UCTAT Newsletter n.78 – maggio 2025
di Carlo Lolla
L’archeologia mi ha sempre incuriosito. C’è qualcosa di affascinante nell’idea di scavare sotto i nostri piedi e scoprire pezzi di vita vissuta secoli, o addirittura millenni, fa. Non è solo questione di ritrovare oggetti antichi: è cercare di capire come vivevano le persone, quali erano le loro credenze, i loro riti, i modi di costruire, commerciare, seppellire i morti. È come se l’archeologo fosse un investigatore del tempo, che ricompone storie dimenticate pezzo dopo pezzo.
Questa passione per il passato ha radici lontane. Già i Romani collezionavano statue e iscrizioni greche. Più tardi, durante il Rinascimento, l’Umanesimo riportò in auge l’amore per il mondo classico, dando il via ai primi scavi – spesso però guidati più dal gusto per il collezionismo che da uno spirito scientifico.
La svolta vera arriva tra Settecento e Ottocento, con l’Illuminismo e la nascita di un metodo rigoroso. Gli scavi di Ercolano e Pompei sono emblematici di questa nuova visione. Da allora l’archeologia ha fatto passi da gigante, dotandosi di strumenti sempre più precisi, come la stratigrafia o la datazione al radiocarbonio.
Ma cosa mi ha spinto personalmente verso questa passione? Forse l’idea di identità, di appartenenza. Forse il fascino del mistero, o la bellezza che traspare anche dalle rovine più umili. Ma soprattutto, la riflessione che l’archeologia ci impone: nessuna civiltà è eterna. Anche le società più evolute sono cadute, e questo ci invita a guardare con consapevolezza al nostro presente e al nostro futuro.
L’Italia, in questo, è un vero e proprio museo a cielo aperto. Il nostro Paese ha ereditato il patrimonio dell’Impero Romano, inglobando culture come quelle degli Etruschi, dei Greci (Magna Grecia), degli Italici, dei Longobardi. Ogni regione conserva strati millenari di storia sovrapposti. Non a caso, l’Italia detiene il maggior numero di siti UNESCO al mondo e decine di parchi archeologici attivi.
Numerose città italiane conservano nel loro sottosuolo i resti di insediamenti antichi, spesso di epoca romana, etrusca o medievale. È una caratteristica comune nei centri storici italiani, dove l’evoluzione urbanistica si è stratificata nel tempo; basti pensare a Trento: la Tridentum romana sotto piazza Cesare Battisti; Milano e i suoi resti romani sotto il Duomo e nella cripta di San Giovanni in Conca; Torino: con le gallerie medievali e le strutture romane; Aosta e il Criptoportico Forense; Roma ove esiste un autentico labirinto sotterraneo tra domus, mitrei, catacombe, terme (es. San Clemente, San Crisogono, Stadio di Domiziano); Napoli Sotterranea con i suoi acquedotti greco-romani, catacombe, rifugi antiaerei; infine Perugia e Orvieto la loro necropoli etrusche, i pozzi, i cunicoli e l’ipogeo.
Compiuto, più o meno, questa premessa storico/culturale parlerò di coloro che si occupano con la loro attività nei contesti urbani, ossia gli architetti, gli ingegneri e i progettisti che si imbattono spesso in emergenze archeologiche durante lavori pubblici (strade, metropolitane, edifici, reti fognarie, ecc.), quando emergono resti storici o archeologici inattesi.
Questi ritrovamenti comportano ragionevolmente la sospensione dei lavori, con aggravio di costi aggiuntivi e modifiche progettuali. Questa condizione implica il coinvolgimento della Soprintendenza, che esige tempi lunghi e norme stringenti. Si deve, in questo caso, considerare che ogni intervento nel sottosuolo deve valutare e contemplare le norme di tutela del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, che obbliga a segnalare i ritrovamenti e a sospendere i lavori in presenza di beni di interesse pubblico.
Diventa quindi fondamentale una pianificazione preventiva: studi del territorio, collaborazione con archeologi fin dalla fase progettuale e indagini sul rischio archeologico. Una corretta pianificazione evita ritrovamenti “a sorpresa”, manomissioni, distruzioni volontarie o, peggio, la mancata denuncia di reperti per evitare l’arresto dei cantieri. Per stare sul pezzo, sappiamo che i beni culturali necessitano di un continuo aggiornamento, settore importante per l’economia, più precisamente di approfondimenti scientifici che riguardano le analisi di fonte storiche, catastali e cartografiche; nonché la contestualizzazione storica ovvero chi ha costruito il bene, in quale periodo e con quale funzione.
