La qualità della città costruita

UCTAT Newsletter n.22 – aprile 2020

di Paolo Aina

In questo periodo posso vedere, da lontano, le città senza abitanti e conoscerle in modo diverso e con più attenzione.
Giro per la città come in un museo, gli edifici nuovi si mescolano a quelli vecchi, l’accostamento mi porta a pensare che lo sviluppo delle nuove tecnologie edilizie non sempre si trasforma in un progresso per l’abitare, il lavorare e l’incontrarsi.
La prima considerazione che viene da fare è che i vecchi edifici collaboravano a formare un ambiente cittadino dove la singolarità architettonica era data dalle decorazioni: portoni, cornici alle finestre, balconi, pietre per i basamenti e altre consolazioni.
I nuovi edifici, in ottemperanza a una concezione della modernità come assenza di qualsivoglia sollievo, si presentano come scatole e imitano la forma di qualsiasi oggetto che non sia una casa; ci sono navi, astronavi, carceri vetrate e così via.
È faticoso vivere in qualcosa e tra qualcosa che non ha nessun particolare su cui fantasticare ma si presenta sempre nella sua pesante interezza.
Certo le nuove prestazioni per il riscaldamento e il raffrescamento sono migliorate e molto importanti; l’attrezzatura impiantistica diventa sempre più complicata tanto che si sono sviluppati filoni di lavoro prima impensabili: c’è chi accende, c’è chi spegne, c’è chi raffresca e chi riscalda; nessun abitante è più in grado di gestire la complicazione nel caso vada in default. La mitica centralina ha sempre problemi imprevisti.
Tanto si è costruito e ancora si continua a costruire, raramente si demolisce qualche edificio per sostituirlo con qualcosa di più appropriato; le vecchie case, anche le più povere, paiono più accoglienti: forse è il tempo trascorso dalla loro nascita che ce le ha rese intime come i nostri famigliari, forse è il fatto che sono sempre state abitate a rendercele care, forse è la maggiore percezione del lavoro umano che è servito per fabbricarle che ce le fa amare.
Penso alle scale con lo stucco che imitava il marmo, i corrimani e le ringhiere con qualche piccola eleganza, le porte in legno scuro a riquadri e non in un’unica lastra di laminato. 
Gli interni con la cucina separata, gli spazi privati singoli, gli spazi collettivi ampi ma suddivisi tra le varie funzioni o, per usare l’architettese, polifunzionali, i locali con altezze maggiori, finestre con gli infissi in legno e i pavimenti con disegni generati da piastrelle colorate o dalle pose del parquet.
Spazi collettivi non solo nelle singole abitazioni per ogni famiglia ma anche per l’insieme degli appartamenti come i cortili o i ballatoi, oggi raramente presenti, perché simili sistemazioni sono declinate non per una qualche volontà maligna ma per il mutare degli stili di vita.
È altrettanto vero che la mancanza favorisce l’oblio e il rimpianto, seppur ammantato di approfonditi studi e analisi storiche non ne può riesumare i cadaveri.
Imparare dall’esistente per reinterpretarlo alla luce delle nuove esigenze della vita è un compito delicato che cammina tra due baratri: la nostalgia e l’autoritarismo.

In ogni caso alla domanda se valga la pena riabilitare il patrimonio edilizio io credo si possa solo rispondere affermativamente; mi domando con un po’ di snobismo: sarebbe accettabile vivere in un ambiente sempre luccicante, lindo e asettico come l’Enterprise ma senza la velocità di curvatura?
Occorre però distinguere tra i vecchi edifici, non sono tutti uguali per il modo con cui sono stati costruiti, per le concezioni progettuali che li hanno generati e per i materiali impiegati per edificarli.
Penso agli edifici degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, al dibattito architettonico sul fatto che la costruzione dovesse mostrare la “verità” della struttura e a come questo assunto visibile con pilastri e travi sulla facciata si sia manifestato anche all’interno con le tracce scure che apparivano dopo un po’ di tempo e dopo il freddo dell’inverno generate dalla condensa dell’umidità interna per l’esistenza di ponti termici.

Non nascondiamoci i difetti delle vecchie case anche quelle meglio costruite: le loro scarse prestazioni, soprattutto dal punto di vista energetico, anche se questo difetto per l’ambiente esterno si mostra un pregio per i luoghi chiusi (gli spifferi favoriscono il ricambio naturale dell’aria interna), le loro finestre piccole e le camere in penombra anche di giorno, spesso un solo piccolo servizio igienico e così via.
Un buon esempio di questa descrizione è il film “La famiglia” di E. Scola dove la vita famigliare è raffigurata nell’appartamento di un vecchio edificio.
Le nuove costruzioni hanno quasi sempre eliminato questi difetti, ciò che le penalizza maggiormente è la riduzione degli spazi, la programmatica mancanza della possibilità di appartarsi, l’angolo cottura che sparge gli odori dappertutto e la classe energetica che consiglia vivacemente di non aprire le finestre per non decadere dal suo valore progettato con grande competenza da professionisti tetragoni e ossificati su procedure che escludono l’incertezza e la tenerezza del mondo.

Milano, Quartiere Regina Elena / Mazzini, piazzale Ferrara (G.C. 2019)