La complessità del territorio

UCTAT Newsletter n.58 – luglio 2023

di Luca Marescotti

Sono andato via da Milano da più di vent’anni, cercavo una dimensione diversa con la possibilità di vedere il cielo, di camminare tranquillo; ero stanco della confusione e del rumore, della prassi urbanistica con improvvise accelerazioni per certe trasformazioni urbane e lentezza costante per il necessario; non vedevo ragionevolezza, né profondità o dolcezza.

Sono rimasto milanese, nonostante tutto, nonostante l’avventuroso pendolarismo più in treno che in auto; nei primi anni subivo la lentezza e l’odore dei locomotori diesel, se non ricordo male il D.445, su linee elettrificate, poi treni Medie Distanze ma nelle prime versioni degli anni Ottanta, e le manutenzioni rarefatte degli impianti fissi e del materiale rotabile; la separazione tra ferrovie delle stato e ferrovie regionali avviata negli anni Novanta non dava risultati ai pendolari; del Servizio Ferroviario Regionale, tanto sbandierato al momento delle decisioni, se ne erano tutti dimenticati e dopo decenni è ancora largamente insufficiente. Altro che Passante Ferroviario e grandiose stazioni interrate. Scrissi persino una lettera ai quotidiani di Milano e Pavia sulle condizioni tragiche dei pendolari ma non ebbe accoglienza e alle continue proteste dei pendolari si dedicavano rituali servizi senza risultati; solo quando Michele Serra anni dopo commentò un piccolo disservizio sulle stesse linee, il giorno dopo ottenne ascolto dalle Ferrovie Regionali.

Negli studi per la definizione della Zona C (2006-2007), iniziati discutendo se decongestionamento del traffico o riduzione dell’inquinamento, un consulente dell’AMA (poi AMAT) assieme al rappresentante dell’assessorato ai trasporti pubblici comunale e un rappresentante del Politecnico di Milano proposero di controllare al confine comunale gli ingressi automobilistici assieme a quelli delle merci pericolose: sarebbe bastato un pedaggio ridotto (allora erano oltre seicentomila ingressi al giorno) purché vincolato al potenziamento del trasporto pubblico. Anche se la proposta non fu ritenuta degna di discussione, la ricordo perché nasceva dall’ipotesi, mai falsificata, che un efficiente trasporto pubblico di massa su tutte le direttrici avrebbe potuto ridurre inquinamento, congestione e disagi sociali. Oggi, più che le politiche dei trasporti, pandemia e guerra hanno ridotto il pendolarismo.

Strane storie.

Nell’Oltrepo, dove mi sono trasferito, i discorsi vertono sulle differenze tra pavese, lomellina e Oltrepo, a sua volta diviso tra Voghera e Broni-Stradella; ma le loro osservazioni non riescono nemmeno a cogliere il senso delle differenze con il servizio sanitario della vicina Emilia-Romagna. Ho cercato di spiegare, più volte e sempre senza successo, perché alla frammentazione andava preferita la complementarità, che in altra scala significava privilegiare la multipolarità in una prospettiva di regione urbana, che si estende ben oltre l’area del governo metropolitano; si trattava di una visione dilatata, che riconosce quanto le diversità concorrano alla ricchezza regionale; questa consapevolezza a sua volta significa farsi carico di una realtà piena di contraddizioni e di scollature, cosparsa di tessere dorate e di tessere dall’incerto colore, ombrose, dove nuove società si innestano dando luogo a una miscela di culture tra il cosmopolitanesimo globale, il rurale non più antico ma vecchio, e un variegato indefinibile tessuto nuovo, di grandi potenzialità in diffusione continua. La mia attenzione agli aspetti teorici della disciplina mi ha distratto dalla pratica del piano, anche se non posso ignorarla; so benissimo quanto sia importante la realtà politica, e altresì riconosco quanto sia importante, e più del piano e del tecnicismo delle norme, una formazione culturale e professionale molto articolata, sensibile alla conoscenza dei luoghi e alla necessaria delicatezza nell’intervento, allenata alla prassi cioè alla logica del cantiere urbano, all’interazione con molte altre discipline per garantire tempi e risultati: un lavoro corale. E indipendente. Troppo spesso nelle norme urbanistiche ho trovato grovigli di lacci e lacciuoli, utili solo a chi ne conosce i meandri. Sarebbe assai semplice unificare per quanto possibile questi aspetti e magari riformare il catasto per collegare le informazioni delle coperture, dell’uso e delle destinazioni d’uso, così da rendere leggibili vincoli e limitazioni al diritto di proprietà derivanti dal diritto pubblico e dal diritto privato. Tutto con un click, potrebbe essere lo slogan.

