UCTAT Newsletter n.69 – luglio 2024
di Elio Bosio
Nel mese di ottobre del 2012 il Tribunale dell’Aquila ha emesso una durissima condanna a sei anni di carcere nei confronti dei componenti della Commissione Grandi Rischi colpevoli, a giudizio della Corte, di avere fornito informazioni “imprecise, incomplete e contraddittorie sulla pericolosità dell’attività sismica….vanificando le attività di tutela della popolazione”. In poche parole, rei di non avere previsto il terremoto. Il giudizio di appello e quello finale di cassazione ribaltarono l’assurda sentenza. Di questa vicenda, ciò che è utile ricordare è la posizione assunta dall’intera comunità scientifica a difesa dei condannati, posizione che possiamo riassumere così: siamo scienziati, conosciamo, per quanto ci è consentito, i fenomeni naturali che indaghiamo. Non pretendano i magistrati di sostituirci in una attività che richiede studi lunghi, difficili e alta competenza specialistica.
Analoga ferma presa di posizione ci saremmo aspettati dal Comune di Milano quando i magistrati sollevarono due questioni: una relativa alla edificazione all’interno di quegli spazi che il pubblico ministero classificava come “cortili” e una seconda riferita all’assenza di piani attuativi.
Sarebbe stato ragionevole controbattere queste contestazioni producendo una valanga di documenti e studi atti a dimostrare la correttezza dei provvedimenti emessi. La risposta del Sindaco e dell’Assessore è stata, invece, per ricorrere a un eufemismo, meno ferma di quanto auspicato anche da quei funzionari comunali cui accadde di istruire pratiche adesso giudicate controverse e sul merito delle quali si è acceso un dibattito alimentato più dagli articoli di giornale che da riscontri oggettivi.
Il fatto è che rispondere colpo su colpo è possibile quando si dispone di argomenti solidi, quando ci si può avvalere di studi e regole ben congegnate e sperimentate. Nel caso in questione scontiamo la carenza di un quadro dello stato di fatto che ha avuto come conseguenza la compilazione di norme di attuazione altrettanto imperfette. Il corredo d’informazioni del vigente PGT è davvero poca cosa e questo appare ancor più evidente effettuando un confronto con i documenti del PRG del 1975-1980, anni in cui non si disponeva della facilità attuale di accesso a banche dati e di informazioni in tempo reale.
La tavola R03 Indicazioni morfologiche del Piano delle regole attualmente in vigore dovrebbe costituire la principale fonte d’informazione in merito alla natura degli edifici e degli spazi urbani e delle modalità d’intervento consentite. All’interno di quello che corrisponde, per la maggior parte, al perimetro del Municipio 1. la rappresentazione è sufficientemente completa: sono bene individuati gli edifici e definita la relativa modalità d’intervento; sono inoltre chiaramente indicati i cortili e le tipologie delle aree verdi. Esternamente a questo perimetro tutto è omologato con il ricorso alla definizione di tessuti urbani unitari: la sola sostanziale differenza è quella tra tessuto a cortina e impianto aperto. In questa opaca descrizione vengono comprese storiche parti di città, come i quartieri sorti nei primi anni del Novecento e adesso al margine delle grandi trasformazioni previste sugli scali ferroviari. Differente e più efficace fu l’opera di catalogazione dello stato di fatto compiuta per il PRG del 1980: parti della città che adesso sono genericamente incluse nei tessuti urbani unitari, furono oggetto di minuziosi rilievi intesi a fornire ogni informazione relativa ai singoli edifici – numero civico per numero civico – ai loro caratteri tipologici e morfologici, alle caratteristiche delle costruzioni accessorie interne ai cortili. Se poi questa opera di catalogazione (condotta senza gli ausili informatici oggi disponibili) non produsse gli effetti auspicati lo si deve imputare anche a una vena di rigidità normativa, inevitabile conseguenza di una persistenza ideologica nel confronto politico. Da qui l’assioma coniato astutamente dai settori più spregiudicati del mondo immobiliare: “meno si sa, più facile è scrivere le regole”. Assioma oggi nei fatti riproposto per gli interventi di rigenerazione urbana.
Rigenerazione, una termine che ha del tutto sostituito negli atti del Comune la parola Urbanistica. Termine che, secondo il Dizionario (cartaceo) Sabatini Coletti significa “ricostruzione del tessuto o dell’organo leso di un organismo” e che il vocabolario (on line) Treccani descrive come “regolare rinnovamento che si attua durante il corso di vita dell’organismo”. In entrambi i casi si parla di un organismo che si sviluppa secondo un ciclo regolare e che non è soggetto a radicali modificazioni che potrebbero provocarne la degenerazione.
