Insegnare l’architettura, imparare dall’architettura

UCTAT Newsletter n.21 – marzo 2020

di Elena Mussinelli

In oltre trent’anni di insegnamento in una delle Scuole di Architettura più grandi d’Italia e d’Europa, sono state incredibilmente poche le occasioni istituzionali dedicate a riflettere con profondità sulla didattica del progetto.
Certo, i docenti spendono molto tempo e impegno nella programmazione didattica, ma si tratta in genere di adempimenti formali e burocratici finalizzati alla predisposizione di quadri didattici, di modelli ministeriali per la valutazione della conformità dei Manifesti degli Studi, di ipotetici (spesso difficilmente praticabili) coordinamenti orizzontali e verticali tra diversi insegnamenti e discipline, ecc.

Riflettere sulla didattica del progetto significa invece interrogarsi sulle modalità attraverso le quali sia possibile trasferire un sapere e un saper fare molto complesso, frutto soprattutto di una lunga esperienza “sul campo”. E forse più ancora su come sia possibile far emergere e crescere – se c’è almeno in embrione –  quell’attitudine al progetto, fatta di un misto di curiosità, capacità di osservazione critica, motivazione e disciplina razionale della creatività, che dovrebbe caratterizzare un giovane in formazione.
Alla carenza di questi presupposti – con una docenza sempre più lontana dalla professione e una discenza spesso poco consapevole e culturalmente poco attrezzata – non suppliscono né gli attuali modelli di selezione (rispettivamente abilitazione/concorsi e test d’ingresso), né la sporadica immissione nell’organico di qualche valido architetto o l’ammissione di docenti o studenti internazionali, né ancora le già citate formalistiche procedure per la “qualità della didattica”, procedure che presupporrebbero risorse ben più consistenti di quelle oggi disponibili negli Atenei pubblici e un più strutturato modello organizzativo.
In una fase che registra il diffondersi di forme didattiche “a distanza” – con il moltiplicarsi delle università telematiche, dei cosiddetti MOOCs (Massive Open Online Courses) e di corsi online anche nell’ambito della specializzazione e della formazione continua -, e che vede estendersi l’offerta di e-learning anche alle aree dell’architettura e del progetto, la questione appare quindi attuale, e forse ancor più cogente. 

Il primo spunto critico riguarda l’idea stessa di architetto cui dovrebbe traguardare l’offerta didattica; predomina – negli studenti e nel pensiero collettivo – una visione tanto idealizzata quanto conformista dell’architetto, ispirata all’immagine delle archistar comunicata dai vari media e social attraverso forme di marketing che enfatizzano il valore iconico delle loro opere: architetture che ostentano una quasi ossessiva presenza di verde come cifra dimostrativa delle loro sostenibilità.
Nella loro esperienza didattica gli studenti sono fortemente attratti da questi riferimenti, ma finiscono con assumerne solo l’immagine formale, ben lontani dal comprendere le criticità reali del progettare edifici, spazi e parti di città correttamente relazionati ai fattori ambientali. Un’approssimativa e inconsapevole imitazione di involucri e forme verdi, facilitata anche dalla familiarità all’impiego di strumenti informatici che consentono di produrre molto rapidamente esiti figurativi accattivanti, senza dover affrontare il ben più lungo e impegnativo corpo a corpo di un processo progettuale basato su analisi approfondite, progressivi affinamenti del segno e continue verifiche circa le coerenze, l’appropriatezza e la costruibilità di quanto si va via via a definire.