Nello stesso tempo noto quanto l’attuazione di piani e programmi rientri in settori indipendenti, la cui indipendenza non fa che permettere l’incertezza, lasciando contenuti e tempi sotto il segno dell’aleatorietà, della discrezionalità e dell’imprevedibilità. Per affrontare queste paludi occorrono non virtù ma furbizie senza scrupoli. Un esempio per tutti: la BEIC milanese, una biblioteca europea svanita nelle promesse mancate degli operatori immobiliari e tramite il PNRR ricomparsa, forse: andrà tutto bene? Sarebbe assai utile collegare dichiarazioni e realizzazioni nelle opere pubbliche, nei lavori pubblici, nei piani urbanistici o nei diversi piani di settore, dai Piani urbani del traffico ai Piani urbani (e provinciali) della mobilità o ai piani del sottosuolo per mettere in evidenza la capacità di programmazione e attuazione. Sapere lo stato di attuazione della pianificazione è conoscere lo stato di salute del governo territoriale, e forse non solo territoriale. Tutto con un click: questo potrebbe essere ancora lo slogan.

Sono sempre stato convinto che nella programmazione e nella attuazione la priorità spetti a spazi e edifici pubblici, come quando sostenemmo, allora studenti, le lotte del Gratosoglio e del Gallaratese sull’assenza dei servizi, non certo per incolpare o sfiduciare i progettisti, di cui riconoscevamo l’impegno. Non credo servano acrobazie e trucchi di bilancio e nemmeno il ricorso ai grandi e famosi per risolvere le carenze e dare risposte concrete a quelle vexatae quaestiones della copertura economica dei lavori pubblici, della loro programmazione e degli oneri di urbanizzazione come tasse di scopo. La creatività progettuale sarà poi stimolata dai lavori di gruppo, dai confronti e, magari, dalla partecipazione, ma: all’interno della concretezza!

La regione-urbana è sollecitata dei cambiamenti: le città, qualsiasi città, non sono che tessere del mosaico territoriale, che nell’interezza dell’ambiente hanno riferimenti globali. La regione-urbana, urbana per tutte le società che la abitano, richiede però governi che elaborino strategie comuni attraverso un processo lento – certo non facile – di convergenza delle opinioni e delle risorse per concorrere assieme alla costruzione del futuro. Anche nell’urbanistica è essenziale un lavoro di gruppo, sempre più interdisciplinare e soprattutto transdisciplinare per stimolare partecipazione e confronti, la precisione e la correttezza delle informazioni contribuisce alla condivisione delle politiche, tra obiettivi, risorse e priorità.

È vero, il contesto non è facile, troppe forze, solitamente sottovalutate, rafforzano la diversità: le caratteristiche delle tendenze sono indotte non tanto dal naturale succedersi delle generazioni, quanto dal sovrapporsi di influenze culturali che derivano dall’inglobare tecnologie in continuo sviluppo, dal confronto con altri popoli, dagli effetti imprevedibili della pandemia, della guerra, per non tacere dai sempre più frequenti eventi climatici eccezionali: il futuro lo rendiamo sempre più imprevedibile. Noi, l’umanità.

