La continuità espressiva nei luoghi peculiari

UCTAT Newsletter n.72 – novembre 2024

di Alessandro Ubertazzi

L’ambiente rurale: un immenso, prezioso artefatto.

La gran parte del paesaggio del nostro Paese che ricordiamo e desideriamo frequentare porta le tracce evidenti d’una incessante operosità, di una diffusa antropizzazione che ha profondamente modificato il contesto originario.

Le balze e i terrazzamenti definiti da muri di pietre posate a secco nelle Cinqueterre o in Valtellina, i lunghi muri di pietre accatastate che dividono i campi della Sicilia iblea, i filari di pioppi avvolti dalla foschìa della Valle Padana, la sottile trama di rogge, di viottoli e di siepi che spesso definiscono i campi derivati dalla centuriazione romana, la geometria dei frutteti o degli uliveti lungo le pendici della valle del Crati e perfino le selve e i boschi che coprono le pendici delle nostre montagne sono il risultato di decine di secoli di duro lavoro.

Il fascino di questi paesaggi risiede proprio nei significati umani che essi nascondono e che, sempre più spesso, vorremmo conoscere e frequentare. I diversificatissimi ambienti che si susseguono fra le Alpi e l’isola di Pantelleria sono la testimonianza spettacolare di una matura civiltà agro-pastorale, eminentemente agricola o addirittura agro-industriale.

Il crescente desiderio collettivo di difendere l’ambiente, questo ambiente significante, dallo scadimento e da una irragionevole quanto inutile violazione corrisponde, forse inconsciamente, alla volontà di una riappropriazione delle radici dalle quali stiamo ineluttabilmente distaccandoci.

Certo, le metodiche in atto e le esemplificazioni concrete di questa intenzione sono spesso grossolane.

Il primo e più frequente abbaglio che si riscontra è la lettura dell’ambiente rurale come frutto dell’esercizio di uno stile “minore”, di un linguaggio fondato sugli accessori che accompagnerebbero, solo ritualmente, modelli comportamentali assolutamente difformi da quelli che si vorrebbero praticare.

Il “rustico”, in quanto stile, è infatti una deviazione ideologica che induce fra l’altro a una lettura non oggettiva della ruralità; questa avviene infatti attraverso occhiali su cui è prestampato un universo fatto di tronchi grossolanamente sbozzati, di perlinature di legno nodoso, di mobili concepiti “interpretando” acriticamente le suggestioni prodotte dalle più differenti culture arcaiche. Per anni questa stessa deviazione ha autorizzato taluni a introdurre châlets svizzeri e finti ferri battuti in Sila o bianche casette provenzali nel Varesotto e in Sardegna in una sarabanda infernale di mistificazioni e di fraintendimenti.

Il secondo e diffuso inganno consiste nella decontestualizzazione dei luoghi che manifestano una significativa e spettacolare ruralità mediante l’assedio dell’edilizia e delle infrastrutture. Esso soverchia le peculiarità e le specificità locali invadendo anche quella necessaria cintura di rispetto, quell’adeguato “stacco” fra gli ambienti rurali storicizzati e il mondo contemporaneo: ovviamente questo avanza ma deve attuarsi con modi propri.

I caratteri della peculiarità.

Esistono dei luoghi che, per le loro caratteristiche, si possono definire come peculiari e dotati di una specifica identità. La loro particolarità e la loro diversità sostanziale da altri, che pure abbiamo conosciuto, ci colpiscono fortemente e, spesso, ci sono particolarmente gradite.

Lo studio accurato di ambienti umani dotati di un simile livello di organizzazione e di caratterizzazione è di grande interesse per affinare le tecniche utili alla identificazione dei loro tratti distintivi; lo studio di questi luoghi ci induce altresì a individuare le tecniche più appropriate per la conservazione e la continuazione della loro identità. I luoghi umani che si manifestano attraverso una percepibile peculiarità contengono, infatti, da un lato le regole secondo le quali essa si esprime e dall’altro quelle con cui essa potrebbe essere continuamente e nuovamente declinata per i tempi a venire.

