La forma dell’abitare

UCTAT Newsletter n.83 – NOVEMBRE 2025

di Marino Ferrari

Gli istituti autonomi per le case popolari redigevano capitolati puntuali che dovevano governare la realizzazione delle abitazioni destinate ai ceti meno abbienti. Partendo da qui possiamo intravvedere, storicamente, come la condotta per le costruzioni popolari avesse come principio informatore i “buon edificare”. Di seguito il buon edificare porta con sé che l’edificio apparisse bello in tutte le sue parti. Una bellezza che ovviamente si ritrova in tutte le “cose nuove”, per definizione, ma quelle popolari hanno manifestato un interesse differente dalle altre anche belle, ad esempio quelle assurte ad architetture, quindi non semplicemente una bella edilizia. Vi era nella loro progettazione un particolare interesse culturale ed anche accademico e forse ideologico: chi progettava le abitazioni popolari si nutriva di una visione specifica che potesse portare agli abitanti non solo un bene materiale ma anche uno spazio dignitoso e collocabile nella “giusta” visione del contrasto (contraddizione) di classe: una abitazione che superasse la distanza sociale, impossibile come si sa, da raggiungere. Nella realizzazione delle case popolari, che sono pur sempre abitazioni, passava e forse ancora oggi passa, il concetto che la produzione serve per dare dignità ai lavoratori ed alle loro famiglie partendo da ciò che è sempre stato il bisogno degli uomini, quello appunto di avere un riparo, un luogo dove formare la propria famiglia e crescere i propri figli. Ma in un “naturale” conflitto sociale e in particolare dentro le contraddizioni capitalistiche questo bisogno diventa il risvolto di una necessaria ed inviolabile rivalsa sociale. Nulla di nuovo, si direbbe ora ed è vero, solo che la gerarchia dei valori legati alla abitazione si è fortemente modificata, si è trasformata al punto di apparire (e, secondo me, lo è) un oggetto di scambio come la maggior parte degli oggetti di scambio. E si sa che, quando si scambia un oggetto (diciamo pure prodotto) questo si valorizza perché innanzi tutto attribuisce valore a chi lo ha prodotto e poi a chi lo scambia. L’abitazione a differenza della stragrande maggioranza degli oggetti non si muove mentre si muove il “mercato” che ne governa le sorti e quindi gli acquirenti dopo i costruttori ed in fine coloro che le abitano quasi per grazia ricevuta. Questa contraddizione governa il mondo dell’abitare nella stessa misura in cui vengono governati gli abitanti. Senza entrare nel profondo sia del mercato immobiliare, sia del mondo della produzione edilizia che implicherebbe, come già scritto in qualche parte, determinare la scomparsa (o morte) dell’architettura e lasciando il campo alla produzione edilizia  semplice e pura sia pure innovata e bella (appunto come tutti gli oggetti), quando si parla di abitare, necessariamente ed inevitabilmente appaiono due aspetti dominanti: quello relativo alla mancanza di abitazioni “popolari” ( vale a dire quelle che soddisfino il civile e indispensabile bisogno materiale in maggior misura) e quello relativo alla loro Tipologia. Capitò in qualche appunto di sottolineare che la tipologia abitativa deve mantenersi adeguatamente separata dalla contestualità abitativa e, per forzare la relazione, affermare che la collocazione abitativa nei luoghi (e poi se si vuole nei territori) può “stigmatizzare” non la tipologia abitativa stretta ma le sue “forme socializzanti”. Le abitazioni di relazione ai servizi estesi, le determinazioni tipologiche complessive (e complesse) in grado di costruire relazioni democratiche etc. Certo, sarebbe interessante praticare l’esperienza del Karl Marx Hof, senza cannoni di piccolo calibro, ma indubbiamente consegnata alla storia su basi politiche e con espressioni formali proprie dell’Architettura. E questo varrebbe anche per l’Unité D’Hbitation. Non sono in grado di giudicare queste esperienze estrapolate dalla loro storia per essere di seguito traslate ad altre classi sociali, che sarebbe oltretutto estremamente interessante proprio sotto il profilo sociale e politico, ma rimangono come esempio accademico e forse ancor più come esempio imitabile. Ma senza superare i confini e rimanere nell’ambito metropolitano, le esperienze dell’Istituto case popolari di Milano appaiono una esperienza in molti casi ancora viva proprio sotto gli aspetti legati al contesto sociale ed alle tipologie costruttive come pure a quelle abitative. Oggi si potrebbe ipotizzare, al fine di rendere maggiormente economico il processo di “distribuzione della ricchezza prodotta”, che si voglia una rivalsa dei lavoratori verso i processi