Racconto di Natale

UCTAT Newsletter n.73 – dicembre 2024

di Vanna de Angelis

C’era un problema? No, non c’era nessun problema, perché avrebbe dovuto esserci? Ci rifletteva allacciandosi la cravatta: nessun problema in quei giorni di Natale. Sono per me giorni qualsiasi? Con uno scatto orgoglioso rialzò il mento accuratamente rasato per sistemare davanti allo specchio la cravatta, che il nodo sia in linea con il pomo d’Adamo, ecco, al millimetro. No, e lo disse a voce alta, non sono affatto giorni qualsiasi. Si infilò il gilet, la giacca, si fermò davanti alla finestra, mani in tasca, a tener d’occhio il cielo plumbeo. Proprio per niente giorni qualsiasi. Che cos’era venuto in mente al vicino, sempre affollato di cani e bambini, di buttargli lì ieri, ventitre dicembre, con un mezzo ghigno due paroline acide acide: tanto per lei sono giorni qualsiasi questi, no? Poveraccio, un poveraccio sempre con la lingua di fuori. E con la faccia da invidioso. Lui e la moglie lo avevano invitato alla cena di Natale l’anno prima, si erano appena sistemati nell’appartamento di fronte, a portar casino. Lei che è solo, gli avevano detto, venga da noi. Solo che cosa? Solo a chi? Come si erano permessi, i due ficcanaso? No grazie, e glielo aveva detto subito, no grazie proprio no, gli era anche scappato un tono di sussiego ‘ma per carità’. Forse si erano offesi. Risultato: tanto per lei sono giorni qualsiasi. Ma che vada a quel paese. Come se per lui, quei giorni lì, fosse una colpa celebrarli a modo suo senza perdersi in birignao natalizi con chissà chi, auguri, auguri e auguri, auguri di che cosa poi in ’sto sciagurato pianeta divorato da un branco di infami?

Gli arrivò l’obliqua occhiata della moglie del vicino, quella che aveva proprio un bel sedere, un’occhiata fin sotto la visiera del basco mentre stava uscendo di casa e riaprì subito la porta, andò a guardarsi nello specchio per lisciarsi i baffoni, non ancora bianchi, no, proprio per niente. E il basco, con sotto quei suoi occhiacci neri, quel basco gli dava una cert’aria gaglioffa. Si sorrise. In strada un’aria irrespirabile in tutto quello scodinzolare di festose luci intermittenti, è Natale, è Natale, oh Signore questa puzza mi ammazza e si sentì vecchio di mille anni come se l’immagine nella solita vetrina non gli rimandasse, come sempre,  all’incirca un bel tipo. O almeno…

Il ristorante era il Nevermore. Ci andava tre volte all’anno: la sera del ventiquattro dicembre, il mezzogiorno del venticinque dicembre, ma anche il quattro di ottobre, sempre il quattro ottobre a cena, il proprietario del Nevermore glielo aveva chiesto che c’entra il quattro ottobre. Era un segreto, il mio segreto, il mio strepitoso segreto. Ricorrenza da non rivelare a nessuno. Tutta sua. Sì, il proprietario era proprio un amico, ai tempi avevano giocavano insieme a calcetto a sei. Anche stavolta gli aveva fatto preparare, come ogni anno, il solito tavolino in fondo a destra, un menù da leccarsi i baffi, prezzo di assoluto favore poi un brindisi insieme, dopo cena. E ci vediamo domani, come sempre, come al solito, e se vuoi anche a Capodanno, gli diceva l’amico, fai uno strappo invece di chiuderti in casa di fronte alla tele in solitaria. Una volta gli aveva detto: ma scusa, con tutte le donne che ti sei portato a letto, manco una con cui passare le feste? Lui aveva scosso la testa sfoderando altero quel suo sorriso difficile, il sorriso di uno che le donne le aveva sempre piantate lui: appena sentiva odore di mi sono innamorata di te, no grazie, e tagliava la corda.

Che sorriso!

La chiesa era girato l’angolo. Ogni anno, dopo il Nevermore, c’era ad attenderlo la messa di mezzanotte con tanto di organo, musica celestiale, musica che ti culla, se ne stava all’ultimo banco a occhi chiusi lui, beato ad ascoltare, e non c’entra crederci o essere ateo, non c’entra niente. Intendiamoci va così solo da un po’ di anni, neanche tanti perché prima, in quei giorni lì compreso Capodanno, si svegliava minimo a Bali, l’ultima volta addirittura chissà dove, freddo cane e corsa con le renne sulla neve alta due metri, altro che babbo natale!

