UCTAT Newsletter n.65 – marzo 2024
di Marino Ferrari
Oggetti di transizione: formula rubata ed estrapolata da Deleuze in una intervista su capitalismo e schizofrenia (macchine desideranti, ombre corte), nella quale, appunto definisce il capitalismo una formidabile macchina desiderante. Tutti i prodotti di questa macchina sono prodotti del desiderio ed aggiungo per il desiderio. Il bisogno è un desiderio ovvero il desiderio: il desiderio si trasforma in bisogno. La spesa quotidiana, legata al consumo alimentare, soddisfa un bisogno immediato e la durevolezza dell’alimento esula dalla sua durevolezza: non è un oggetto che prende forma e con quella forma ci “comunica” la sua essenza dialogando astrattamente con le nostre patologie. La transizione si avverte sia dentro il consumo, che per definizione significa spreco, ma anche necessità di perpetrare la presenza dell’oggetto nel soddisfacimento di una necessità: la matita quando si consuma nella scrittura va sostituita anche se prima si è dovuta ri-fare la punta che, appunto si è “consumata”.
Il bisogno si esprime con la materialità, l’oggettivazione; si riconduce all’atto materiale, ad una forma che soddisfi immediatamente quel bisogno. E qui si può filosofare, ovviamente ed anche questo apparirebbe come un bisogno: il bisogno di esternare, di raccogliere consenso con una presunta verità che si vuole affermare. La forma del pensiero risiede nel concetto, nel principio.
Ogni bisogno ha una forma, si forma, prende materialità ed occupa uno spazio[1]; la dimensione dello spazio non corrisponde necessariamente alla “dimensione del bisogno”. Non necessariamente un bisogno si manifesta in uno spazio piccolo, ovvero non vi è corrispondenza proporzionata tra la natura del bisogno e la sua materialità.
Desiderare un panino non significa desiderare un forno per la panificazione. Quale è dunque la differenza? Ovvero quali differenze occorre agire nella distinzione delle forme e dei relativi bisogni? Distinguendo innanzitutto il bisogno reale dal bisogno indotto.
Il bisogno reale è quello legato strettamente alla nostra esistenza,.
Il bisogno indotto è suggerito dal contesto sociale, dalle mode, dalla rappresentazione dell’immaginario collettivo, come quello della edificazione avulsa da ogni tradizione, da ogni appartenenza. Per questo, accompagnato ed anzi sostenuto dal processo articolato della metamorfosi urbana, il “grattacielo”, come tutti gli edifici concepiti per occupare poco suolo aumentando di fatto la sua antropizzazione, ci viene proposto semplicemente come oggetto della meraviglia; oggetto sostanzialmente inutile al soddisfacimento dei bisogni collettivi ma espressione pura dei processi economici e speculativi. Oggetto ovviamente avulso da ogni partecipazione e decisione “collettiva”. L’edificio alto che si staglia nel cielo confondendo e modificando la linea che determina la fine di un paesaggio e l’inizio di un altro, anche se oramai celebrata in vario modo, di fatto è una espressione formale di un processo intellettuale che, come tale, si dissolve in breve tempo. Il suolo rimane gravato, contaminato, improduttivo definitivamente. L’oggetto rimane. E qui, la storia dell’uomo ci è veramente di insegnamento.
La città essa stessa è forma del bisogno, mi capita di affermare; e se un tempo il granaio rappresentava “il bisogno condiviso” prodotto dalla partecipazione collettiva, da una decisione politica sia pure minimalista ma necessaria alla sopravvivenza, gli oggetti urbani con le loro forme e gli spazi occupati negano questo principio elementare. Gli oggetti prodotti dalla grande speculazione immobiliare sostenuta da quella finanziaria sono l’espressione pura della inutilità sociale. Ciononostante, si persevera nella ricerca formale introiettando sprazzi di consapevolezza e discernimento attorno e dentro la “forma delle abitazioni” sia pure tenendone discretamente separate le necessità commerciali. Lo spazio abitativo, se tale deve essere, ha il suo distinguo nell’utilizzo, nella fruizione. Spazi essenziali ma fondamentali, spazi rappresentativi e in gran parte non utili se non ancora una volta per rappresentare una stretta condizione sociale; quella che ci viene propinata dalla variegata pubblicità. Come tali le loro forme si “manifestano” in modo diametralmente opposto. E purtroppo siamo lontani, ma forse estraniati, da un approccio sia pure faticoso, verso un ambiente equilibrato, improntato al respiro percettivo nel recupero di quella spiritualità(laica) che possa realmente condividere le necessità e le memorie del rapporto naturale con l’ambiente. Di questo, va da sé, si parla per slogan, con le pozioni di consumo e di luoghi comuni. E di conseguenza si ritorna, se mai ci fossimo allontanati, dal ruolo del progetto e dall’impegno dei suoi “manifattori”. Figure consunte che sostengono non l’idealità ma la materialità e checché se ne dica, viviamo in un materialismo puro, non dialettico, ma puro, fatto di molecole ed atomi che si confondono oramai con quelle dei nostri organismi. L’abitazione si insiste con affrontarla dentro alle forme organizzative come se queste forme potessero esprimersi distillate dai condizionamenti esterni, strutturati, manichei; le forme della tipologia. E ci mettiamo anche le dogmatiche ricerche universitarie. Quale tipologia? Quella del lavoro liberato o quella del lavoratore libero da ogni l’affanno e vincolo materiale.? Impossibile, viene da dire. Eppure, negando nella sua materialità il “grattacielo”, negandolo nella sua matrice ideologica e di conseguenza materiale, l’abitazione avrebbe un ruolo squisitamente sociale, prodotto da decisioni politiche. Che importanza può avere in una abitazione espressa dalle pubblicità immobiliari quando questa deve soddisfare le semplici, ancestrali, antiche e pur contemporanee esigenze? Una risposta perviene immantinente: l’apparato cultural ideologico che le accompagna, le scelte, rimane nelle menti e trasformato nei rendering dai cultori della materia edilizia oramai spacciata per architettonica con un pizzico di riferimento prosaico al design. Lontani sono i tempi nei quali, praticando il SAIE si potevano raccogliere contributi di grande interesse. Tutto sembra, ma lo è, volatilizzato.[2] Orbene, se l’abitazione è veramente e seriamente il luogo della raccolta e consumo dei beni materiali impropri o se si vuole indotti, se tutti gli oggetti che la “formano” e distinguono, occupano uno spazio, dunque è qui che occorre agire: da un lato selezionando i “materiali di consumo”, scardinando la loro residua organizzazione secondo i dettami del mercato, dall’altro formando le consapevolezze attraverso i corretti processi di partecipazione decisionale; percorso arduo, ovviamente. Ma se il grattacielo o l’edificio multipiano, inutile quanto effimero, non deve offuscare la vista delle catene montuose innevate o le marcite in via di sparizione, ebbene, gli architetti ed i pianificatori devono semplicemente smetterla di ingannare.
[1] Motivo per il quale le nostre abitazioni necessitano di spazi per accogliere gli oggetti del bisogno
[2] Politica edilizia in Gran Bretagna, Esperienze ed orientamenti dell’edilizia abitativa sovietica, Gestione del territorio politica e tecnologia edilizia in Francia, Casa e territorio in Scandinavia, Politica e gestione del territorio in Benelux, Per una nuova politica edilizia. Senza accennare alla autocostruzione.