produttivi alienanti e per l’occupazione alienante dei processi oramai sistemati fuori dalle fabbriche;  produrre in un ufficio vetrato con il paesaggio di altri uffici vetrati non sembra essere una forma liberatoria, e ancora per le molteplici forme di sfruttamento reale ( che si può anche definire diversificazione delle prestazioni lavorative strettamente unite alle individualità) pur all’apparenza mitigate dai comportamenti merceologici e dai contesti materiali. Gli interventi dello Iacp si sono caratterizzati partendo in parte dalle “condizioni igieniche” degli ambienti ma in particolare dalla diversificazione “sociale” delle aree di insediamento ( suolo urbano nella accezione del termine oppure suolo privato inurbato) che in definitiva rendevano distinta la città privata da quella pubblica portandosi appresso non solo la tipologia urbana ma anche ed in particolare quella pubblica, quella dei quartieri che ancor oggi resistono, delle case alte e delle case basse, dei villaggi giardino. In questi articolati approcci hanno avuto luogo, ad esempio, interventi specifici riservati ai dipendenti comunali  come interventi riservati ad alloggi ultrapopolari emarginati dal contesto urbano: comunque, proprio queste diversificazioni strutturali, che hanno caratterizzato fortemente l’urbanistica metropolitana, hanno rimarcato e sollecitato la “creatività” progettuale a sua volta condizionata dagli avvenimenti internazionali dell’Architettura, confrontandosi tra ricerca razionalista ed ecclettismo. L’aspetto che sembra caratterizzare le forme razionalistiche riconduce alla razionalizzazione tecnologica, alla distribuzione intelligente dei servizi igienico sanitari: ancor oggi si ritrovano ad esempio, “complementi igienici” attualizzati dalla modernità ed inseriti in tutte le tipologie. La razionalizzazione tipologica porta inevitabilmente alla razionalizzazione costruttiva, alla prefabbricazione edilizia oltre alla standardizzazione dei processi che attualmente appaiono assestati sulla industrializzazione impiantistica. L’approccio progettuale dovrebbe esulare dall’approccio per modelli lasciando spazio alla ricerca-soluzione tra tipologia abitativa e relazione costruttiva tenendo conto, ovviamente, dei limiti insiti nella organizzazione complessiva dei processi. Senza entrare nei meandri della così detta architettura che, per quanto concerne le abitazioni “popolari o economiche” ha sviluppato tutto il suo potenziale ed il potenziale proprio della tipologia abitativa, i caratteri sin dalle prime abitazioni non fanno altro che ciondolare attorno alle inevitabili “zone giorno e zone notte” le cui dimensioni dipendono dalla quantità degli abitanti; mi piacerebbe aggiungere anche dalla loro qualità. Le abitazioni per le quali si sono e si continuano a sviluppare ricerche accademiche, che alla fine eludono la loro vocazione perdendosi in quelle semplicemente immobiliari e speculative, alla fine riconducono il tema al vero problema, ovvero la mancanza di abitazioni per i ceti meno abbienti e per quelli che hanno perso la loro dignità. Sulla tipologia vera e propria la determinazione si conclude nella definizione: oggi più che mai la relazione ambientale (non entro nell’uso del termine ma solo per dire che il problema esiste) è la vera tipologia abitativa. Risalendo a tutte le esperienze si nota che la relazione “ambientale” di fatto si affatica nella relazione contestuale, si manifesta come sempre nella forma dell’architettura, nella sua esternazione. La tipologia costruttiva, per definizione, può venire standardizzata nei processi e nell’utilizzo dei suoi componenti. Si dirà certamente che tutto si fonda sulle volontà politiche. Sulla abitazione in quanto tale mi piace ribadire che è un prodotto del sistema e come tale si muove dentro il mercato, il quale a sua volta ondeggia sulle spinte dei flussi economici; l’abitazione è un contenitore di oggetti ai quali oltre alla funzione viene aggiunto un valore economico che si sporge oltre il reale “costo di produzione”, è un prodotto ricco di significati e di significanti che inducono importanti riflessioni filosofiche. Motivo che rende distinta inevitabilmente l’abitazione economica e popolare da quella “signorile” la quale in tutti i sensi ed a sua volta, induce processi di emulazione e di imitazione proprio attraverso le forme dell’abitare. Ho l’impressione convinta che l’abitazione sia l’espressione più significativa della forma dei bisogni, l’involucro che è contenitore delle relazioni umane con gli oggetti che lo formano.

Dal Film “Mamma Roma” di Pier Paolo Pasolini, 1962.
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