Emerge qui, ed è un secondo spunto di riflessione, l’inadeguatezza dei fondamenti culturali e tecnico-scientifici previsti dall’attuale offerta didattica, fondamenti che costituiscono invece un sapere necessariamente propedeutico all’esercizio del progetto: la conoscenza dei materiali, dei principi essenziali che regolano il comportamento statico ed energetico degli edifici, dei complessi processi e apparati normativi che disciplinano la produzione dell’architettura. E anche il saper osservare, comprendere e restituire in modo formalizzato il carattere dei luoghi, un sapere fortemente esperenziale, in parte anche soggettivo, che non trova espressione nella formazione al progetto, pur – stranamente – in una società fondata sulla comunicazione per immagini.
In nome di un presunto aggiornamento dei processi formativi alla nuova domanda sociale, sono stati precipitosamente abbandonati i modelli pedagogici tradizionali, incentrati sulle dimensioni comportamentale (domanda-risposta, esercizio e reiterazione) e cognitiva (acquisizione di conoscenze e loro elaborazione attraverso il ragionamento), e sulle competenze, l’esperienza e le capacità maieutiche del docente. Come avvenuto in altri livelli e contesti della formazione, anche la didattica del progetto nelle scuole di Architettura ha così abbracciato forme di apprendimento tutte incentrate sull’esperienza, dell’“imparare facendo”, attraverso il confronto peer-to-peer e il lavoro di gruppo, e sullo sviluppo delle cosiddette soft skills (competenze relazionali, di comunicazione, ecc.). Con l’esito sconcertante di radicare negli studenti l’idea che sia possibile progettare senza conoscere, senza padroneggiare linguaggi figurativi e saperi tecnici specifici, elaborando in totale libertà dei “bei disegni” privi di qualsiasi motivazione e fondamento razionale. E questo a fronte di un contesto socio-economico altamente critico proprio sui versanti delle costruzioni e del mercato del lavoro dei laureati in Architettura.

Questa crisi della didattica, legata anche a dotazioni spaziali e modelli programmatori e organizzativi non idonei a ospitare e supportare forme avanzate di trasferimento dei saperi, è segno di un contesto di generale inconsapevolezza circa le conseguenze derivanti da una affrettata transizione verso modelli pedagogici complessi, per di più in assenza di un qualsiasi investimento di tipo strutturale. Con conseguenze che non investono solo il mondo dell’architettura, come registra drammaticamente il Rapporto nazionale ISFOL sulle competenze degli adulti (2013): Il dato più preoccupante per l’Italia riguarda il livello medio di competenze dei suoi laureati in un confronto internazionale (…) in media le competenze linguistiche dei laureati italiani sono uguali o inferiori a quelle degli adulti con un diploma di scuola media superiore nei paesi a più alti livelli di competenza: Australia, Giappone, Finlandia e Paesi Bassi, collocandoci così all’ultimo posto della graduatoria nelle competenze alfabetiche e penultima nelle competenze matematiche tra i 24 Paesi che hanno partecipato all’indagine.

Queste forme di “analfabetismo” si manifestano con analoga evidenza nell’interazione con gli studenti ogni qual volta venga loro richiesto di mettere in campo la loro “cultura del progetto”, quando  emerge non solo l’assenza totale di riferimenti che non siano quelli al circoscritto numero di architetti contemporanei ben noti anche al pubblico meno esperto, ma anche l’incapacità di posare uno sguardo critico sulla realtà circostante, e una complessiva “inesperienza dell’architettura” frutto di frequentazioni limitate alla sola percezione visuale tramite qualche dispositivo mediatico.
Un terzo spunto di riflessione concerne quindi proprio una didattica del progetto nella quale sia invece l’esperienza dell’architettura, riprendendo la visione olistica di Ernesto Nathan Rogers, a guidare il processo formativo, anche assicurando i necessari tempi lunghi dell’osservazione, dello studio, dell’approfondimento e della sedimentazione.

Tre spunti forse un po’ troppo semplicistici, per un tema indubbiamente complesso, nel tentativo di focalizzare uno scenario preoccupante, di cui però pochissimi sembrano curarsi, continuando così a lasciare l’“aula vuota”, anche quando la didattica è in presenza.

Milano, Ina-Casa in via Montemartini (G.C. 2019)