazione o di rifunzionalizzazione. Lo spazio che si è liberato è stato subito riacquisito dagli abitanti per diverse attività ludiche e ricreativa all’aperto. Tuttavia è probabile che verrà riutilizzato per la realizzazione di nuove strutture a servizio del quartiere.
Sempre con evidente rigore compositivo ma con qualche elemento di carattere decorativo (ad esempio nella soluzione adottata per i pilastri e i loro capitelli) è stato progettato il centro civico che si trova, insieme al centro parrocchiale, nel cuore del lotto. Al di sopra di un basamento porticato che ospita spazi commerciali si innalza per due piani, quasi per bilanciare e creare una simmetria rispetto al prevaricante volume della vicina chiesa, un più piccolo cubo a pianta libera con le sale del centro civico, che oggi ospita una biblioteca di quartiere. I due piani che sovrastano il basamento si caratterizzano per una soluzione che ne sottolinea l’orizzontalità attraverso l’alternarsi di parapetti pieni e finestre a nastro.
Ma la struttura certamente più eclatante è la chiesa parrocchiale di San Giovanni Bono in cui le soluzioni tecniche sono finalizzate ad accentuare la componete “artistica” e originale della forma architettonica per stimolare l’emotività del fruitore. Questo edificio si differenzia dal punto di vista anche materico da tutte le altre costruzioni. È evidente quanto Arrighetti sia figlio dell’architettura razionalista e, in questo caso, potremmo dire che il suo quartiere sta alla chiesa di San Giovanni come l’Unité d’Habitation di Le Corbusier sta a Notre-Dame du Haut a Ronchamp. Un’architettura che deve essere percorsa sia nel suo intorno e all’interno per essere pienamente compresa. Come ben chiarisce Leo Finzi in un articolo su L’industria delle costruzioni: «La configurazione planimetrica della chiesa rimanda alla mente il concetto biblico, ripreso del resto da San Giovanni nel Nuovo Testamento, della tenda che Dio pone fra gli uomini come luogo di assemblea e di preghiera. Questa tenda moderna, posta al centro di un quartiere satellite, sembra quasi isolare dalla realtà esterna quanto di intimo e di assoluto essa racchiude» (Finzi e Finzi, 1969).
Questa “tenda” è però realizzata con robuste pareti in calcestruzzo faccia a vista e una copertura originariamente in lastre di poliestere rinforzate con fibre di vetro che permettevano di intuire e di leggere le due catenarie che costituiscono i colmi delle coperture della piccola abside feriale e della più ampia abside domenicale che si aprono a V dietro la facciata principale. Una facciata grigia e massiccia che si rastrema come una cuspide ma che è trapassata da piccole feritoie in cui sono collocati vetri che proiettano emozionanti giochi di luce colorata verso l’interno. Tale effetto è amplificato dai due colmi che si dipartono della punta della cuspide e che sono completamente traslucidi creando due linee luminose che collegano l’ingresso ai due altari. Anche le pareti laterali sono in calcestruzzo armato, ma l’effetto unitario sia dall’esterno che dall’interno non è ruvido o statico. Anzi, nel loro insieme, i volumi evidenziano una chiara plasticità, effetto che è estremamente coerente con l’uso del calcestruzzo, grazie anche alla soluzione adottata per le coperture. All’interno lo spazio indirizza verso gli altari ma senza alcun senso di oppressione o vincolo. L’ambiente è essenziale ma non si percepisce come spoglio. Le massicce pareti grigie isolano dai rumori della città per un’atmosfera ovattata e intima in cui i riverberi dei suoni si integrano con la soffusa luce che penetra dai tagli nelle pareti e lungo i colmi, all’interno di un grande quartiere pieno di vita e di attività.
In sintesi il quartiere Sant’Ambrogio I di Arrighetti, pur considerando le criticità che possono esserci in un contesto di edilizia sociale della periferia e a fronte di manufatti che hanno più di sessant’anni, evidenzia soluzioni progettuali di notevole contemporaneità che confermano le qualità di un architetto a servizio, con cultura e professionalità, della municipalità.

Riferimenti bibliografici
Bodino C. (1990), Arrigo Arrighetti architetto, architetto Carla Bodino e Archivio Storico di Milano.
Finzi L. e Finzi M. (1969), “La nuova chiesa di S. Giovanni Bono a Milano”, in L’industria delle costruzioni, n. 10, pp. 15-30.
Mocchi M. (2015), Il suono dell’architettura. Paesaggio sonoro e multisensorialità strumenti per il progetto contemporaneo, tesi di Dottorato in Progetto e Tecnologie per la Valorizzazione dei Beni Culturali, Politecnico di Milano.
