UCTAT Newsletter n.67 – maggio 2024
di Paola Aina
Era il tempo in cui sventolavano le bandiere rosse e tutti credevamo che il mondo potesse cambiare quando mi sono iscritto alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.
Io, piccolo liceale, non capivo pressoché nulla delle posizioni politiche, di che cosa fosse l’architettura e del gergo architettonico con cui veniva illustrata.
Mi ero iscritto perché ero affascinato dalle pratiche della costruzione e dall’infinità dei modi con cui un edificio poteva essere messo in opera.
Fui fortunato ad incontrare il Prof. Portoghesi e ancora più fortunato ad aggregarmi, con altri, ad una ricerca con un nome da far tremare le vene ai polsi, la costruzione di un’antologia “Strumenti della cultura marxista per la critica architettonica e urbanistica”.
I contatti con il Professore erano abbastanza frequenti e le spiegazioni e i discorsi che si instauravano erano per me una bussola per orientarmi, una mappa per capire qualcosa del mistero dell’architettura e delle sue speranze salvifiche.
L’antologia riportava stralci dei testi dell’Olimpo marxiano: Marx (ovviamente), Trotsky, Lukàcs, Mao Zedong, Della Volpe, Lenin e altri, di artisti che avevano partecipato alla rivoluzione: Majakovskij, i Costruttivisti, Rodčenko, Stepanova, ecc.
Mi toccò Lenin, ne lessi una parte (piccola), e per quanto mi permetteva la mia ignoranza di matricola ne estrapolai qualche pagina.
La ricerca fu pubblicata, nelle migliori tradizioni dell’epoca in ciclostile, una dispensona in formato A4 con pagine bianche, gialle, grigie difficile da maneggiare.
Paolo Portoghesi mi aiutò molto ad ampliare i miei orizzonti culturali; la sue storie sugli architetti e e le architetture che ascoltavo quando faceva lezione mi affascinavano di più dei libri di M. Tafuri sempre sull’orlo del baratro.
Mi sembrava che la storia dell’architettura nella versione del Prof. Portoghesi avesse dei tratti più umani e più vitali.
Alla fine del mio percorso universitario però mi restò il dubbio leniniano: “Che fare?”
Questa perplessità la risolsi in parte ancora grazie a Paolo Portoghesi quando come Presidente allestì nel 1980 la Biennale di architettura veneziana dal titolo: “La presenza del passato” e La strada novissima all’interno delle Corderie dell’Arsenale.
Capii finalmente perché valeva meglio un atteggiamento di tolleranza, un atteggiamento di inclusione e di apertura che non il settarismo di una visione totalitaria.
Fui abbagliato dalla vista del Teatro del mondo di A. Rossi e dal suo arrivo alla punta della Dogana. Ci vidi anche una piccola rappresentazione.
La sera della stessa giornata il Presidente della Biennale organizzò una cena in un ristorante sulla punta meridionale dell’isola del Lido, a Malamocco già il nome: Malamocco, mi faceva pensare a qualcosa di lontano, qualcosa sperduto chissà dove, naturalmente non era vero scoprii dopo che il luogo aveva una storia antica ed era sempre stato lì quasi nello stesso posto fin dai tempi dei romani.
Ci andammo in motoscafo, la notte era bella e si vedevano le stelle.
Mangiai, sospettoso ma incuriosito, per la prima volte le moeche e grazie a quelle ma soprattutto grazie a Paolo Portoghesi mi resi conto finalmente che lo scopo del fare l’architetto è quello di far sì che le opere di architettura devono essere progettate e costruite per sviluppare una vita bella, per rasserenarci e per metterci in contatto con la tenerezza di quel mondo dove abbiamo avuto la sorte di nascere.