Non solo: il sapere che si forma attraverso questi studi ci consentirebbe di correggere i fattori identificanti di quei luoghi che non nascono fortunati come quello.

Spesso ambienti molto complessi (e fra questi le metropoli o i contesti che hanno subito vicende intricate, ricostruzioni affrettate o manipolazioni perverse), proprio per il fatto di non possedere una identità direttamente riconoscibile, si lasciano interpretare o leggere a posteriori con maggiore difficoltà. In essi è certo più difficile (anche se non impossibile) individuare quegli aspetti che devono poter essere continuati, sviluppati e ripetuti affinché il loro volto possa emergere con evidenza, quasi come vittoria sulle vicende negative subite in passato.

Risolto il problema di come mantenere, conservare e valorizzare il patrimonio consolidato si pone sempre più spesso il problema di continuare a operare per il futuro secondo regole ottimali affinché il volto del luogo continui ad essere univocamente quello.

Il volto delle persone si modifica fisiologicamente nel tempo, invecchia; il volto è lo specchio di un’anima e le sue caratteristiche fondamentali si conservano, le sue diverse componenti mantengono specifiche correlazioni fra le parti che perciò esprimono una unità inscindibile e personalizzata.

Gli ambienti montani.

La montagna è uno spettacolo complesso che non si presta ad essere osservato in modo indifferente. Il mare accade: esso si manifesta spontaneamente e, semmai, lo si affronta. La montagna invece si conquista.

Il rapporto con la montagna è quasi sempre un rapporto teso e attivo; questo vale tanto per le esperienze mediamente gratificanti (quali sono appunto lo sport o la vita in montagna) quanto, a maggior ragione, per l’affinamento del proprio patrimonio interiore.

Con il tempo, il termine “ascesi” (che, a rigore, deriva dal greco àskesis cioè “esercizio spirituale”) è impropriamente ma progressivamente venuto assimilandosi a quello più quotidiano di “ascensione”: in questo senso il “tirocinio spirituale e fisico” (che, “attraverso il digiuno, l’isolamento e la preghiera, procurano una crescente perfezione interiore dovuta al distacco dal mondo e dagli istinti più semplici”) è una sorta di un distacco in salita, una scalata intrisa di rischio e di difficoltà.

Il concetto di “ascesi” implicherebbe così una salita faticosa, per aspera.

Nella storia dell’uomo la montagna è un traguardo che si espugna: questo esercizio consente di raggiungere diverse forme di contemplazione fra le quali perfino la più estrema, l’estasi.

Da quando, qualche anno fa, Reinhold Messner ha scalato, una via l’altra, dodici vette sopra gli ottomila metri addirittura senza quel respiratore che di solito si usa alle alte quote, egli intrattiene con l’umanità un rapporto di superiorità (superbia?) in termini fisici e perfino culturali. Probabilmente la sensazione di superiorità gli deriva dall’aver visto più in alto, dall’alto e comunque più lontano.

La discutibile ma radicata convinzione che le popolazioni alpine dispongano di limitate prospettive, sotto ogni profilo, può essere connessa al fatto che essi sono sempre stati immersi e “chiusi” tra montagne.

Quei pochi che sono riusciti a salire hanno visto molto più in là.

I monaci più lontani dal mondo (come quelli tibetani) vivono stabilmente alle grandi altitudini per coltivare lo spirito, distaccarsi gradualmente dalla materia, intuire e compenetrarsi con le entità trascendenti e contemplare lo spettacolo della natura: con la loro conquista quotidiana dell’altezza essi sembrano appunto dimostrare la parentela metaforica dell’ascesi con l’ascesa. Ai monasteri si giunge dopo aver affrontato eterne gradinate, avendo scalato picchi verticali e risalito vallate scoscesissime.

