UCTAT Newsletter n.59 – SETTEMBRE 2023
di Marino Ferrari
La città metropolitana contemporanea è la forma della distinzione tra la città storicamente determinatasi dalla città dinastica di Ur con Uruk[1] in poi, a quella correttamente e giustamente capitalistica. Quindi la forma del declino della città.
Come può una città capitalistica definirsi sostenibile, secondo i presupposti immessi e veicolati nel linguaggio ricorrente? La risposta immediata sarebbe: non può, sarebbe un ossimoro addirittura una contraddizione nei termini. Un passaggio estremamente significativo sotto il profilo generale ed interpretativo dell’insieme economico sociale, fu la “città fabbrica”. Ricca di contrasti ma anche di spinte ideali ed innovative nella ricerca di una soluzione a tutte le implicazioni territoriali ed economiche generate. Ritroviamo esaltazioni utopiche in opere pittoriche e letterarie ed in ricerche universitarie. Il divenire della città capitalistica nelle forme che conosciamo è un divenire che alla fine trova impreparati i cittadini; impreparati ad una reattività che sostenga le risposte alla loro domanda quotidiana, domanda con una ampia valenza sociale ed economica, domanda volta semplicemente ad ottenere una risposta ai propri bisogni. Certamente anche i bisogni necessitano di un distinguo anche mediante una classificazione delle condizioni economiche. Occorre prendere visione dei processi generativi.
Dunque, i bisogni imprimono percorsi differenti e metodi risolutivi differenti addirittura per ciascuno di noi
Ciò nonostante, i bisogni sono accomunati nella medesima dipendenza ambientale, dipendenza in grado si sorpassare le condizioni economiche per restringersi sulle forme di sopravvivenza più o meno consapevolmente. Il linguaggio composto dalle teorie comunicative, si ri-trova nella sostenibilità, la quale, non avendo chiara la sua definizione, viene usata a piacimento in tutti gli ambiti, dai prodotti immateriali a quelli alimentari a tutto ciò che dovrebbe soddisfare i bisogni umani. Il problema della sostenibilità che viene enunciato come tema, raggiunge diffusamente la città essendo questa la più evidente forma dei bisogni collettivi e conseguentemente la espressione delle complesse articolazioni del mercato. La distinzione tra “centro urbano” e periferie ha superato sé stessa con l’ausilio dei patti amministrativi e politici; distinzione che si rende amabilmente politica mediante opzioni che precipuamente permettono ai cittadini di interpretarle a piacimento ma sostanzialmente al di fuori della reale funzione. Anche l’innovazione terminologica priva di reali o specifici contenuti invade la città, e non solo se si pensa al vecchio[2] rapporto città campagna, nutrendosi di supposizioni e di illusioni ma sempre e comunque al servizio del sistema complessivo di controllo della realtà, realtà oggi resa ancor più fluida, per rimanere nella terminologia, al punto di sostenere sia le resilienze sia le gentrificazioni. Se entrambi i termini corrispondessero realmente ai loro etimi, pur ancestrali, parrebbe corretto significare la resilienza come il tentativo di abbattere o mortificare un corpo sapendo che esso potrà ritornare ad essere originario. Impossibile. Meno impossibile, anzi estremamente realistico ed oltremodo macchinoso, materializzare la gentrificazione che la sociologia essendo l’urbanistica defunta, utilizza per dire nel modo semplice: portare al centro dell’urbano, classi (!) in grado di soddisfare i parametri di [3]convivialità, sostegno economico, ed in particolare una risposta alle pressanti esigenze della macchina immobiliare. Se fosse infatti facile come di fatto si sono realizzate le periferie avremmo da un lato, paradossalmente, un centro senza auto con servizi urbani diffusi ed anche gratuiti, verde diffuso ai piani bassi senza portarli sulle torri, energia prodotta autonomamente e quindi gratuita secondo i favori amministrativi, ed anche la bellezza sia materiale che umana. Le periferie non necessariamente “banlieue numerate” secondo le organizzazioni attuali rinnovandole, ma luoghi anche tranquilli e ovviamente controllati; una netta separazione che correrebbe però il rischio, sollecitato dai bisogni in parte “reali” ed in particolare indotti, ad una ….presa della Bastiglia. Le periferie, come annotato, sono invece, nell’abbandono della gentrificazione, una grande opportunità per guidare i processi di sostenibilità con tutti i risvolti anche amministrativi se visti nei termini della “autodeterminazione” energetica.
