L’architetto a Natale

UCTAT Newsletter n.84 – dicembre 2025

di Massimiliano Gamba

A Natale l’architetto passeggia per la città come un uomo con una mappa sbagliata in tasca. La mappa l’ha disegnata lui, anni prima, convinto che il mondo dovesse adeguarsi. La città, educatamente, ha fatto altro. Cammina piano, non per contemplazione ma per evitare di inciampare: a Natale i gradini sembrano messi lì apposta per ricordargli che la sezione stradale è una forma di umiliazione personale.

A Natale l’architetto entra in scena come entra sempre nella vita: convinto di avere un’idea chiara in testa. Ma la città si presenta addobbata, indulgente, quasi benevola, e proprio per questo lo mette in difficoltà. Perché funziona. Funziona senza masterplan, senza concept, senza una relazione di trenta pagine. Funziona per abuso temporaneo, per eccezione, per decorazione appesa male. E allora realizza l’ovvio paradosso: ciò che Loos avrebbe condannato come “delitto dell’ornamento”, quando è solo temporaneo, diventa improvvisamente tollerabile. Una tragedia per chi ha studiato una vita per evitare tutto ciò!

Guarda le facciate illuminate e pensa che, senza luci, certe architetture non avrebbero mai avuto una vita sociale. Il Natale è l’unico momento in cui anche l’edificio mediocre viene invitato alla festa.

Ogni dieci metri l’architetto pensa “qui basterebbe poco”. Una panchina, un albero… Poi ricorda che anche il “poco” richiede riunioni, pareri, capitoli di spesa, e si sente improvvisamente stanco. Camminare è più semplice che progettare. Ma inciampa di nuovo. Un gradino invisibile, un dislivello non segnalato. Nessuno lo aiuta: tutti sono abituati a quel gradino. La città è inclusiva solo con chi la conosce da sempre. L’architetto si rimette in piedi con una mossa teatrale, come se stesse simulando l’equilibrio per un pubblico immaginario. E annota mentalmente una criticità che non verrà mai risolta.

A Natale, l’architetto seduto a tavola è oggetto di curiosità antropologica agli occhi dei parenti, che lo interrogano con candore e un’ingenuità spietata. Nessuno capisce esattamente cosa faccia, ma tutti sono convinti che potrebbe sistemare meglio il bagno. Incapaci di afferrare il senso del suo mestiere, gli mostrano crepe, porte che non chiudono, finestre che non si aprono. Lui ascolta e annuisce con pazienza misurata, mentre dentro di sé si accumula una stanchezza elegante, quella stanchezza che nasce dal dover tradurre il proprio sapere in parole elementari e pratiche. A Natale la teoria si inchina all’anta fuori squadro.

La casa natalizia è un dispositivo crudele. Costringe a usare gli spazi come non erano stati pensati: sedie aggiunte di vari modelli, tavoli allungati, letti improvvisati. L’architetto osserva questo disordine funzionale con un misto di fastidio e ammirazione. Perché funziona. Funziona meglio dei soggiorni open space da rivista.

C’è qualcosa di eroicamente mediocre nell’architetto a Natale. Non salva nessuno, non migliora il mondo, non riesce nemmeno a spiegare il proprio lavoro senza usare le mani. È un tecnico dell’utopia costretto a confrontarsi con il fatto che le persone vogliono solo stare comode, insieme, possibilmente al caldo.

Le case, poi, lo smascherano. Quelle vere, non quelle pubblicate. Stanze troppo piccole per contenere tutti, corridoi che sembrano errori giovanili, soggiorni solenni come sale consiliari usate per appoggiare i cappotti. L’architetto guarda, misura mentalmente, e capisce — con una tristezza quasi comica — che ha passato la vita a disegnare spazi che a Natale non funzionano.

L’architetto, immerso in questo teatrino domestico, assume i tratti di una figura tragicomica. Seduto sul divano di famiglia, capisce una cosa drammaticamente vera: abbiamo progettato molto, ma abbiamo capito poco.

La passeggiata riprende tra vetrine e piazze addobbate. L’architetto si accorge che la città è più gentile quando smette di chiedere prestazioni. Quando non deve essere efficiente, iconica, competitiva. Quando può semplicemente essere attraversata senza scopo. E questa scoperta, così ovvia e così tardiva, gli pesa addosso più del cappotto.

La passeggiata finisce in una piazza che funziona solo perché è Natale. Luci, voci, gente cordiale. L’architetto si siede su un muretto non autorizzato e capisce, con una chiarezza quasi offensiva, che il suo mestiere è pieno di buone intenzioni e di pessimi tempi. Arriva sempre dopo: dopo la vita, dopo gli usi, dopo i bisogni.

Dopo Natale l’architetto tornerà serio, tornerà ambizioso, tornerà a parlare difficile. Ma per qualche giorno avrà saputo la verità, quella che fa ridere e fa male insieme: la città procede indipendente, animata da pratiche, abitudini e flussi sfuggenti. Ed è proprio a lui, ancora e sempre a lui che, nonostante tutto, spetta l’arduo e imprescindibile compito di interpretare, orientare e governare questa complessità, trovando senso e misura in ciò che appare inafferrabile.

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