Certo, la cultura classica è permeata di rispetto per la montagna: Prometeo è incatenato a una roccia e su di lui volteggia l’aquila. Se qualche entità poté divenire simbolo di potenza essa fu appunto l’aquila, cioè quell’animale montano in grado di librarsi il più alto possibile.

In fondo, la propensione a guardare in alto si manifesta negli individui più attenti, più sensibili e anche più colti spiegando, in un certo senso, il motto che ho trovato una volta sull’ex libris di un pensatore: ”più salgo più valgo”. Concettualmente, questo è assai più nobile del prosaico detto contadino ”guarda il monte, resta al piano”.

Per commentare l’impellenza di salire, che ha evidentemente profondi addentellati con la natura umana, anche la cultura biblica fa riferimento a una metafora sulla montagna: in questo senso la torre di Babele costituiva il trionfo delle irriverenti (ma quanto affascinanti!) risorse umane nel tentativo di raggiungere la volta celeste. In carenza di montagne sufficientemente alte, l’uomo immagina addirittura che si possano costruire edifici alti come montagne e che tocchino il cielo: salendo alla loro cima ci spogliamo dei legami transeunti con la nuda terra cui siamo destinati.

Riflessioni concernenti l’edilizia rurale.

Molti luoghi montani devono gran parte del loro fascino al fatto di essere fortemente caratterizzati e diversificati, di possedere cioè un volto preciso e delineato che li rende immediatamente riconoscibili. Qualsiasi visitatore può percepirne sinteticamente l’omogeneità e la peculiare uniformità.

Tuttavia non è facile evidenziare i singoli elementi che contribuiscono a determinare in modo univoco l’identità dei luoghi abitati.

In tal senso, i materiali di antica tradizione, localmente estratti e lavorati nel corso dei tempi passati, sicuramente sono fra gli ingredienti costitutivi più facili da comprendere.

Comunque, l’identità locale è sicuramente il frutto dell’interazione di questi materiali con il progetto, più o meno consapevole, che se ne è servito e, soprattutto, con la storia del progetto. In altri termini, il progetto locale ha stabilito nel tempo le forme e i modi attraverso i quali i materiali hanno potuto essere trasformati e finalizzati in elementi costruttivi e quindi applicati nella edificazione locale secondo precise regole e perfino secondo determinati stilemi: questa ne è stata caratterizzata fortemente, univocamente e in modo riconoscibile. In questo senso, più che di un progetto collettivo possiamo parlare di un progetto inconscio: gli elementi che ho ricordato sono infatti relativi alla formazione dell’identità locale solo in termini spontanei e perfino casuali. Se, in un certo contesto, c’è un determinato materiale a disposizione e solo quello, è evidente che esso è destinato a caratterizzare fortemente il luogo. Col procedere del tempo (e perciò della esperienza), il progetto si appropria di quelle materie disponibili e codifica gli elementi costruttivi che diventano stilemi ricorrenti.

A questo punto il progetto diventa collettivo: quando cioè tutti gli operatori locali (dai capimastri ai singoli autocostruttori) concordano nell’aderire a questo linguaggio codificato ovvero quando tutti accettano di riconoscersi in un luogo con determinate caratteristiche, da quel momento in poi il paesaggio urbano corrisponde a un progetto collettivo che, per definizione, è in progress, cioè predisposto ad arricchirsi di ulteriori elementi, a modificarsi e ad affinarsi.

Tutto ciò premesso, gli elementi che consentono di connotare in modo specifico la realtà edilizia di un determinato comprensorio sono perciò fondamentalmente legati all’antica e stratificata storia dei materiali locali e della loro lavorazione.

La continuitá espressiva e l’evoluzione dell’uniformità dei luoghi.

Se è comunque legittimo chiedersi in cosa consista realmente la “continuità espressiva” di un luogo, compete comunque al progetto di stabilire, di volta in volta, quali elementi di un contesto debbano essere conservati nelle progettazioni successive o nelle evoluzioni del contesto stesso.