Le tecnologie portano senza interruzione innovazioni che superano le aspettative, alterano le modalità di comunicazione e di trasporto; l’estensione dei sensi modifica le percezioni del mondo, la velocità rischia di rendere tutto superficiale. Nella scuola si dovrebbero approntare gli strumenti, anticipare gli avvenimenti, costruendo il tempo necessario per passare dalle percezioni all’appercezione, dalla consapevolezza alla coscienza; la globalizzazione, che sembrava inarrestabile qualche anno fa, è sconvolta da altri messaggi e da altre dimensioni; l’economia cambia le proprie regole: la tensione è globalizzata. I rapporti tra locale e globale si svolgono su più livelli attraverso interazioni dirette e indirette non facilmente interpretabili. Tutto è fluido, non solo la società. Territorio, ambiente e società nella sovrapposizione degli scenari richiedono di essere ridefiniti. O, forse, solo di una maggiore attenzione e cura.

Si devono ripensare i concetti di base come città, campagna, centro, periferia, quartiere, servizi pubblici, servizi sociali e servizi commerciali, spesso ancora abbinati in dualismi irriducibili, come se non fossero passati i secoli; si devono riorganizzare le visioni strategiche, gli strumenti di analisi e quelli operativi e progettuali. A fronte di questo processo di rappresentazione e trasformazione del mondo, il nostro spazio vissuto e in perenne trasformazione, propongo agli urbanisti tre atteggiamenti, o virtù, su cui rifletto da tempo: mitezza, interezza e delicatezza.

Alla mitezza si ricollega l’idea che il nostro abitare richieda la costruzione di luoghi rifugio, cioè di ambiti in cui ci si senta protetti, a proprio agio, in pace e in amicizia, costruiti per prendersi cura di ciascuno, sia individuo sia nell’insieme delle mille società conviventi, dell’ambiente nel senso particolare dei luoghi e nel senso generale della Terra. La mitezza è una virtù umana che conforma i luoghi alla convivenza e all’inclusione. La città della mitezza è aperta, non pone limiti o confini; è parte del territorio e della natura, rafforza i servizi ecosistemici; la sua appartenenza consapevole all’ambiente significa scambi virtuosi e riduzione al minimo di rifiuti e scarti. La città della mitezza garantisce risorse a tutti.

La progettualità delle zone residenziali, di quelle industriali e degli edifici pubblici e la cura delle zone agricole, boschive e forestali richiede una riorganizzazione dei processi progettuali. Penso, per esempio, ai progetti della sanità e della scuola capaci di offrire una ricchezza insostituibile ai luoghi e alle persone: la loro essenza sta nell’offrire cura delle persone e nello stesso tempo nella formazione di un tessuto sociale coeso nelle diversità. Le soluzioni architettoniche nascono assieme a insegnanti e a operatori sanitari. Scuole e ospedali non vivono solo grazie alla qualità progettuale, poiché la vitalità dipende dalle risorse umane e economiche dedicate alle loro attività. Impegno e disponibilità. Essi sono spazi liberi, luoghi per l’emancipazione sociale e per la riflessione; sono centri di incontro e di scambio sociale, luoghi stimolanti una conoscenza pluralistica, non conflittuale. Il tema ricorrente è scambio, poiché la cura del territorio è scambio: scambi tre le società, scambi di risorse e energie, scambi nei servizi ecosistemici. Gli scambi sono sostenuti da un linguaggio non violento, stimolante pari opportunità, vere e per tutti.

A queste riflessioni si collega l’idea dell’interezza, cioè di un territorio, che include l’urbano, in cui le singole tessere dei paesaggi si integrano in un effetto sinergico e armonico. L’interezza nasce da un insieme di centralità le cui connessioni sono anche esse centralità, in risposta alle necessità di libertà di movimento nel territorio. L’interezza è una virtù fisica dei luoghi, progettati e prodotti collettivamente, da urbanisti, architetti, ingegneri, geologi, botanici (per dirne alcuni), capaci di giocare assieme le proprie visioni poetiche, anche se in tempi diversi e in scale diverse, così garantendo l’armonia dei luoghi e, nello stesso tempo, il suo essere parte di un territorio vivo, senza cui non si potrebbe esistere. L’interezza è un tessuto che sostiene la commistione sociale multiculturale, è un territorio urbano dilatato, cooperante, armonioso.

