In ricordo di Aldo Castellano. Attorno alla figura del Maestro

UCTAT Newsletter n.71 – ottobre 2024

di Duccio Prassoli

Potrebbe apparire inopportuno, in un breve testo come questo, ricordare il Professor Aldo Castellano senza citare i suoi compimenti e l’esteso regesto di opere di cui sarebbe difficile proporre una sintesi efficace. Di sicura complessità è invece, da parte del sottoscritto, una scrittura che possa tener conto delle tante indicazioni (e attenzioni) formali e di contenuto che lo stesso AC mi proponeva per non cadere in ingenuità e fraintendimenti. Certo di quella che sarebbe stata la sua accondiscendenza nei miei confronti nell’esulare da un più rigido protocollo per uno scritto di questo tipo, e in virtù del mio ruolo di allievo e amico con il quale ci siamo lasciati, mi permetterò di adottare una certa ‘licenza autoriale’ per descrivere la mia esperienza come suo studente.

Ho avuto la fortuna di conoscere Aldo Castellano durante il suo ultimo anno di docenza al Politecnico di Milano, quando ancora mi rivolgevo a lui con l’appellativo di ‘Professore’ prima che mi dicesse – qualche anno dopo – “diamoci del tu, ormai sei grande”. Nella giusta misura ed equilibrio, ha avuto il ruolo di inoltrare noi studenti allo studio della storia contemporanea trasmettendoci con linearità gli eventi del XX secolo. Mai privo di passione, il Professor Castellano ha sempre ricoperto il suo ruolo in aula con pathos ed entusiasmo discutendo, con argomentazioni digeribili, il denso e complesso avvicendamento storico del secolo breve. A positivo riscontro delle sue doti come docente, sono i tanti intervalli durante le lezioni che il Professor Castellano non è riuscito a godersi come tali proprio in virtù di un atteggiamento gentile e operoso nel rispondere alle domande degli studenti che lo accerchiavano incuriositi nei corridoi del Politecnico.

Analogamente, prima della sessione autunnale, mai ha declinato le mie continue richieste di colloqui (uno ogni due giorni) in preparazione dell’esame. Con la devozione e l’entusiasmo che gli erano propri, nelle tre – caldissime – settimane precedenti l’esame, tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, ebbi modo di assistere alla migliore declinazione dell’insegnamento accademico, manifestata da AC con totale dedizione alla disciplina e responsabilità verso il ruolo da lui ricoperto.

Durante il giorno dell’esame orale, ricordo di essere stato uno degli ultimi studenti a doversi presentare alla cattedra. Leggendo il mio nome dalla lista dei candidati, vendendomi forse agitato e pensieroso, esclamò: “caffè?”. Mi piace ricordare questo momento come l’ultimo di quegli intervalli che avevano scandito i venerdì del suo corso e che – inevitabilmente – venne caratterizzato da domande e perplessità dell’ultimo minuto. Nonostante un agosto passato sulle tante pagine di appunti presi, durante l’esame AC mi chiesa l’unico argomento che mi risultava più ostico ma che allo stesso tempo discuteva sempre con maggior temperamento: la città. Credo che la domanda vertesse su Jane Jacobs, non ne ho la certezza, ma ricordo che la sbagliai. A conclusione però di quello che era stato un intenso confronto durato per mesi, anche in quell’occasione il Professore decise di farmi ragionare sull’argomento avviandomi verso una lettura olistica del periodo e indirizzandomi verso la risposta. L’esame andò bene e si concluse con un’amichevole stretta di mano all’interno di un edificio di Luigi Caccia Dominioni ai margini di Città Studi. Mi accorgo solo ora, trovando divertente la cosa, il fatto che proprio sull’argomento che sbagliai all’esame si concentra oggi il mio lavoro di dottorato.

Dopo l’esame, ebbi modo di rivedere AC alcune settimane più tardi a un aperitivo per il suo pensionamento. Sinceramente appassionato alla materia e deciso a trattare per l’esame di sintesi finale sia la questione progettuale che storica, chiesi al Professor Castellano di assistermi come relatore per la conclusione dei miei studi magistrali. A ragion veduta, forse memore delle settimane estive passate in Politecnico e conscio di ciò a cui sarebbe andato incontro, mi rispose con un secco quanto parentale “non mi sembra proprio il caso mio caro”. Frase, quest’ultima, alla quale seguì una lunga risata di entrambi. Dicendomi che doveva dedicarsi a certi lavori che stava ultimando mi presentò la sera stessa al Professor Alessandro De Magistris di cui spesso mi aveva parlato e con cui successivamente mi laureai.

Del Professor Aldo Castellano – solo Aldo dopo l’inizio del dottorato – mi restano oggi i tanti consigli ricevuti durante lo sviluppo della tesi magistrale e le risposte ai numerosi dubbi di carattere storico che, fino a pochi mesi fa, era solito chiarirmi. Coerente con il ruolo ricoperto quando lo conobbi, non si è mai tirato indietro – benché in pensione – nell’aiutarmi a comprendere la disciplina architettonica, mettendomi in guardia da letture errate e incoraggiandomi a considerare non solo il ‘centro’ del tema, ma anche il suo ‘contorno’.

Delle lunghe discussioni che abbiamo avuto, due sono le frasi che più mi son rimaste impresse e che desidero riportare in questo testo. La prima risale a uno scambio di e-mail riguardante un mio scritto piuttosto critico su un’architettura milanese di recente costruzione che, con l’ingenuità dei vent’anni, avevo additato in cieca maniera. Traendo spunto da un’analoga vicenda che lo aveva interessato durante la stesura della sua tesi di dottorato e che si era risolta grazie alle parole di Eugenio Battisti, mi disse:

“Non vale la pena, benché possa sembrare facile, studiare le cose per scriverne contro. Ben più onorevole e complessa è invece la pratica di affrontare argomenti meno conosciuti e interessanti per scriverne a favore”.

In questa frase, che continua dopo anni a farmi riflettere sui temi da trattare, credo si possa racchiudere – quanto meno nella lettura che ne posso dare io – quella che per Aldo rappresentava la discussione dell’argomento architettonico. Una discussione che verteva – coerentemente con il suo ruolo di storico – a un’autonomia critica propensa all’originalità e alla ricerca di questioni meno celebrate ma di grande rilevanza per comprendere il passato e inevitabilmente il presente.

Una seconda frase, che mi fu essenziale per interpretare il tema della mia tesi magistrale che investigava la vicenda dei Novecentisti milanesi, verteva invece su una sorta di condizione ricorrente in architettura. Questa recitava:

“Nei momenti di disorientamento e mancanza di ideologie si ritorna sempre alla condizione di stabilità immediatamente precedente”.

Con una sintesi estrema, questa frase mi diede la giusta chiave di lettura per recepire non tanto la discontinuità degli eventi architettonici tra il XIX e il XX secolo, quanto la sequenzialità delle declinazioni classiche che, esacerbate nell’esplosione formale degli eclettismi di fine Ottocento, avevano portato gli architetti Novecentisti alla necessità di quel “ritorno all’ordine” tanto auspicato da Giovanni Muzio. Al di là di ciò, credo che tale pensiero possa dare un valido criterio interpretativo per comprendere la liquidità del periodo contemporaneo, dove a una totale condizione di libertà e autonomia formale dell’architettura si contrappongono sacche che mostrano apparenti similitudini con il passato. Tema, quest’ultimo, in cui Aldo ha sempre cercato di guidarmi immedesimandosi nella figura di geografo, orientandomi – con libri e discussioni – in un panorama tanto reale quanto inesplorato.

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