E significative sono le indagini archeologiche e diagnostiche, le analisi dei materiali; le tecniche digitali e modellazione 3D; le valutazioni economico-culturali e gli approfondimenti sulle norme di tutela ambientale. Il concetto di “ambiente”, nel mondo contemporaneo, è diventato complesso e stratificato. Esso include: l’ambiente naturale (ecosistemi, risorse, clima); l’ambiente costruito (infrastrutture, città); l’ambiente culturale (memoria, storia, paesaggi, patrimonio). L’archeologia entra così in questo sistema come componente fondamentale della sostenibilità. Oserei dire che il riferimento all’Illuminismo è calzante e pertinente: ovverosia il progresso come progetto razionale, ordinato, scientifico, etico. Oggi ci si chiede: stiamo costruendo davvero un progresso “illuministico”? La risposta è ambivalente. Alcuni esempi virtuosi: come i piani paesaggistici in Toscana e Puglia; la rigenerazione urbana in ex aree industriali (Milano, Torino); come pure la pianificazione urbanistica intelligente e sostenibile. Ma esistono anche derive: cementificazione, grandi opere senza contesto, turistificazione aggressiva delle città d’arte. Nel contesto odierno, ci si domanda se lo sviluppo tecnologico e urbano (smart cities, globalizzazione, infrastrutture, intelligenza artificiale) stia realizzando un nuovo tipo di “progresso illuministico”, o se invece si rischi la perdita del senso del limite, o si tenda a sviluppare senza memoria, o si ignorino le identità locali e la sostenibilità.
Comunque una valutazione critica che non si limita a registrare solamente i dati ambientali è l’analisi di Valutazione di Impatto Ambientale, VIA! La quale mette in relazione fattori tra loro interconnessi (ambiente, salute, paesaggio, patrimonio culturale, benessere sociale). Ovvero comprende quelli fisico-naturali, il consumo di suolo, i rischi idrogeologici o sismici, gli impatti su flora, fauna, ecosistemi, l’alterazione di paesaggi storici o visivi, la distruzione o degrado di beni culturali o archeologici, la perdita di identità territoriale, i cambiamenti nel tessuto urbano o sociale, il rischio di gentrificazione o marginalizzazione, gli impatti sulla salute pubblica (esposizione a polveri sottili, campi elettromagnetici), la perdita di servizi o spazi pubblici. Una valutazione che comporta manifestazioni solo nel lungo periodo. La valutazione critica della VIA deve andare oltre i dati numerici per cogliere le implicazioni profonde sul territorio e sulla società.
Ed è qui che le Soprintendenze devono svolgere un ruolo attivo. La loro “assenza” (per carenza di risorse o negligenza) può portare a danni irreversibili, contenziosi, sfiducia istituzionale. E’ bene integrare le conoscenze archeologiche nei piani regolatori, nei progetti di lottizzazione, nei parchi urbani significa prevenire, valorizzare, proteggere. L’archeologia può diventare motore di identità culturale e attrazione turistica, e non ostacolo allo sviluppo.
Siamo consapevoli che il territorio italiano è ricco di vincoli e risorse (autostrade, aree minerarie, paesi, boschi, fiumi, zone agricole). In questo scenario le Regioni hanno aggiornato le normative per rafforzare la coerenza tra tutela ambientale e lo sviluppo rurale, la protezione forestale e la gestione delle aree protette. Ulteriormente diverse aree, con potenziale interesse storico o archeologico non sono state sottoposte a studio, ricognizione o vincolo. Si tratta di territori “orfani” di tutela, spesso per mancanza di risorse o per carenze storiche di catalogazione. E’essenziale che, se la Soprintendenza non partecipa attivamente alla Valutazione di Impatto Ambientale o Strategica, oppure lo fa in modo superficiale, essa non può, chiaramente, incidere realmente nel processo decisionale.
Questo comporta danni irreversibili ai beni culturali o ai paesaggi storici, creando contenziosi legali tra Stato, enti locali e privati e, quindi, sfiducia nei confronti delle istituzioni. Le “assenze” delle Soprintendenze rappresentano, in sostanza, vuoti di tutela. La tutela del paesaggio invisibile richiede un approccio olistico: l’archeologia deve essere parte integrante della pianificazione territoriale. Ciò significa: identificare zone sensibili (vicinanze di fiumi, laghi, insediamenti non ancora scavati); introdurre norme di salvaguardia specifiche; promuovere indagini non invasive (radar, tomografia); coinvolgere cittadini e istituzioni in una cultura condivisa della tutela.