Non sembrerebbe, questa interpretazione del termine, adattarsi alla politica urbanistica milanese degli ultimi tempi.
Nel PGT vigente è assente una rappresentazione dello stato di fatto e delle tendenze in atto costruita sulla base materiali rigorosamente ordinati sostituita da un rosario di “proclami”, come qualcuno ha impietosamente definito i capitoli della Relazione, infarciti da riferimenti a modalità di attuazione, come l’urbanistica tattica,che nella versione meneghina hanno generato modesti effetti sulla qualità dello spazio urbano.
Di ben modesto aiuto è la consultazione delle schede relative ai agli ottantotto Nuclei di Identità Locale (NIL), schede compilate come summa di dati non interpolati, prive di raffronti tra le serie storiche e di una loro approfondita esposizione. Tornando ancora una volta indietro nel tempo, non per nostalgia ma per richiamo alle buone pratiche, sarà istruttivo sfogliare qualche volume di una collana edita all’inizio degli anni Ottanta dal Comune di Milano e affidata alla direzione di Giorgio Fiorese, giovane docente della facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Questa pubblicazione, che aveva come oggetto le venti zone che al tempo costituivano il decentramento comunale, trattava della storia dei quartieri cittadini, ne illustrava la struttura urbana, economica, sociale e presentava i nuovi progetti immaginati per una città che, nonostante il non facile momento attraversato dal Paese, indicavano con coraggio la strada per attuare un ambizioso processo di trasformazione (in questo caso, davvero, si sarebbe potuto parlare di rigenerazione). Era il tempo in cui Milano, assieme a grandi disegni infrastrutturali come il Passante ferroviario metteva in campo il Progetto casa, affiancando così agli interventi di edilizia residenziale a libero mercato la costruzione di importanti complessi di edilizia sociale. Il tutto districandosi tra norme urbanistiche qualche volta eccessivamente vincolanti e un coacervo di leggi nazionali e regionali in materia urbanistica ed edilizia, ottenendo comunque che la qualità dei progetti e il raggiungimento degli obiettivi non fossero inficiati dagli ostacoli burocratici.
Parafrasando il titolo di una della più famose incisioni di Francisco Goya, abbiamo motivo di affermare che “il sonno della conoscenza genera mostri”. Poiché di sonno della conoscenza, forse anche della ragione, si tratta quando il futuro della città viene disegnato da operatori che hanno come esclusivo obiettivo il risultato economico, senza alcun interesse alle implicazioni sociali. Con una amministrazione comunale non sufficientemente preparata, o interessata, a porre un argine a questa deriva.
Ha avuto un bello scrivere Beppe Sala a proposito del denaro: “Da sempre circola in modo molto simile all’elettricità. Ha i suoi cortocircuiti, le sue turbine, le sue agenzie energetiche. Unifica la teoria dei bisogni e la pratica dei desideri. Non è nemmeno vero che misura i meriti. Sembra indifferente alla questione della verità, tanto quanto alla consistenza del male.” (Beppe Sala, Società per azioni, Torino 2020). Però, è quanto sta avvenendo nella sua città. Si è fatto grande discutere intorno al cosiddetto Decreto Salva casa. Tanto da parte dell’Amministrazione cittadina, quanto dei costruttori abbiamo sentito alzarsi grandi lamenti per il mancato inserimento delle norme che avrebbero dovuto “salvare” Milano da quello che viene lamentato come un gravissimo blocco dell’attività edilizia. In verità, almeno da parte degli amministratori, ci saremmo aspettati una indignata levata di scudi nei confronti di norme che precipitano la qualità dell’abitare riportando alla nostra memoria vicende e periodi non esaltanti della storia della città contemporanea.
Hanno provato, i cantori della rigenerazione urbana, a immaginare come potrebbe essere un alloggio realizzato sulla base delle nuove norme? Se sottraiamo dalla superficie di 20 metri quadrati (adesso consentita) almeno 6 metri quadrati necessari per il servizio igienico e l’antibagno, restano 14 metri quadrati (3.74×3.74) per cucinare, mangiare, dormire, trascorrere il tempo libero, ricevere persone amiche. E convivere con gli ingombranti e non proprio fragranti contenitori per la raccolta differenziata, considerato che non è fatto obbligo di un balcone. Uno standard abitativo che fa tornare alla memoria le misure degli alloggi della Berlino nella seconda metà del xix secolo descritta da Hegemann (Werner Hagemann, La Berlino di Pietra. Storia della più grande città di caserme d’affitto, Milano, 1975).
