Il territorio come teatro della creatività

Mille luoghi, mille bellezze

UCTAT Newsletter n.74 – gennaio 2025

di Alessandro Ubertazzi

Il mio amico Massimo Ruffilli sa che, quando mi chiedono di raccontare l’Italia, lancio sempre questa semplice sfida: fate girare velocemente il mappamondo e vedrete che, quando questo tende a fermarsi, la prima realtà geografica che attirerà il vostro interesse è quel curioso stivale che sembra dare un calcio alla Sicilia; l’Italia è attraversata dal 45° parallelo ed è lambita tutto attorno da un gentile mare interno, quasi un lago mediterraneo.

Quando, poi, mi chiedono di commentare le peculiarità di questo curioso Paese, sono solito affermare che, probabilmente, esso è il più artificiale luogo del mondo e la sua bellezza consiste proprio nel risultato armonioso di una plurimillenaria e faticosa trasformazione del territorio naturale in “ambiente umano”; esso è anche il risultato di un immenso amore per la sua irripetibile identità antropologica.

In realtà, le mille e mille bellezze che si possono riscontrare attorno al campanile di qualsiasi borgo o città della nostra Penisola, sono il frutto del sottile equilibrio che le nostre genti hanno cercato di introdurre fra le molteplici diversità geologiche di ogni singolo contesto umano, le colture che vi si sono sviluppate e, soprattutto, le costruzioni che vi sono state realizzate… fino al periodo compreso fra le due guerre mondiali.

Nei tempi recenti, come se si trattasse di una malattia molto aggressiva, nei nostri leggendari luoghi umani si è introdotta una immensa quantità di cemento sgradevole e difforme rispetto alla realtà storica tanto apprezzata.

A questo proposito mi sia consentito di riprendere qui un mio saggio del 1983 (a): «La straordinaria volgarità che caratterizza la globalità di ciò che, nel secondo dopoguerra, è stato edificato nel nostro Paese (probabilmente più che altrove perché noi abbiamo avuto il “miracolo”) può essere ricondotta a diversi fattori: l’accesso di tecnici culturalmente impreparati all’espressione architettonica, la cupidigia del facile profitto nell’euforia del boom economico, l’assenza di meccanismi di controllo della qualità edilizia, la disponibilità non circostanziata di materiali nuovi, incogniti e non necessariamente innovativi».

Con tutta evidenza, questo fenomeno è dipeso, da un lato, dalla grande impreparazione dei tecnici di oggi ad affrontare progettualmente il futuro prossimo rispettando il patrimonio culturale esistente (in realtà, poiché non adeguatamente compreso, esso è molto sottovalutato). Dall’altro, esso è dovuto alla esasperata volontà di una autonomia creativa (tanto perseguita per molti anni dai più beceri progettisti) oltre che al tentativo maldestro di aderire a una ingannevole modernità senza tener conto neppure del buon senso.

In quello stesso saggio di cui sopra mi permettevo di elencare alcune delle più macroscopiche incongruenze materiche tipiche di quegli anni (a): «Il nostro territorio è quasi completamente compromesso dalle coperture in poliestere rinforzato con fibra di vetro, dalle grigliature esagonali di laterizio estruso, dalle recinzioni di cemento decorativo stampato, dai finti ferri battuti, dai finti vetri cattedrale che “fanno rustico”, dalle perlinature ai piani alti che “fanno châlet”, dagli strollati alla provenzale, dall’alluminio anodizzato colo oro che “fa più ricco” (per non dire di quell’universo disgustoso di finiture da luna park che corrispondono sicuramente anche a storture concettuali più profonde); in realtà, il progetto non è la palestra per il superamento delle frustrazioni del singolo autore attraverso la espressione di pezzi unici ma come un umile e rispettoso servizio alla collettività che chiede un ambiente per vivere».

In realtà (b), «Quanto ebbe a dire Carlo Emilio Gadda nel suo memorabile “La cognizione del dolore, a proposito dell’edilizia villereccia”, che preludeva allo sfascio di questo come di tanti altri amenissimi territori a ridosso dei grandi centri conurbanti, oggi è ampiamente superato dai fatti. «Era passato l’umberto e il guglielmo e il neoclassico e il neo-neoclassico e l’impero e il secondo impero, il liberty, il floreale, il corinzio, il pompeiano, l’angioino, l’egizio-sommaruga e il coppedé-alessio e i casinos di gesso caramellato». La vera differenza fra la realtà mirabilmente raccontata dal grande ingegnere politecnico e quella che oggi ci frastorna sta forse nell’incredibile abbassamento della qualità ambientale e nell’ulteriore, definitivo ampliamento dei canoni stilistici di riferimento per ciò che è stato edificato “a macchia d’olio”: per molte centinaia di ettari non c’è villa, condominio o fabbrichetta che manifesti un denominatore comune con altre o che si riferisca degnamente al proprio contesto.