Numerosi enti (Soprintendenze, progetti europei come ARCHEOLOGIA 2.0, Carta Archeologica d’Italia) hanno sviluppato banche dati e mappe georeferenziate per mappare le aree sensibili. La cooperazione tra archeologi, geologi, storici, esperti GIS è la chiave per una conoscenza completa del territorio. La pianificazione può prevedere percorsi archeologici, musealizzazioni all’aperto, integrazioni nei parchi urbani. I beni archeologici diventano elementi identitari e di richiamo culturale e turistico, anziché ostacoli allo sviluppo. La stessa pianificazione territoriale è la prima linea di difesa e valorizzazione dell’archeologia: se ben strutturata, permette di prevedere, proteggere e integrare il patrimonio archeologico nei processi di trasformazione urbana e rurale.
Teniamo ben presente che la tutela del paesaggio archeologico — visibile e invisibile — non è solo un dovere culturale, ma un investimento nel futuro. Un futuro che si costruisce con metodo, con passione, con responsabilità. Certamente le normative che si sono susseguite hanno mostrato un progressivo affinamento alle politiche ambientali. L’azione normativa ha spaziato dalla costruzione della rete di parchi e riserve alla governance locale, alla modernizzazione della gestione delle aree protette. Ogni legge ha risposto alle esigenze del tempo, rispondendo anche a dinamiche ecologiche ed economiche.
Rilevante e serio è aumentare la consapevolezza pubblica, la formazione dei cittadini, degli operatori del settore e dei decisori politici è essenziale. La comunità deve comprendere che la tutela dell’archeologia, la protezione del paesaggio archeologico invisibile deve essere il frutto di un lavoro collaborativo tra istituzioni locali, archeologi, urbanisti, esperti di paesaggio e comunità locali – La tutela del paesaggio archeologico invisibile è una sfida che richiede un impegno concertato e multidisciplinare. La protezione del patrimonio archeologico deve andare di pari passo con la pianificazione territoriale, l’uso delle tecnologie, la sensibilizzazione del pubblico e una politica di gestione sostenibile. Solo un approccio integrato che considera i beni archeologici come parte di un paesaggio culturale complesso può garantire una protezione efficace e duratura. Questo lavoro, nato da un sincero interesse per l’archeologia e sostenuto da una visione scientifica e integrata, dimostra quanto sia fondamentale un approccio multidisciplinare, partecipato, consapevole.
L’archeologia non è solo scavo: è memoria, identità, conoscenza. È il filo invisibile che unisce passato, presente e futuro. Proteggerla significa costruire una società più giusta, più consapevole, più attenta alla bellezza e alla storia dei luoghi che abita.
P.S. Una segnalazione importante: Europa Nostra e i “7 siti più a rischio”, da conoscere ed integrare nel curriculum delle conoscenze. Un’iniziativa particolarmente significativa è quella promossa da Europa Nostra, in collaborazione con il Touring Club Italiano, che raccoglie le segnalazioni di cittadini europei riguardanti siti e monumenti del patrimonio culturale in stato di degrado o abbandono. Le proposte vengono sottoposte a valutazione da parte di un comitato internazionale composto da dieci esperti nei settori della storia, archeologia, architettura, conservazione e gestione economica dei beni culturali. Sulla base di questa valutazione tecnica, viene stilata una short list dei siti maggiormente a rischio, dalla quale il Board di Europa Nostra seleziona i sette siti più minacciati d’Europa.
È interessante osservare come, tra i beni segnalati, non ci siano soltanto monumenti storici o luoghi di culto, ma anche interi borghi, palazzi abbandonati a causa dello spopolamento, siti industriali legati a economie ormai dismesse, cimiteri, e monumenti appartenenti a minoranze etniche, spesso trascurati o dimenticati. Questa iniziativa dimostra quanto sia importante il ruolo di enti e associazioni impegnati nella tutela del patrimonio culturale: senza il loro intervento, molti di questi luoghi rischierebbero di scomparire, divenendo in futuro oggetti di studio archeologico. È dunque fondamentale riconoscere il valore della prevenzione e della conservazione, per evitare che il nostro patrimonio diventi irrecuperabile memoria del passato.