Analizzare i bisogni a fondo implicando la valenza energetica ed esponendola a presupposti di “rigenerazione”,[4] porterebbe innanzitutto ad allontanare in termini critici le forme di comunicazione delle merci. I bisogni hanno una forma e tutte le forme occupano uno spazio. L’abitazione rappresenta una parte della città e dunque analizzare sotto questo profilo permette di individuare il percorso della sostenibilità. In precedenza, si è formulata l’ipotesi energetica come la “soluzione” dei problemi: valutazione del bisogno energetico complessivo e costruzione dell’approvvigionamento alternativo alle fonti tradizionali per una indipendenza energetica. Si obietterà, ad esempio, che là dove esiste il teleriscaldamento una componente energetica viene soddisfatta da una “produzione centralizzata e controllata “ma che comunque utilizza gli scarti della raccolta differenziata ed inceneriti. Vero è che corre differenza tra energia utilizzata per il riscaldamento ed energia per gli altri usi domestici. Vero è anche che tale energia possa utilizzarsi diversamente con raziocinio.
La sostenibilità va definita, descritta, scomponendo le parti che compongono, nel nostro caso, la periferia. Vanno attribuite ad ogni parte tutte le caratteristiche proprie dell’ambiente, dalla presenza umana alla forma delle abitazioni al rapporto con la superficie del suolo e con le presenze vegetali, con i caratteri della antropizzazione e con le specifiche e relative forme: la mobilità urbana ed i servizi e la loro tipologia energetica.
Orbene proviamo a costruire questa sostenibilità, partendo dall’energia comunemente conosciuta ed utilizzata sotto differenti forme nei consumi quotidiani. Si intenda, anche nel pane e nel companatico vi è racchiusa l’energia, e questo potrebbe diventare un altro e superbo momento di autodeterminazione: si sa comunque lontano dall’immediato anche se ricorda momenti trascorsi, perché qualsiasi forma di autodeterminazione improntata alla socializzazione deve scaturire da un lungo processo di “indifferenza” verso i valori espressi dai codici amministrativi e deve maturare dentro la profonda consapevolezza. Ciò nonostante, la questione energetica appartiene al risvolto attuale promosso e coltivato sostanzialmente da tutta la “cultura specificatamente metropolitana” la quale riflette con tutte le sfaccettature, quella nazionale.
Una opportunità è data dalle “Comunità Energetiche Rinnovabili” (o Energy Community) previste dalla Direttiva Europea RED II (2018/2001/UE), utilizzando sia “Sistemi di autoconsumo individuale di energia rinnovabile a distanza” sia “Sistemi di autoconsumo collettivo da fonti rinnovabili”: sistemi realizzati da gruppi di auto consumatori. L’opportunità consente oltre al soddisfacimento energetico ed anche produttivo, di “socializzare l’organizzazione del sistema” aprendo inevitabilmente a tutte le implicazioni dei bisogni reali, dai trasporti, ai collegamenti con il “centro” urbano, ai servizi essenziali. Va da sé che le sollecitazioni porterebbero a rivedere anche l’assetto territoriale proprio sotto il profilo “vero” della sostenibilità: l’utilizzo delle energie per una “vita” sana. Il controllo ambientale può essere ( e lo è) lo strumento obiettivo: valutazione della qualità di inquinamento locale, valutazione mediante annotazioni collettive dei picchi di temperatura in relazione al soleggiamento e rispetto alla disposizione dei fabbricati, la presenza di superfici permeabili e l’incremento delle medesime con l’introduzione mirata di specie arboree. Ma per attivare questi processi che cosa occorre concretamente? Iniziative territoriali e volontarie oppure sollecitazioni amministrative in grado di “ri-generare” il rapporto dei centri di poteri con i cittadini invertendo gli schemi decisionali?

[1] Un particolarismo politico delle città mesopotamiche secondo il Coppa
[2] Vecchio e caro rapporto città campagna da sempre coltivato e rappresentato ma devastato dalla cultura e pratica tecnologica che crede di riesumarlo con le piantine sui tetti o gli orti urbani!
[3] rendita di posizione può apparire un ricordo, certamente, ma non c’è bisogno di tracciarle, basta guardarle
[4] Rigenerazione non intesa come riutilizzo dei sistemi edilizi per rifare contenitori anche belli ma ri-generare ovvero attribuire nuovo genere alle parti di città capovolgendo i meccanismi e le regole che li hanno realizzati.
