L’architettura fuori scala

UCTAT Newsletter n.58 – luglio 2023

di Matteo Gambaro

Nel 1951 a Hoddesdon, in Inghilterra, ebbe luogo l’VIII congresso CIAM dedicato al “cuore dalla città”. L’obiettivo era di porre l’attenzione progettuale a quelle zone della città in cui erano riassumibili i valori culturali e sociali della comunità, ragionando per integrazione e non per sostituzione edilizia. Un cambio di paradigma dopo anni di ricerca, teorizzazione e di sperimentazione mirate al rinnovamento dei principi dell’architettura e dell’urbanistica con approcci incentrati sul funzionalismo e sulla nuova estetica che ne derivava.

In tale occasione Ernesto Nathan Rogers presenta una relazione intitolata: Il Cuore: problema umano della città, introducendo gli studi sulle preesistenze ambientali che caratterizzeranno la vita intellettuale ed anche professionale di Rogers negli anni successivi.

L’argomento era indubbiamente di grande importanza, in un’epoca che stava vivendo la ricostruzione postbellica in tutta Europa, e che si interrogava criticamente sul valore delle preesistenze e sul metodo adeguato a integrare le nuove costruzioni con la città più antica.

Il dibattito vide in particolare gli italiani assumere, con coraggio, una posizione critica nei confronti dell’internazionalismo dei grandi maestri; posizione culturale che determinerà negli anni la diffusione ed il radicamento sempre più convinto anche in altri paesi.

Non vi è dubbio che queste scelte abbiano determinato modalità operative sempre più attente all’esistente, non solo dal punto di vista morfo-tecno-tipologico ma anche normativo e vincolistico, con particolare accentuazione in un paese come l’Italia così ricco di storia.

Come tutte le vicende umane, il percorso evolutivo ha raggiunto velocemente il culmine e la cultura progettuale ha imboccato una nuova via progressivamente meno attenta al paesaggio urbano, dando sempre più spazio alla costruzione di manufatti avulsi dal contesto sia dal punto di vista culturale che soprattutto morfologico e dimensionale. Tale atteggiamento ha determinato la diffusione nelle nostre città di edifici vistosi e fuori scala, eccezioni nel tessuto urbano in dichiarata contrapposizione culturale con il contesto. Edifici che si sostanziano nella sorpresa e nell’originalità della forma, peraltro dalla durata breve in quanto non generati da un processo logico e sensato. Gregotti le chiamava architetture mercantili al servizio della moda, prodotti di design ingranditi e trasformati in icone.

Oggi il dibattito sulle architetture fuori scala è indubbiamente di grande attualità, soprattutto in una città come Milano in preda ad una frenesia costruttiva inimmaginabile e apparentemente inarrestabile. Si tratta però di un argomento non nuovo, nel 2006 Koolhaas pubblicò un piccolo libro intitolato Junkspace costituito da tre capitili di cui il primo dedicato alla Bigness: “Bigness, ovvero il problema della grande architettura”. Sinteticamente, Koolhaas teorizzava che il fuori scala fosse l’unico modo per riattribuire significato all’architettura e farla uscire dalla stagnazione figlia dei movimenti ideologici e artistici del modernismo. Una tesi in netta contrapposizione all’approccio culturale tanto italiano che individuava nel dialogo con il “contesto ambientale” la regola ineludibile per ogni progetto.

Gli scritti di Koolhaas mi hanno sempre incuriosito ma mai convinto. A distanza di circa vent’anni dalla pubblicazione del libro, devo ammettere che la sua intuizione sulla Bigness sta ampiamente trovando riscontro anche a Milano. La maggiore parte degli interventi di trasformazione urbana ruotano attorno a opere iconiche, se possibile uniche e riconoscibili, che ridisegnano con altre logiche il paesaggio urbano della città. È come se ci fosse una insopprimibile esigenza di rompere con la storia per proporre un nuovo modo di abitare la città. Ed anche quando gli interventi nuovi provano ad integrarsi con le preesistenze, recuperando agli usi contemporanei manufatti dismessi dalle originarie attività produttive, la sensazione è che spesso sia solo un modo per ripulirsi la coscienza e seguire l’esempio – nel loro caso davvero concreto – dei recenti premi Prizker Anne Lacaton e Jean Philippe Vassal.

Sono trascorsi circa settanta anni da Hoddesdon e nuovamente ci ritroviamo a discutere del valore del contesto ambientale e della necessità – o meno – di integrare le nuove costruzioni con il tessuto edilizio (culturale) esistente. Il percorso circolare ci ha riportato al punto di partenza e forse si intravedono già i prodromi di una nuova stagione caratterizzata dalla rinnovata sensibilità alle preesistenze, ancora solo formalistica ma già concreta nelle nuove generazioni di architetti.

Corsi e ricorsi: sarà questo il destino del pensiero architettonico occidentale?  

Torre Gioia 22 a Milano.
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