Quando rientrò, ed era notte fonda, e solo allora gli frullò per la testa che a quella giornata del ventiquattro dicembre era mancato qualcosa. Qualcosa che gli altri anni c’era stato. Solo a letto si ricordò: la solita telefonata di Marilena, al mattino. Lei questa volta non gli aveva telefonato. Ogni anno gli telefonava e gli diceva: dài, passiamo questi due giorni insieme, sono sola anch’io. E lui, gentile ma fermo: no. No Marilena! Sorrise tra sé: così mite, lei, così mite con quegli occhi imploranti amore e le formidabili tette! Ma lui alla larga: con Marilena proprio no. Come mettere il piede in una tagliola. Colleghi di lavoro per anni e stop.

Si addormentò soddisfatto.

Che cosa gli accadde la mattina dopo, quando aprì gli occhi, e perché gli accadde, non lo capì mai. Appena si accorse di essere sveglio si sentì raggelare. Una botta di incomprensibile paura, così violenta da soffocarlo. Sedette di slancio aggrappandosi al letto, annaspando, il cuore che gli rimbombava nelle orecchie, il fiato corto. La stanza era quella di sempre. Lui no. Per niente. Inaspettatamente si ritrovava sul bordo di un abisso, e ci impiegò un bel po’ a rendersi conto che l’abisso era la giornata che aveva davanti, proprio quel venticinque dicembre che gli stava rivelando le sue immense fauci vuote. E lui era lì, terrorizzato di precipitarci dentro.

Ventiquattro ore di vuoto. Ventiquattro ore di nulla. Il deserto.

Solo dopo, seduto al bar sotto casa, davanti al solito caffè doppio e alla solita brioche alla marmellata d’arancio, solo dopo poté vagamente dominare l’angoscia, e  finalmente l’unica cosa che gli riuscì di capire di se stesso è che aveva una dannatissima voglia di telefonare a Marilena e di chiederle di pranzare con lui al Nevermore. Sì, vado a prenderla e pranziamo insieme. Certo non le avrebbe detto che gli era intollerabile ritrovarsi da solo. Così, all’istante, senza più chiedersi che diavolo gli stesse capitando cavò di tasca il cellulare e la chiamò, Marilena,  e appena la sentì dire pronto, con quella sua vocetta acuta da topino delle fiabe, lui… incredibile, eh? Lui si sentì subito meglio.

Durò poco.

Il parco era deserto. Neanche quelli che portano fuori il cane. C’era solo lui. Accasciato su una panchina. La panchina  della desolazione. Gomiti sulle ginocchia, faccia tra le mani, avrebbe fatto meglio a metterle sulle orecchie per non risentire Marilena che gli diceva di essersi sposata, da più di un anno viveva a Madesimo, un marito adorabile, sì, proprio adorabile. E poi, come non bastasse, aveva aggiunto: stavolta sono io a dirti di no, ne hai detti talmente tanti tu…

Ecco com’era andata.

Ma dannazione, singhiozzò tra sé e sprofondava ancor di più la faccia tra le mani, gelando su quella panchina,  dannazione non erano forse tutti giustificati quei no che gli si precipitavano  addosso? No alla povera Marilena e alla sua sfacciatissima voglia di anello al dito, no a quei vicini ficcanaso che poi te li ritrovi tutti in casa cani e bambini compresi, no a quel poveraccio del custode della biblioteca fissato con l’inglese, no alle sorelle smaniose di farsi i fatti suoi, no a quella poveraccia di Vincenza con le sue ubbie religiose, o a quell’altra poveraccia di Emilia con la sua fissa per le Egadi, e poi no a Rosa e no a Valeria e no a Luisa e a tutto lo stuolo delle tipe che una volta entrate nel suo letto puntavano i piedi per non uscirne, e no a…

«Signore, scusi, sta dormendo?»

Abbassò le mani ma non alzò lo sguardo. Davanti a lui due scarponcini scalcagnati, calzerotti rossi, jeans, e risalì con lo sguardo al giubbotto rosso, scalcagnato pure lui, e infine al sorriso, agli occhi gioiosi, al ciuffo di capelli che sfuggiva dal berretto. Una gagnetta, sì, una gagnetta, e dietro di lei, poco distante, un gruppetto di ragazzini che seguivano con attenzione ogni parola.

«Non sto dormendo…», farfugliò.

«Ecco praticamente…», la gagnetta rideva, allegra e timida, allegra e imbarazzata, ma rideva, «… noi abbiamo fatto una scommessa, ecco, stiamo qui di fronte, in quella casa grande lì dai nonni, siamo un gruppo, e io ho perso la scommessa e adesso sto facendo pegno e il pegno…»

«Il pegno?»

«Il pegno è che devo andare al parco, e sono qui, per cercare qualcuno, un poveraccio, che l’ho trovato ed è lei, un poveraccio che è da solo…», e rideva tutta soddisfatta,  «… e invitarlo a pranzo, da noi, qui di fronte, a casa nostra, oggi è Natale, ecco, abbiamo fatto anche un mucchio di polenta e roba buona…»

Lui zitto. «Allora? Allora ci viene…», la gagnetta rideva, pregustando il risultato, «… sì o no? Sì?»

Auguri di Paolo Aina.
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