La delicatezza è riferita all’agire, al modo con cui calibrare le continue trasformazioni dei luoghi, sensibili a ciò che sono e alle loro potenzialità; riguarda il modo in cui si costituisce nell’urbano e nel territorio quella miscela inseparabile di fisicità e socialità, come sostenevano, ciascuno a modo suo, Campos Venuti e Lefebvre. Dunque, la delicatezza si rapporta alle diverse società che convivono nelle diverse “parti” della città, che forse non sono più esattamente quei quartieri di cui si parlava decenni fa; sono zone, microzone, tessere di un mosaico non sempre piacevole, anzi spesso stridente e disarmonico. Tessuto urbano e ricucitura sono termini che invocano sapienza, non ruspe e espulsioni. La delicatezza dovrebbe appartenere agli urbanisti, in quanto sensibilità ai luoghi, agli elementi che segnano un luogo, alle opere, alle persone, dandogli significato, come può un glicine fiorito a primavera in una piazza; la delicatezza progettuale rende piacevole il percorrere lentamente lo spazio urbano, una sua strada, una sua piazza, senza rischi. La delicatezza è coinvolgente nel suo saper varcare i confini delle discipline e nel suo costruire un linguaggio comune di segni e di opere.

È tempo di riprendere il filo interrotto delle riflessioni sulla città e sui territori nel loro essere attuale  e nel loro divenire. Il contesto attuale appare caratterizzato da tensioni contrapposte, da una parte gli squilibri sociali locali e globali, i cambiamenti del clima, globali con effetti locali, che rendono ogni previsione un azzardo, dall’altra incredibili capacità di ricerca scientifica e tecnologica che permettono di conseguire obiettivi non prevedibili e un tempo impensabili: riuscire a trovare in un anno un vaccino contro una pandemia, costruire acceleratori di particelle per la fisica della materia o per la radioterapia, collocare un telescopio a un milione e mezzo di chilometri dalla terra, tacendo per pudore della ricerca militare. L’innovazione tecnologica pervade la nostra vita, dilatando i nostri sensi e aiutando la memoria, anche qui tacendo delle possibili applicazioni repressive o illegali. Quindi, quale futuro? La questione scientifica e tecnica per l’urbanistica riguarda l’enorme potenzialità che queste tecnologie possono avere nel governo positivo del territorio, dalle analisi alle attuazioni.

Basta ripensare alle diverse formule lanciate e alle poco conseguenti proposte operative; agli slogan e alle dichiarazioni come la città per tutti, la città giusta, la città degli apericena e delle happyhours, la città dei quindici minuti, la città a 30 km/h. Slogan a cui non seguono risposte coerenti nel tempo. La serietà si confronta e si confonde con l’edonismo egoistico, tanto da non far più capire se l’urbanistica debba essere il libro dei sogni animatore del consenso o la guida per azioni di lunga durata, unico quadro entro cui sviluppare la città-regione del futuro. D’altra parte, quand’anche si dovesse trovare accordo su questa seconda ipotesi, dovremmo cercare la coerenza delle parti tra i progetti del sistema infrastrutturale, tra le strade residenziali dove le persone e persino il gioco dei bambini hanno la precedenza, tra i nodi di interscambio. La regione urbana è un salto di scala e di pensiero rispetto alla città-regione; presuppone che ciò di cui si è scritto non riguardi solo Milano ma tutti i capoluoghi lombardi, cioè tutto il territorio che si estende oltre la stessa Regione Lombardia. Per inciso, la città dei quindici minuti mi evoca una debolissima memoria degli anni Sessanta del secolo scorso e non intendo certo per le lotte quanto per la lenta e faticosa conquista italiana degli standard urbanistici. Sono ormai discorsi di tempi lontani, quelle battaglie sono state messe in dubbio distruggendo pezzo a pezzo la qualità dell’offerta pubblica, sostenendo che costava troppo e che, immemori e illogici, l’urbanizzazione privata avrebbe creato ricchezza e che la liberalità avrebbe generosamente dotato l’urbano di grandiosi “spazi pubblici”. E triste osservo quanto quello stendardo col tempo si sia sbiadito, sfilacciato, stracciato; infine, vilipeso, fu accantonato nell’oblio.