Ho sentito con le mie orecchie parlare di Attila, come se la devastazione dell’intera regione fosse ispirata o voluta dal temibile “flagello di dio”: esso è, invece, frutto di molti malintesi, di troppe convenienze, di committenti beceri, di soidisant progettisti e, per di più, ignoranti, di capomastri rozzi e dimentichi delle loro fulgide tradizioni, di amministratori inetti ma interessati, di molta partecipata imbecillità».

Il modello insediativo tradizionale di tutti i luoghi abitati che apprezziamo per la loro solare bellezza, in verità corrisponde, anche se solo in nuce, all’idea stessa di città, una sorta di alveare o di formicaio, che è intrinseca alla natura dell’uomo in quanto essere sociale.

La composta armonia che è diffusa pressoché in tutti i nostri centri cosiddetti minori (che, come tali, molto meglio di altri si son conservati nella loro coerenza formale e materica) dipende sicuramente dalla loro peculiare posizione geografica. Tuttavia, essa è soprattutto è il risultato delle infinite sfide, mai apertamente dichiarate, di tutte le comunità umane alle altre vicine ovvero il frutto del formidabile orgoglio di ciascuna per la propria identità.

A proposito delle identità di ogni singola comunità umana, in un mio saggio del 1990 scrivevo (c) «…La legge fondamentale della Repubblica Italiana (la sua Costituzione) riconosce ai Comuni una esplicita autonomia in ordine alla regolamentazione edilizia.

…Infatti, ogni luogo umano dovrebbe indiscutibilmente avere un aspetto proprio e inalienabile, un vòlto riconoscibile.

…Ogni città ha il diritto-dovere di coltivare la propria qualità globale, sottoponendo le attività insediative a criteri uniformanti che consentano di perseguire un armonico sviluppo delle sue parti e al tempo stesso la continuità della loro immagine; eppure inquietanti segnali sembrano oggi negare un futuro a questa ovvia prospettiva.

…Questo eccesso di somiglianza dei luoghi (espropriati della loro virtuale identità) impedisce, fra l’altro, alla gente di riconoscersi come appartenente a un contesto specifico; si traduce in emarginazione, avvilimento, scadimento umano e, addirittura, eloquente violenza.».

In un altro saggio del 1990 scrissi (d) «L’architetto rinascimentale Leon Battista Alberti sosteneva che la bellezza era la qualità fondamentale degli edifici poiché, oltre a renderli piacevoli, contribuiva alla loro comodità e durata «giacché nessun potrà negare di sentirsi più a suo agio abitando tra pareti ornate che tra pareti spoglie. La bellezza fa si che l’ira distruttrice del nemico si acquieti e l’opera d’arte venga rispettata».

La bellezza è “l’armonia fra tutte le parti dell’edificio e quando la si ottiene nessun elemento che la determina può essere tolto o cambiato o aggiunto”, l’ornamento “è una sorta di bellezza ausiliaria o di complemento”. Basta sostituire il termine “donna” al termine “edificio” per comprendere quanto l’esigenza di una bellezza canonica sia radicata nella mente umana, e quanto “bellezza femminile” e “architettura” siano affini e, perciò, quanto gli sforzi per raggiungere entrambe possano essere coincidenti».

In un certo senso, prima che cominciasse a subire una capricciosa modernizzazione (dovuta all’impreparazione di troppi tecnici), la tradizionale bellezza dei nostri antichi luoghi abitati ha convinto la gran parte della nostra popolazione, diversamente da quasi tutte le altre, a dotarsi di una casa di proprietà. Circa l’ottanta per cento degli italiani è proprietario della sua abitazione poiché sono fieri del loro tradizionale ambiente abitato e investono su di esso; ora che questa preziosa peculiarità è stata aggredita dal cancro del cemento scomposto e chiassoso, lo stesso ambiente ha perso gran parte del proprio comfort morale e, così, il disagio sociale dilaga.

Se, effettivamente, il sogno degli italiani consiste nel disporre di una bella casa propria (e, in quanto propria, degna di investirvi in comfort e bellezza), la questione torna a richiamare la necessità di valorizzare la bellezza dei singoli ambienti come fenomeno necessariamente collegato alla vocazione di un’identità diversificata degli italiani e (e) «La ragione ultima di questo incalzante processo di appiattimento ambientale risiede nella progressiva perdita di identità dei luoghi. Su questa consapevolezza si fonda oggi il compito storico dei progettisti e dei professionisti del campo: il recupero della dignità particolare e insostituibile dell’essere umano e della sua cultura è direttamente connesso alla valorizzazione di quel vastissimo patrimonio antropico costituito sia dal tessuto edificato sia da caratteri ambientali più legati alla condizione naturale.