Come può, questo standard, conciliarsi con la civilissima tradizione di una città che, dalla fine del xix secolo, si è contraddistinta per l’impegno posto nella realizzazione di una edilizia sociale di qualità esemplare? Ci sarà ancora tra gli amministratori comunali e i loro collaboratori (uno dei miei, come è solito dire il Sindaco imitato dal comico Crozza) qualcuno che abbia meditato sull’esperienza della Società Umanitaria, chi abbia visitato quartieri come quello INA Casa di Via Harar e quello IACP di Via Argonne, che abbia riflettuto sulla storia delle Cooperative di abitazione milanesi che, per dimensione e qualità degli interventi, sono le più importanti del Paese? Soprattutto, quanto sarà numeroso il “popolo dei 20 metri quadrati”? Da chi sarà costituito? Gli alloggi saranno frutto di una moltitudine d’interventi speculativi intesi a ricavare all’interno di più vaste ristrutturazioni qualche cubicolo da affittare a carissimo prezzo agli studenti? Oppure saranno concentrati in edifici di nuova tipologia, caserme d’affitto con ascensore, aria condizionata, internet e magari tetto verde? Come consuetudine sarà il mercato a fornire risposta a queste domande e, di conseguenza, sarà sempre e soltanto il mercato a modificare natura e immagine della città. Confrontata con l’attuale condizione, dove i fondamentali parametri di riferimento per indicare la crescita della qualità urbana sono l’aumento dei prezzi delle abitazioni e degli affitti e il moltiplicarsi dei volumi edificati, la Milano da bere degli anni Ottanta, condannata alla damnatio memoriae per i suoi eccessi e i suoi scandali – tuttavia mai dimentica, nell’azione di governo, delle ragioni dei meno privilegiati – potrebbe oggi essere presentata come un esempio virtuoso. Quanto potrà ancora durare il sonno della conoscenza (ragione?) prima che i nodi di questa politica urbanistica vengano al pettine, non quello giudiziario, che potrebbe anche finire in una bolla di sapone, ma quello ben più importante costituito dalla insofferenza di strati sociali sempre più ampi che faticano a sostenere il costo di questa degenerazione. Leggiamo sul Corriere della Sera (Milano) del 23 luglio 2024, in articolo dal titolo Tutti in piazza per una città migliore: “C’è un sentimento comune tra i nuovi e vecchi comitati che stanno rilanciando la propria attività. Parte da una considerazione: Milano ormai è nelle mani di pochi gruppi immobiliari che decidono sopra le nostre teste come deve trasformarsi la città. Noi non veniamo mai coinvolti. Nessuno si interroga sul punto chiave: che città vogliamo?».
In un contesto mondiale terribilmente complesso e sempre meno decifrabile, Milano sta sprecando una grande l’occasione per rigenerarsi esaltando le sue grandi tradizioni di cultura, solidarietà, innovazione. Da tempo, ormai, nessuna amministrazione ha saputo interpretare in maniera adeguata i bisogni di una società in continua evoluzione e i cui caratteri non possono più essere descritti ricorrendo ai modelli classici dell’economia e della sociologia, una società dove nuovi gruppi si incrociano, si fondono e talvolta si scontrano con la popolazione più “antica”; una società che ha visto pericolosamente indebolirsi le antiche reti di solidarietà, ormai inadeguate per rispondere ai bisogni e ai desideri delle nuove popolazioni urbane.
In carenza di pensatori che, analogamente a ciò che Benjamin fece per Parigi con un suo fondamentale studio (Walter Benjamin, I “passages” di Parigi, Torino, 2000), ci portino a comprendere i meccanismi più profondi dei caratteri del passaggio e della soglia tra due mondi, siamo costretti a rivolgere a chi governa la città la richiesta di un assiduo impegno per interpretare la natura delle trasformazioni in atto, per monitorarle ininterrottamente, per interpretarle disvelando non solamente la mera impronta della struttura economica, ma anche i segni dei desideri, dei bisogni, delle aspirazioni e dell’energia vitale degli abitanti.
Le classifiche sulla qualità della vita nelle città italiane non hanno necessariamente validità inconfutabile. Resta il fatto che qualche domanda dovrebbe porsi Beppe Sala, considerato che la Governance Poll 2024, sul gradimento di sindaci e governatori, realizzata dall’Istituto demoscopico Noto Sondaggi per il quotidiano Il Sole 24 Ore lo retrocede, nella classifica di gradimento dei Sindaci italiani, dal primo posto del 2023 al diciannovesimo del 2024, facendogli perdere consensi anche rispetto al giorno della sua elezione nel 2021. Se per lui questo dovrebbe suonare come un campanello d’allarme, ancor più allarmante è il segnale che questo rilevamento trasmette a chi a Milano vive, mettendo impietosamente in mostra il disorientamento di una società che sempre meno ripone fiducia nella capacità dei suoi amministratori di formulare strategie capaci di rispondere ai bisogni e alle aspirazioni di TUTTA la comunità.

