UCTAT Newsletter n.21 – marzo 2020
di Elio Bosio
Domenica 15 marzo, vittima del virus Covid-19, se n’è andato senza clamore Vittorio Gregotti, chiudendo la porta su un mondo dell’Architettura nel quale non si riconosceva più. Non sappiamo, in questo momento, cosa accadrà e quali saranno le ferite che l’epidemia lascerà sull’intero pianeta. È ragionevole pensare che molto dovrà cambiare nel modo di considerare lo sviluppo delle società umane e di affrontare la trasformazione dei territori e in primis la costruzione delle città. Ecco come le riflessioni formulate da Gregotti, troppo frettolosamente archiviate negli ultimi anni, si riveleranno preziose per un’azione di ricostruzione che non potrà non comportare una significativa revisione dell’Architettura in quanto disciplina. Se è consentita una richiesta pregiudiziale, si cancelli dal vocabolario il termine archistar, neologismo recente e ancora sopprimibile senza provocare un significativo vuoto nel patrimonio linguistico. Questo non per antipatia e tantomeno invidia nei confronti di architetti che hanno ottenuto fama mondiale, ma a ragione del fatto che questa condizione, da loro accettata e probabilmente ambita, li rende astri brillanti ma distanti, così come lontani da un affabile confronto con i contesti in cui sorgono sono gli edifici da loro progettati, rappresentazione di uno sviluppo urbano che privilegia i gesti eclatanti anziché una costante interrelazione progettuale tra i livelli di mutamento, come Gregotti segnalava già trent’anni fa. Da qui la necessità e l’urgenza di una rinnovata attenzione ai metodi del progetto propri di quella precedente generazione di architetti che, come il premio Pritzker Aldo Rossi, posero la riflessione sul modello urbano come precondizione per il progetto dei tipi edilizi. La convinzione maturata dopo il 2008 che nessuna vicenda potesse determinare una irreversibile crisi di sistema e che ai signori dell’economia potesse essere ottimisticamente consegnato lo sviluppo delle metropoli ha fatto sì che gli amministratori pubblici non si accorgessero di essere sempre più confinati al ruolo di mosche cocchiere di un carro trainato dagli interessi privati. La realtà di questi giorni palesa, se ancora ce ne fosse la necessità, come durante le grandi crisi il ruolo propulsore del settore privato vada affievolendosi, lasciando il campo all’intervento pubblico.
Nella città contemporanea quello che si è indebolito è il senso di civitas, ovvero il sentimento di città intesa come bene comune, dove l’equilibrio tra l’interesse del singolo o dei gruppi trova la necessaria mediazione con l’interesse collettivo, in maniera da generare energia collettiva e resilienza. Sono le reti di materiali urbani, di relazioni sociali, di cultura e conoscenza, di emozioni che costruiscono la civitas. Se esse si lacerano o si smagliano, anche l’energia e la resilienza perdono vigore fino a scomparire.
Da qui, alcune considerazioni su Milano, e sul ruolo che questa città ha, non ha, o dovrebbe avere come motore dello sviluppo (ormai, dobbiamo parlare di ripresa) di tutto il Paese. Non possiamo che iniziare dalla questione metropolitana, sempre menzionata ma mai convintamente affrontata, al punto che, rispetto agli ultimi decenni dello scorso secolo e soprattutto alla fondamentale esperienza del Piano Intercomunale Milanese, dobbiamo prendere atto di un evidente regresso. Emblematica è stata l’istituzione della provincia di Monza e Brianza che ha separato per via amministrativa questa città – e con essa il comprensorio del Vimercatese – dal sistema urbano milanese del quale inconfutabilmente costituisce tassello fondamentale. Tutto questo per soddisfare una miope ambizione di autonomia, la stessa che a suo tempo negò la prosecuzione verso Monza della linea metropolitana 1, adesso dichiarata indispensabile. Ancora, per quale il motivo, se non per un localismo esasperato e anacronistico, si è “innalzato” al ruolo di provincia il lodigiano, un territorio che dal profondo dei secoli è intimamente concatenato sistema milanese?
Non v’è dubbio che di questa situazione sia corresponsabile il Comune di Milano, da sempre riluttante – per ricorrere a un eufemismo – a svolgere, con l’impegno che il primato impone, il compito di motore dello sviluppo della città metropolitana. Mentre a Milano si celebra il rito della riconversione degli scali ferroviari, prefigurazione di scenari urbani sempre più sorprendenti, i popolosi comuni dell’hinterland, che dai giorni del Miracolo Economico hanno visto crescere popolazione e insediamenti produttivi, soffrono la chiusura progressiva di tante attività economiche, cui inevitabilmente si accompagna uno svilimento della qualità della vita degli abitanti. Per i grandi gruppi della finanza che investono quantità impressionanti di denaro su parti importanti della città, i confini amministrativi non hanno importanza: essi guardano esclusivamente alla migliore opportunità. Perché non offrirne loro di nuove, all’interno dell’area metropolitana, determinando le condizioni per valorizzare ambiti talvolta più interessanti e conveniente di quelli localizzati nella città centrale? Della rete urbana a Milano, negli ultimi anni, ci si è occupati solo dei nodi, dimenticando i fili che di questa trama costituiscono la materia, privilegiando sempre più una struttura puntiforme, costituita da complessi edilizi direzionali, commerciali e residenziali, da alcuni centri della cultura, discutendo su come realizzare un nuovo stadio per il calcio e concentrando i prossimi interventi pubblici in alcuni nodi, come le piazze oggetto di un recente concorso pubblico.