Da lontano dalle colline dell’Oltrepo traguardo il profilo di Pavia e quello lontano di Milano, spesso nascosti da una coltre incolore. Il mosaico territoriale è evidente: colture, frammenti di filari alberati e di boschi, infrastrutture, insediamenti industriali e commerciali, fattorie, città, paesi appaiono nella loro contiguità. Bisogna fare attenzione e avere sensibilità per comprenderne i segni: capacità produttiva di qualità diffusa, mai organizzata o intrecciata con la ricerca, abbandono per trasferimenti produttivi; logistica e capannoni di un’estrema povertà progettuale, quasi sempre predatori di territorio e di energia incapaci di ricambiare, assi stradali trasformati in distretti industriali o commerciali sempre privi di logica territoriale. Da questa continua spontaneità diffusa traspare l’inutilità della pianificazione.

Vicino a me, come altrove peraltro, le necessarie bonifiche dei siti inquinati, le riqualificazioni delle aree industriali dismesse o dei quartieri popolari sono state rallentate da mancanze di risorse dirottate su altri obiettivi. Degli impianti dell’Eternit, tanto per esemplificare, restano gli scheletri, monumenti eterni i cui effetti mortiferi ancora si proiettano sul territorio. Si preferisce sempre costruire su terreni agricoli, mentre migranti silenziosi offrono lavoro sui campi e nelle logistiche in cambio di misere paghe senza casa e istruzione, senza sindacati, che solo invocarli è rischioso nel silenzio di molte pubbliche amministrazioni.

Il passato? Furono anni di promesse vane e di concreti privilegi, ma buona parte della nostra questione urbana nasce in quel passato di società opulenta, di privatizzazione dei servizi, di concentrazione della distribuzione delle merci e delle strutture commerciali, di trasporto privato, di deregolazione sociale, e anche urbanistica. Per mantenere il consenso bastava dire che i servizi pubblici erano malati, che contro corruzione e sprechi bastava ridurre le risorse, senza curarsi degli effetti secondari sulla popolazione debole e sul personale. Se la sanità pubblica si deteriora, basta rivolgersi alle cure private; se le scuole pubbliche sono in crisi, basta rivolgersi alle scuole private. E se i mezzi pubblici non sono efficienti e diffusi? Si usino le automobili. La priorità sarà sempre e comunque agevolare la circolazione, fingendosi sicuri che l’effetto si riverserà sulla sicurezza degli “utenti deboli”, pedoni e ciclisti, nonostante le statistiche. Si usa la stessa logica impiegata per far credere che agevolando i ricchi col taglio delle tasse, ne trarranno benefici i poveri. Del modello Stoccolma e delle città del nord Europa si negherà sempre quanto sia stato investito per lungo tempo in investimenti, ricerche e educazione civica. Di fronte alle obiezioni basterà scherzarci sopra: quelli sono diversi. Oppure come dicevano i russi: non vorrete ridurvi così, obbligati alla bicicletta? Un gioco facile, tanto si vive in un eterno presente dove del passato nulla resta e del futuro, lasciato alle improvvisazioni, poco importa. L’evidenza dell’urbano milanese si manifesta forse più appropriatamente nell’immagine della città dei ricchi con le sue architetture spericolate; della bellezza, una virtù così indefinibile e soggettiva, si rinnova il proclama indimostrabile della sua bontà, anche se l’evidenza la mostra inerme nelle questioni sociali e ambientali.

Non riesco a capire come la stravaganza possa contribuire alla “nostra” identità, né tanto meno quale inclusione possa offrire alle diverse società dell’urbano. Non riesco a capacitarmi che una regione urbana tra le più sviluppate d’Europa, con un alto livello di istruzione, sia così incapace di prendersi cura delle abbondanti risorse territoriali e delle società, che pure sono alla base della sua ricchezza. Nell’egoismo della ricchezza dichiarano che l’inquinamento atmosferico è tutta colpa della geografia e dunque si oppongono alla direttiva europea sulla qualità dell’aria, purtroppo non soli ma male accompagnati da altre regioni del nord. Ignorano le analisi dell’Agenzia Europea per l’Ambiente o progetti Europei come Life -Prepair, lasciando inascoltati i propri operatori della sanità che insieme richiedono interventi sistemici e continuativi sulla mobilità, sul riscaldamento e sull’agricoltura. Quelle ricche regioni infettano le menti spargendo comunicazioni malate; rinnegano il proprio ruolo di guida al cambiamento necessario dei modi di produzione e di consumo. Pur di fare come si è sempre fatto, perdono autorevolezza e annichiliscono l’etica. E contribuiscono agli squilibri.