Se un centro abitato è caratterizzato dall’utilizzo di una certa pietra che, per un qualsiasi motivo, non può più essere cavata, o si reperirà una pietra consimile o, semmai, si introdurrà un nuovo componente, anche molto trasgressivo, che da quel momento in poi diventerà esso stesso caratterizzante.

Nella pianura lombarda si è costruito per millenni usando quei ciottoli di origine glaciale che si trovano per i circa cinquecento metri del suo spessore: eppure, a partire da un certo momento (da quando gli abitanti di quella regione hanno saputo cuocere facilmente ed economicamente le argille), molti manufatti edilizi sono stati costruiti in muratura di mattoni. Per la verità, intere città sono state costruite con questa tecnica che non era quella originaria. L’introduzione del mattone in sostituzione della pietra ha fortemente modificato il paesaggio specifico percepibile.

Per quanto concerne la problematica della continuità espressiva dei luoghi sono solito suddividere i casi a seconda che si tratti della manutenzione più o meno straordinaria del patrimonio edilizio esistente ovvero che si tratti del restauro critico di un edificio significativo ovvero infine che si tratti di nuova edificazione: ciascuno di questi comporta scelte progettuali differenti.

Nella manipolazione del cosiddetto patrimonio edificato (che io considero una sorta di creta che può essere infinite volte riplasmata e rimodellata, così come è stato fatto indefinite volte nel corso della storia) ammetto che determinati stilemi possono essere spostati in luoghi diversi del corpo edilizio conservando in luogo, filologicamente, materiali tradizionali salvo qualche piccola trasgressione dettata più che altro da necessità tecniche o prestazionali (come l’inserimento degli impianti di riscaldamento con relative canalizzazioni e fumaioli). Il restauro critico è una versione particolarmente restrittiva di questo modo di procedere, attenta alla valorizzazione di tutti i dettagli significativi che il corpo edificato manifesta: questo tipo di procedimento comporta la modificazione delle parti più o meno incongruenti per la necessità di mettere in evidenza l’oggetto nella sua autentica complessione storica. In questo tipo di restauro, tanto le finiture quanto i materiali sono esattamente quelli antichi e codificati.

Nel caso della nuova edificazione si tratta invece davvero di capire quali sono gli ingredienti tradizionali che possono restare per un numero congruo di edifici; si tratta infatti di sapere quali altri ingredienti ed elementi costituenti l’immagine possono essere modificati senza che il senso della riconosciblità dei luoghi si perda.

Nel gestire la continuità espressiva di un ambiente umano, così come l’abbiamo espressa all’interno di questi tre diversi casi, non credo che si possa più di quel tanto eccepire sul fatto che qualcuno comunque desideri ripetere fedelmente interi tipi edilizi affermatisi e codificati in passato. Nelle aree geografico-culturali nelle quali il linguaggio caratteristico dello châlet svizzero nelle sue diverse tipologie è chiaramente codificato, altri châlets possono essere infinite volte ripetuti con piccolissime varianti, sostanzialmente afferendo alla sola regola dichiarata come fondamentale e prioritaria: in casi simili l’intenzione di non sfoggiare da questo tipo edilizio è evidente.

L’effetto vernacolare non scatta con la semplice ripetizione pedissequa di tipi codificati; semmai esso scatta nel tentativo maldestro di riprendere quei tipi senza la necessaria filologia, indulgendo o addirittura caricando fortemente di significati determinate finiture che, oltretutto, non le sono proprie, cioè introducendo il lusso laddove la semplicità dovrebbe essere la regola, oppure introducendo finiture vernacolari all’interno di un’edilizia che, magari, inizialmente era semplicemente solo semplice.

In altri termini, la “vernacolarità” scatta col desiderio di riaffermare, costruendolo, un passato senza conoscere la chiave con la quale esso aveva potuto esprimersi in quella specifica maniera e solo in quella.

