UCTAT Newsletter n.22 – aprile 2020
di Giuseppe Oddi
Siamo in un tempo di sospensione buono per riflettere su come siamo e su come dovremmo essere, nel privato, nella vita di relazione, nelle professioni.
L’architetto è un attore fondamentale nel pensare il futuro a misura d’uomo, ha specifiche competenze sia nella progettazione degli spazi privati che pubblici, ma il suo ruolo è stato sottovalutato da quaranta e passa anni dal potere decisionale rappresentato dal capitale sempre più rivolto al solo immediato profitto.
L’Uno vale Uno, simulacro di una falsa identità democratica che azzera le competenze e pretende di risolvere le problematiche, anche le più complesse, con confronti anonimi sulla “rete”, sta’ dando il colpo finale alla competenza professionale costruita con il lavoro e realizzata nell’esperienza e nello studio, privilegiando esclusivamente effimere figure di venditori di sogni.
Così, sulla base di slogan intuitivi costruiti negli anni da professionisti della comunicazione, anche il bene primario della salute si è trasformato in un business.
Le antiche contrapposizioni ospedale-territorio, pubblico-privato, accentramento-decentramento, hanno visto trionfare le opzioni più consone al capitale che ha potuto trionfare nelle regioni più ricche del paese con strutture ospedaliere altamente qualificate per interventi sanitari di grande prestigio con costi elevatissimi, lasciando al pubblico e al territorio le incombenze più ricorrenti e fondamentali per la salute di “minor prestigio” e con i costi tutti da sostenere dal sistema pubblico.
La rincorsa al pareggio dei bilanci al di là delle valutazioni di appropriatezza e la riduzione dei finanziamenti ha portato anche le Regioni più restie alle privatizzazioni ad operare razionalizzazioni della rete ospedaliera e solo in pochi casi virtuosi a sostenere gli investimenti di vere reti sanitarie territoriali alternative.
Nella sostanza si è negli anni, al di là delle dichiarazioni, accentuata una visione ospedale-centrica della sanità con il singolo paziente come centro di attenzione, abbandonando progressivamente la visione della comunità come luogo della salute collettiva.
Nel pianeta malato, nel quale stiamo vivendo, in gran parte malato perché inquinato per colpa del genere umano, non pensare alla salute collettiva anche attraverso le buone pratiche quotidiane di ciascun individuo e più in generale della società che si fa carico come comunità di ciascuno e quindi di tutti è un costo non più sostenibile.
Un minuscolo virus partito dalla lontana Cina, per una probabile, casuale, combinazione di fatalità, nel mondo globalizzato sempre più concentrato in megalopoli, in pochi mesi, ha messo a repentaglio la vita di milioni di persone in tutto il pianeta e messo in ginocchio l’economia mondiale.
Chi metteva in guardia e continuamente sollecitava le autorità pubbliche affinché ci si preparasse alla possibilità di eventi disastrosi come possibili epidemie, aveva ragione. Ora è indispensabile prendere atto di quanto accaduto e apportare agli stili di vita individuali e alla gestione dei beni comuni (salute, ambiente, democrazia, qualità della vita) una svolta epocale. Tutto dovrà essere rivisto mettendo al centro il Pianeta nel suo armonico complesso di cui il genere umano è parte ma non unica parte.
Cominciamo dalla salute.
La sanità in Italia è organizzata attraverso una lunga filiera di piani, programmi, linee guida, strutture dedicate, competenze e personale. Quello che sta emergendo in questa prima fase della pandemia è la fragilità dell’organizzazione complessiva del sistema sanitario così articolato.
L’insufficienza di presidi sanitari territoriali scollegati dalle strutture ospedaliere ha comportato nella caotica prima fase dell’epidemia una contaminazione proprio dei luoghi di cura. La mancanza di un piano organico d’intervento, non ha impedito la mobilità di persone infette che ha contribuito a che si inquinassero luoghi non preparati a prevenire e ad affrontare la pandemia rendendo i soggetti più fragili più facilmente aggredibili dal virus. La mancanza di posti di terapia intensiva, di strutture adatte per l’isolamento degli infettivi ecc. sono solo alcune delle criticità emerse.
La riorganizzazione di tutto il sistema sarà naturalmente di competenza politica. la necessità di indicare cosa tecnicamente da fare a livello strutturale richiede competenze nuove che vanno integrate tra la scienza e la tecnica.
Si può però ipotizzare un mondo diverso da quello cui siamo abituati, la convivenza con questa epidemia e la presa di coscienza della possibilità che se ne scatenino altre in tempi relativamente ridotti dovrà essere presa in considerazione quando si progettano le residenze private, come quando si progettano i quartieri e le città.
Torneranno utili i piccoli aggregati urbani e la sanità territoriale andrà potenziata.
Le case della salute, diffuse sul territorio, diventeranno il punto sia di accertamento e diagnosi che di cura da portare al domicilio.
Sarà necessario avere strutture ospedaliere attrezzate specificatamente per affrontare qualsiasi epidemia.
Le linee guida per l’edilizia sanitaria dovranno essere riviste. La flessibilità delle strutture per la salute dovrà essere alla base di ogni progettazione sia per quanto concerne la possibilità di veloce adeguamento degli spazi così come per le tecnologie impiantistiche. Difficile pensare a ospedali su molti piani con grossi ascensori di collegamento, sarà importante concentrarsi sui percorsi dedicati come garanzia di transito- collegamento sicuro, come diventa difficile pensare a porte ad apertura manuale o a camere con più di un degente. I percorsi interni alle strutture dovranno essere unici e non sovrapponibili, il personale di servizio dovrà avere percorsi separati dai visitatori e viceversa ecc..
Siamo entrati nell’epoca in cui la globalizzazione ha manifestato il lato più complesso anche se rivelandosi nel modo più negativo possibile forse ora che coinvolge davvero tutti e tutto, è arrivato il momento di darsi delle regole condivise armonizzando davvero l’intero pianeta.