Nessuna attenzione è stata prestata all’abbellimento strategico delle strade cittadine, se si esclude l’eccezione dei non più rinviabili interventi di riorganizzazione delle fermate dei tram. Mentre il PGT di Milano tratta della mobilità pedonale soltanto in due pagine della relazione, tante città in Europa e negli Stati Uniti dedicano a questo argomento studi approfonditi e impegnativi programmi, con la consapevolezza che una città che ignora l’importanza della trama stradale come vetrina delle funzioni urbane e generatrice di paesaggio è una città destinata a vedere nel tempo disfarsi i nodi dell’eccellenza sui quali ha scommesso e investito. Perché, come nella rete del pescatore i nodi tengono se la corda è robusta, nella città i centri funzionano se sono tra loro connessi da un sistema di mobilità che non è solo quello della gomma e della rotaia, ma anche quello pedonale. Proviamo a pensare quanta immaginazione progettuale e quale reale partecipazione susciterebbe un convinto impegno dell’amministrazione comunale su questo tema e come strategici potrebbero essere, nel medio e lungo periodo, gli effetti sortiti.
Con i piedi per terra: una parola d’ordine da prendere in seria considerazione.
Con i piedi per terra nell’individuare priorità e modalità per le strategie del rinnovamento urbano. A tal proposito, è ragionevole sostenere che il “salvataggio” dei quartieri Aler sia meno importante di quello degli scali ferroviari? In una situazione di profonda incertezza e insicurezza come quella adesso vissuta, i quartieri dell’edilizia popolare potrebbero funzionare come centri di resilienza, magneti di solidarietà, prezioso tramite tra le comunità locali e l’amministrazione comunale. Al contrario – per responsabilità di tutti i livelli di governo – si sono trasformati in luoghi dove non valgono regole e leggi, se non quelle della prevaricazione e della criminalità. Ne è testimonianza la crescita repentina, in piena crisi sanitaria, dell’occupazione abusiva degli alloggi (Corriere della Sera del 23 marzo), quasi una piccola trasposizione nella realtà del fantascientifico Condominium di James G. Ballard. Non resta che confidare che la dura lezione che stiamo subendo spinga chi ne ha gli strumenti e l’autorità ad avviare un progetto di riconsegna di questi quartieri alla civitas. Sarà impresa non facile e neppure indolore, ma assolutamente necessaria. Per concludere la riflessione su questo argomento, vale ricordare che alcuni dei complessi Aler presentano qualità spaziali e capacità di conferire solidità alla struttura urbana non inferiori a quelle di un recente e celebrato intervento come City Life, manifestazione dell’abilità e della capacità di stupire di artisti del circo dell’architettura che, dopo la loro prestazione, salutano il pubblico e corrono a esibirsi in un’altra città. Sarà forse cosa migliore, nei futuri grandi progetti urbani, privilegiare la capacità di trasmettere energia a ambiti più vasti della città esistente, resistendo alla facile suggestione della sempre maggiore altezza degli edifici e della stravaganza delle forme.
Con i piedi concretamente per terra nell’affrontare il tema del verde cittadino. Dovrebbe costituire motivo di riflessione (anche un po’ di preoccupazione) il fatto che gli edifici del Bosco verticale di Stefano Boeri, indubbiamente ricchi di forza d’evocazione, vengano ormai assunti – aldilà delle stesse intenzioni del progettista – come paradigma di un possibile verde urbano alternativo o complementare a quello, unico e vero, che nasce dal suolo come, senza purtroppo riscuotere grande attenzione, ricordava Giuseppe Campos Venuti, decano della specie in via di estinzione degli urbanisti italiani.
Non è frutto di malizia, bensì di ragionevole dubbio, sostenere che il recente entusiasmo per i tetti giardino costituisce pretesto per eludere il tema del verde vero, quello dei parchi e dei giardini, delle strade e dei viali alberati, quello dove i bambini possono correre e giocare e le persone passeggiare attraverso la città. Le Corbusier nel 1923 adottò nella la casa progettata per la madre sul lago Lemano quello che chiamò “tetto-giardino” che, come descrisse, “Isola dal freddo, isola dal caldo. Si tratta cioè di un prodotto isotermico gratuito che non necessita di nessuna cura”. Una soluzione tecnologica, dunque, che non pensò mai di proporre nei suoi progetti di città come alternativa totale o parziale al verde dei parchi.
Con i piedi per terra, infine, per rinunciare a celebrare a qualunque costo le magnifiche sorti e progressive di Milano. Con i piedi per terra per arrestarsi, soltanto un poco, a riflettere sui modi e sugli strumenti della crescita e per convincersi che riflettere non significa rallentare o, peggio, ostacolare. Terminata la fase più acuta della pandemia occorrerà fermarsi a meditare, probabilmente a lungo. Poichè, come ha scritto David Grossman, “per molti, l’epidemia potrebbe diventare l’evento fatale e formativo nel prosieguo della loro vita. Quando finalmente finirà e le persone usciranno dalle proprie case dopo una lunga chiusura, si potrebbero presentare possibilità nuove e sorprendenti: forse aver toccato le fondamenta dell’esistenza promuoverà tutto questo…Forse la consapevolezza della brevità e della fragilità della vita spingerà uomini e donne a stabilire un nuovo ordine di priorità. A insistere molto di più nel distinguere il grano dalla paglia. A capire che il tempo, non il denaro, è la loro risorsa più preziosa”.