La dimensione regionale, estendendosi evidentemente ben oltre i confini, rende manifesto la piccolezza degli interventi in Milano: sono solo episodi isolati, quasi propagandistici. Che cosa rimane dell’EXPO milanese o delle coraggiose C40 Cities? Per rendere armonioso il mosaico territoriale bisogna intervenire nella regione urbana facendo crescere la partecipazione; “cercare un pubblico fuori della cerchia di iniziati” per contrastare il dilagante assenteismo. Ritorno, dunque, allo slogan Tutto con un click perché credo che il suo significato non stia tanto nel giocare con le potenzialità delle tecnologie informatiche e delle comunicazioni, né con l’efficienza produttiva o la semplificazione per i cittadini; esso rinvia direttamente alla trasparenza e, dunque, alla partecipazione: comunicare per informare e educare; comunicare per far comprendere l’urbanistica, nel suo essere governo di lunga durata con cui, volendo, si possono rendere protettive e armoniose le città.

Tutto al contrario di piani urbanistici in forme più o meno dilatate, più o meno oscure purché diversificate in modo da adattarsi alle richieste di 1500 sindaci, ciascuno orgoglioso, fiducioso nella propria scelta. “Malo hic esse primus quam romae secundus”: ciascuno fa proclami, gestisce assemblee, ma senza l’autorevolezza di un Cesare. Nelle riforme istituzionali dove l’urbanistica è materia residuale o dove le province ci sono ma non ci sono, appare una volontà di non governare il territorio, di lasciarlo in balia di altri poteri, innescando una sensazione di disinteresse verso i problemi locali, anzi di ignorare la centralità dei territori negli sviluppi economici e nell’emancipazione sociale. La sussidiarietà diviene menzogna, non solo una rinuncia grave a conoscere quanto accade.

Le domande sulle strategie per la città e il territorio regionale coinvolgono tutte le regioni italiane, senza esclusioni poiché solo insieme possono sperare in azioni tempestive e proattive; sono domande legittime, che appartengono al diritto di conoscere e al dovere della trasparenza, condizioni necessarie per poter comprendere, e dunque partecipi. Le risposte non si scovano in un ritorno al passato, in un’inesistente età dell’oro, né attribuendo autorevolezza a chi palesemente vi ha rinunciato con le proprie scelte; non esistono soluzioni banali, per quanto disponiamo di modelli, di sistemi informativi che semplificano l’accesso alle fonti e il controllo dei fatti, spina dorsale della partecipazione. Richiedono tempo e risorse, consci quanto la lotta politica sia disposta a usare ogni mezzo per diffondere disinformazione, magari dipingendola come eroica controinformazione.

Le risposte non sono semplici, richiedono il coinvolgimento di università e di laboratori, senza esclusioni; la loro elaborazione richiede fatica, richiede partecipazione sostenuta da un flusso continuo comunicativo. Sono risposte che vertono sullo stato del territorio, in quella accezione che comprende le interazioni tra attività umane e ambiente. Senza cembali e trombe. Questi possono anche essere utili, ma quello che è necessario è un prodotto collettivo, scritto da tutti e per tutti leggibile; l’esposizione pubblica, le varianti, le discussioni possono seguire molte strade oltre a quelle previste dalle leggi purché concrete. Il piano deve aprirsi al confronto in spazi liberi per diventare sufficientemente robusto per affrontare i lunghi processi della transizione, ma anche sufficientemente elastico per adattarsi al variare del contesto senza tradire la sua missione di fornire risposte alle domande sociali.

È solo una questione di impegno di scelte e di volontà politica, ma questo era già chiaro.

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