UCTAT Newsletter n.21 – marzo 2020
di Paolo Aina
“…gli uomini vanno e si raggruppano nella città per vivere e ci rimangono per vivere la bella vita”. (Aristotele, Politica)
La costruzione delle periferie nel Nord Italia ha avuto come sirena l’apertura di molti posti di lavoro durante il decennio tra gli anni ’50 e ’60.
Le nuove edificazioni erano e ancor oggi sono, conformi ai dettati generali dell’urbanistica del movimento moderno: case separate e ampi spazi a verde, qualche negozio e un edificio religioso. Il raggrupparsi non era propriamente “formare un gruppo” ma piuttosto una vicinanza spaziale in un luogo molto diverso da quello da cui si proveniva.
Chi arrivava da una città consolidata anche piccola “Piena di strade e di negozi e di vetrine piene di luce” si trovava a disagio in una configurazione dello spazio fatta da case distanti e come si dice tuttora “immerse nel verde” senza le attrattive cittadine che allora come ora sono situate lontano.
Chi veniva da una situazione non propriamente cittadina era a disagio per la diversità delle forme architettoniche delle abitazioni e degli edifici con cui veniva a contatto.
I bambini di città si trovavano bene perché non avevano ancora avuto il tempo, per la giovane età, di abituarsi alla sua spazialità e potevano scorrazzare nello spazio libero senza grossi problemi; chi veniva dalla campagna non aveva nessun motivo di cambiare abitudini: lo spazio libero era attraente, senza recinzioni e senza pericoli.
Resta aperta una questione. Qual è la bella vita che propongono gli insediamenti ai margini di una città?
La “bella vita” della città è costituita dalla magnificenza delle costruzioni, dalla presenza del commercio e dei negozi, dalle “attrezzature” tipiche della città: portici, fontane, piazze, monumenti ed edifici pubblici, ma soprattutto dalla presenza degli abitanti e dalla possibilità di rapporti umani: le città in effetti sono gli abitanti e il loro incontrarsi (raggrupparsi) in uno spazio pubblico accogliente; accogliente perché pieno delle storie che vi sono accadute e in parte raccontate dalle costruzioni e di cui gli edifici sono stati la scena teatrale.
Da questo punto di vista la costruzione di quartieri ai margini delle città consolidate con il presupposto igienico di una vita sana ha prodotto pochi esempi efficaci.
Nella concezione di questa urbanistica lo spazio pubblico è uno spazio vuoto, uno spazio senza ripari che seppur ampio non ha nulla da raccontare.
Non basta l’abbondanza della vegetazione al contorno per farlo diventare significativo, è altrettanto vero che uno spazio pubblico delimitato da costruzioni si giova anche della piantumazione per accogliere lo svolgersi della vita, si pensi solo all’ombra che gli alberi producono nelle stagioni calde.
La vegetazione contribuisce a favorire buone condizioni igieniche, migliora la situazione ecologica del territorio, fornisce un habitat alla fauna, produce ossigeno e abbatte la percentuale delle polveri in sospensione.
La vita sana non è equivalente alla “bella vita” e come si dice “non di solo pane vive l’uomo”.
Parafrasando il titolo di un vecchio articolo di Domus “Ci vuole un nuovo modo di costruire e un nuovo modo di vivere, per abitare di nuovo”.
La vegetazione non basta a ristabilire un ambiente favorevole alla vita umana, è necessario un diverso modo di produzione di abitazioni, uffici e capannoni.
Parte dell’inquinamento si deve agli impianti di riscaldamento degli edifici: all’emissione di gas dovuta alla combustione per generare il calore da distribuire all’interno nelle stagioni fredde e all’emissione di aria calda e consumo di energia per raffreddare i fabbricati nelle stagioni calde.
Il “nuovo modo di costruire” deve spingersi verso la produzione di manufatti che facciano della passività la meta verso cui puntare. Edifici con il minimo consumo di energia e manufatti che nei casi migliori producano energia senza fare della complicazione impiantistica un pregio.
In fin dei conti il caldo invernale e la frescura estiva sono sempre stati un problema, anzi assieme al riparo dagli agenti atmosferici sono il problema alla base nella costruzione e degli insediamenti.
L’invenzione di sistemi più o meno efficaci che richiedono abilità, conoscenza costruttiva e comprensione del luogo dove si decideva di stare sono stati sostituiti dall’uso sempre più dipendente da una droga tecnologica che se non richiede poi molta energia per funzionare ne richiede molta per essere prodotta.
Anche l’assetto urbanistico è influenzato da questi presupposti: scegliere la miglior disposizione per sfruttare le possibilità naturali non è più possibile per la contiguità spaziale di altre costruzioni e la mancanza di spazio inteso come estensione dove cercare la migliore posizione di cui ad esempio le ville palladiane potevano valersi.
La concentrazione edilizia fa passare in secondo piano queste accortezze, “la bella vita” si riduce e la si intende solo come un andare senza sosta, senza luoghi in cui poter sostare, senza luoghi in cui la sosta non presenti gradi di veleno da inalare.
La necessità di costruire è innegabile, la “bella vita” delle città si è trasformata da qualche secolo; ora non significa più solo una vita tra pietre squadrate ma porta in sé la nostalgia di un mondo naturale, ma un naturale domestico, non soggiogato, pacificato e non soppresso.
Una nostalgia che non è un ricordo di cose vissute ma piuttosto qualcosa che sentiamo come una presenza assente, la mancanza di ciò che non padroneggiamo ma serve per la nostra vita materiale e psichica.
Parlare di armonia pare presuntuoso ma penso che sia questo il fine, accordare lo stare umano con ciò che lo circonda ed è necessario nel senso di “Ciò che è sempre tale, e non può essere altrimenti, è detto anche necessario.”