Alla sistematica diversificazione antropologica tipica delle contrade del nostro Paese (che nasce dall’adattamento umano alle particolari e caratteristiche condizioni culturali e ambientali di contesti diversificati) si è recentemente sovrapposta una tendenziale uniformità tecnologica che nasce dalla caduta dei valori civili e da un ignave conformismo di maniera».

Sottolineavo questo concetto asserendo (e): «A tutti è capitato di riflettere sulle emozioni complesse e profonde indotte dentro di noi dall’armonia e dalla piacevolezza di un peculiare ambiente culturale; a tutti è capitato altresì di sentirsi, al contrario, riempiti di sconforto e di angoscia per la vista di ambienti contaminati dal degrado e dall’anonimato. Esistono luoghi in cui ci è gradito giungere e sostare, perché, di volta in volta, ne ricaviamo messaggi significativi relativi alla cultura che essi hanno assimilato e di cui sono la evidente espressione; percepiamo, facilmente ma spesso inspiegabilmente, che un certo contesto umano è vivo e vitale, testimone di una storia e di un carattere peculiari e unici».

Dopo molti anni di ricerche e di studi, a chi mi chiede perché, nonostante tutto, perfino i più piccoli antichi centri minori del nostro Paese siano così attraenti anche senza la presenza di artefatti architettonici maggiori (come chiese, ospedali, ville, mercati, piazze e fontane), fornisco questa risposta: ognuno di essi ha saputo trovare la sua forte ed esplicita coerenza materica, e quindi anche cromatica, con il diversificatissimo contesto fisico. Questa coerenza è perfino indipendente dagli stili che vi si sono succeduti nel tempo: in realtà, gli stili si sono susseguiti gli uni agli altri con elegante disinvoltura e naturalezza senza che le differenti identità dei luoghi ne venissero compromesse. Analoga e ancor più evidente coerenza materica e cromatica scaturisce dal rapporto fra quello che io chiamo “spettacolo agricolo” e il suo substrato geologico, oltre che fra la realtà edificata e la natura coltivata secondo operose tessiture di ancestrale suggestione.

Nello stesso saggio di cui sopra (e) «Ho spesso sottolineato l’importanza della fisionomia e del volto caratteristici dei luoghi che conosciamo. Ogni luogo del nostro Paese possiede una conformazione così articolata e ricca da renderlo unico; ogni luogo ha una sua identità; ogni contesto ha una sua specifica peculiarità.

Dopo che nel nostro Paese furono risolte le più urgenti necessità postbelliche legate alla ricostruzione, l’avvento dell’edilizia d’assalto (che prescindeva sistematicamente della risorse locali attingendo ai prodotti edilizi nazionali e internazionali) ha scardinato i meccanismi generatori della identità dei luoghi a svantaggio dell’uniformità».

A partire dal secondo dopoguerra e, più in generale, a partire dagli anni ‘70, il patrimonio ambientale italiano, costituito da un virtuoso e fitto continuum di spettacolare artificialità agricola alternato a quella edilizia dei centri abitati, è stato gradualmente aggredito con una sorda, inarrestabile violenza: sembra quasi impossibile, oggi, porre rimedio alle conseguenze dirette e indirette di tali barbarie e, fra l’altro, non sappiamo neppure a chi chiedere ragione di ciò, chi colpevolizzare e, a maggior ragione, come e a chi chiedere giustizia e danni.

Basta un quantitativo di pioggia di poco superiore al normale perché, dove la terra non è più adeguatamente coltivata e mantenuta, si scatenino infinite e inarrestabili frane; basta che i torrenti si riempiano di acqua secondo la loro legittima variabilità centenaria, perché interi quartieri (colpevolmente costruiti nel loro alveo da criminali costruttori con la complicità di compiacenti e corrotti amministratori), vengano travolti e spazzati via.

La virtuosa edificazione compatta degli antichi centri urbani (caratterizzati, fra l’altro, da uno storico e prezioso controllo sociale), ha ceduto il posto alla sgradevole “edificazione sparsa” che accontenta ogni singolo possessore di terreno: ciò comporta, evidentemente, un immenso ed inutile consumo di territorio e costi di urbanizzazione e di gestione di gran lunga più onerosi di quanto le municipalità (sempre in deficit) si possano permettere.

A questo punto mi preme ricordare che, fino a qualche tempo fa, in Italia, la qualità urbana era sancita da regolamenti che subordinavano l’accettazione di un progetto edilizio o urbanistico, alla condivisibile dimostrazione che questo costituisse un implicito contributo al decoro urbano (sic!); purtroppo, come ho evidenziato in un mio saggio del 1991 (f) «L’abolizione delle Commissioni per l’ornato fu effettuata senza introdurre meccanismi alternativi semmai, forse, più garantisti dei precedenti (che operavano con una discrezionalità non gradita a tutti). A partire dal dopoguerra, il risarcimento delle parti di città distrutte dai bombardamenti fu attivata come una pura operazione edilizia in cui l’architettura (cioè quel processo mentale che presiede all’organizzazione degli spazi per l’uomo) era la più parte delle volte assente.