Vernacolare quindi è una cattiva, inesatta, infedele e mistificante ripetizione, condotta, fra l‘altro, nei luoghi dove non sarebbe stato neppure necessario rievocare il passato.

Consiglio la “ripetizione” a tutti coloro che non sanno progettare: così essi faranno il minore dei mali!

Va da sé che la capacità di progettare è la vera discriminante di questo modo di porre il problema.

Una delle principali cause della disgregazione degli antichi convincimenti locali (che, in certi tempi, erano anche particolarmente espliciti e radicati) è dovuta comunque al complesso di inferiorità introdotto nell’operatore locale dalla strisciante ed accattivante pervasività dei media, che hanno stabilito che tutto ciò che è contadino è imbecille e tutto ciò che non è borghese è intollerabilmente asfittico e riduttivo. La “modernità” è coincisa purtroppo solo con una operazione sistematica di demolizione di quello che non corrispondeva più al desiderio stesso di modernità. La modernità per la modernità, calata senza un progetto adeguato su realtà locali (magari apparentemente arcigne ma sempre dignitosissime), ha portato a preferire e perciò ad importare certe situazioni urbane rumorose, pacchiane e scomposte al posto di quelle: queste situazioni purtroppo non ebbero mai nulla in comune con una certa modernità davvero auspicabile.

Utilità di un manuale “a posteriori”.

L’utilizzo della pietra non basta per fare resistere le case nel tempo: occorre infatti l’intelligenza dell’uomo, del saper costruire. Non basta mettere una pietra sull‘altra perché entrambe si conservino inalterate; la prova è che dopo anni di disattenzioni per le abitazioni di tipo tradizionale si è giunti al decadimento fisico di molti luoghi straordinari. Anche gli “altri” fatti costruttivi, ancorché non strettamente legati alla poetica dell’abitare (alla quale normalmente dedichiamo maggiore attenzione), saranno utili alla ricostruzione dei fondamenti del sapere edilizio locale e della sua capacità di caratterizzarne i luoghi.

Viene così naturale di dover accennare a quello che io chiamo il “manuale a posteriori”: questo utile strumento deve racchiudere il sapere edilizio “codificato” localmente: un simile strumento è necessario per continuare ad aggiornare le regole di un rapporto stabilito tra l’uomo e l’ambiente con la mediazione della pietra.

Il “manuale a posteriori” dovrebbe consistere in una serie di tavole finalizzate a raccontare le peculiarità costruttive del sito ma anche le finiture esterne, l’arredo urbano: cioè tutto il sapere edilizio caratteristico di un contesto peculiare.

Questo sarà documentato sotto il profilo stilistico-compositivo, sotto il profilo costruttivo della tecnologia e dell’uso di quei materiali.

In quanto conclusione di quella parte di lavoro che coincide col cosiddetto metaprogetto, il manuale consiste nella interpretazione e nella lettura dei diversi casi edilizi, al fine di stabilire rapporti fra le superfici, i valori di aereoilluminazione e le proporzioni fra le parti del manufatto per poter estrapolare parametri da trasferire nei futuri regolamenti edilizi: esso dovrebbe contenere informazioni di natura dimensionale e costruttiva, cioè di natura tipologico-edilizia; esso evidenzierà poi aspetti tipologico-distributivi, come il rapporto esistente fra i diversi piani e l’organizzazione degli ambienti, tra un ambiente e l’altro, il soleggiamento e la conformazione dei luoghi.

Ogni luogo ha le sue specifiche esigenze sia espressive che tecnico-igieniche: le condizioni di soleggiamento, di ventilazione e persino la distanza fra le case possono infatti incidere sulla salubrità degli edifici.

Se pure è vero che gli edifici maggiori sono esclusi dalla trascrizione nel manuale, per le mutate condizioni economiche della popolazione l’edificazione abitativa odierna potrà rifarsi ai modelli edilizi più elevati del passato.

Cascina Boscaccio (Gaggiano, Milano).
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