Si è trattato di una vasta e sconsiderata operazione di cementificazione delle periferie di tutte le nostre città, dei litorali, dei luoghi “magici” del nostro Paese. Quest’operazione non ebbe alle spalle il benché minimo strumento di controllo che potesse, in qualche modo, correggere la schizofrenica affermazione di tante disparate ma stupide singolarità.

In questo frattempo, ciascuno ha potuto costruire la propria casetta o il proprio condominio senza cercare un disegno unitario, senza perseguire una qualità condivisibile da altri, ma semplicemente affermando una sfrenata individualità: d’altro canto non esistevano gli strumenti concettuali per gestire il fenomeno in modo appropriato».

«Come ho detto già altre volte, l’attività insediativa dell’antichità si è manifestata prevalentemente come “evoluzione dell’uniformità”, cioè come continuità edilizia unitaria e caratterizzante: ciò che ha determinato la specificità dei luoghi umani storici. Quasi sempre il fascino di molti luoghi che conosciamo è legato a questa loro “uniformità”.

Quanto detto vale per luoghi come Noto, Gubbio, Urbino, Erice e i paesi della Val Gardena: cioè in luoghi di antica tradizione. Ciò che colpisce la nostra immaginazione, la nostra sensibilità e la nostra cultura sono, da un lato, la specificità e la peculiarità e, dall’altro, la coerenza col contesto materiale o l’utilizzo intelligente di colori e di finiture che prescindono dagli stili che si sono succeduti. Nei centri antichi si percepisce una forte coerenza col genius loci, una forte caratterizzazione dell’intero contesto: eppure ciascun intervento ha una sua indipendenza, una sua singolarità».

La cosiddetta “valutazione di impatto ambientale”, che sembrerebbe occorrere alla salvaguardia dell’ambiente fisico sotto ogni profilo, essendo stata importata “pari pari” da sistemi legislativi fortemente diversi dai nostri, si preoccupa solo della salubrità degli ambienti di lavoro e di eventuali dissesti chimico-fisici nelle falde freatiche. In realtà, essa trascura sistematicamente quelli che io chiamo “impatto volumetrico” e “contestualizzazione degli interventi edilizi”: in questo senso l’edificazione volumetricamente sproporzionata e priva di equilibrato rapporto con il suo contesto, produce enormi danni al territorio, nella quasi impossibilità di intervenire preventivamente. Eccetera.

In realtà, questo mio elenco potrebbe essere lunghissimo ma, a questo punto, pongo comunque la domanda: non sarebbe il caso che il legislatore consultasse più approfonditamente i progettisti, gli studiosi dell’identità dei luoghi e i giuristi prima che sia troppo tardi?

Note.

  1. Alessandro Ubertazzi, Alla ricerca di una qualità per gli spazi dell’uomo, editoriale in “Habitat Ufficio” n. 7, Alberto Greco, Milano, giugno 1983, pag. 2.
  2. Alessandro Ubertazzi, Attila in Brianza (editoriale), in “Habitat Ufficio” n. 38, Alberto Greco, Milano, giugno-luglio 1989, pag. 57.
  3. Alessandro Ubertazzi, Qualità urbana e regolamenti edilizi (editoriale), in “Habitat Ufficio” n. 42, Alberto Greco, Milano, febbraio-marzo 1990, pag. 65.
  4. Alessandro Ubertazzi, Bene architettate; le forme dello spazio e le forme della donna, in “Moda” n. 70, Nuova Eri (Rai), Milano, gennaio 1990, pag. 16.
  5. Alessandro Ubertazzi, L’evoluzione dell’uniformità; appunti sull’arredo urbano, lezioni al Corso di Architettura del Paesaggio, Istituto Superiore per le Tecniche di Conservazione dei Beni Culturali e dell’Ambiente “A. De Stefano”, dispensa n. 1, Salemi, fine 1990, 28 cartelle.
  6. Alessandro Ubertazzi, Capacità d’influire sulla qualità urbana attraverso i regolamenti edilizi, contributo scientifico alla tesi di G. Sciortino Le perle di Custonaci; concezione di elementi di arredo urbano con scarti di estrazione e di lavorazione del marmo nel comprensorio trapanese, Università di Palermo, Facoltà di Architettura, Corso di Disegno Industriale, cap.9, 9 aprile 1991, pagg. 361-362.
Edificio in piazza Mondadori, Milano.
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