UCTAT Newsletter n.67 – maggio 2024
di Fabrizio Schiaffonati
La prima mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia del 1980 ha segnato una importante svolta per la decisione di istituire un settore autonomo dedicato all’architettura, mettendo al centro della manifestazione un approfondimento critico sullo stato della disciplina. Un confronto che avrebbe attraversato il decennio, sulle nuove modalità ed espressioni dell’architettura. Una presenza quella degli architetti all’evento veneziano fino ad allora più come ideatori di padiglioni delle arti visive, chiamati ora a confrontarsi sui temi della loro disciplina. Da quella data l’illustrazione dell’architettura sarebbe stata finalizzata a esprimere la complessità dell’ambiente e del territorio per socializzarne la conoscenza presso il grande pubblico e non dei soli frequentatori dell’evento veneziano. L’architettura realtà d’un mondo in cui al 2050 la maggior parte della popolazione abiterà città e megalopoli. La prospettiva di un fabbisogno di massa dove la produzione di case, servizi e infrastrutture sarà sempre più al centro delle politiche urbanistiche e edilizie. Dimensione quantitativa che travalica ogni estetizzante approccio. Dal 1980 le Biennali di architettura ambiranno a rappresentare il contributo della disciplina a queste trasformazioni epocali, mettendo a confronto punti di vista e proposte progettuali.
L’incipit della Biennale del 1980 è stato quindi di particolare rilevanza, non solo per la novità in sé, ma anche perché ha segnato l’approdo di un latente conflitto con l’ortodossia del Movimento Moderno, sviluppato fin dagli anni Cinquanta da quanti invocavano una maggiore libertà espressiva, a partire da un diverso rapporto con la tradizione e la storia. Un tema espunto con l’affermarsi dell’architettura moderna, ma che ora appariva d’impedimento alla libertà espressiva nelle sue possibili forme. Il titolo della mostra, La Presenza del Passato, sanciva la definitiva rottura con quanto si riteneva censorio, lontano dagli eventi e delle inquietudini di una congiuntura che si interrogava sulla credibilità di «interpretazioni unitarie e profezie programmatiche», come osservava Paolo Portoghesi, nel solco critico di Lyotard. Una condizione ormai indispensabile per uscire dall’angustia di un giudizio che aveva finito per isterilire le potenzialità del linguaggio architettonico, per una sua più libera narrazione attingendo anche ad archetipi e memorie del passato, rivisitati criticamente e non come manieristica espressione.
Il termine Postmoderno ben si prestava, anche semanticamente, a rappresentare questa rottura e transizione verso inesplorate prospettive. Un mollar gli ormeggi per navigare in mare aperto senza più gli approdi sicuri di maestri e consolidate certezze. Così anche per l’architettura, in aperta critica a una parabola che ora mostrava i suoi limiti. La narrazione moderna, costellata anche di fallimenti, lasciava ora il campo ad altre prospezioni della realtà che stava superando ogni previsione, con una improvvisa velocità.
Un navigare in mare aperto, senza allontanarsi tuttavia dall’approdo rappresentato dalla presenza del passato. Come l’Angelus di Benjamin. Una esplorazione stimolante, destinata però a non andare molto lontano. Rileggendo ora il saggio introduttivo di Paolo Portoghesi nel catalogo della mostra, si rimane colpiti dalla lucidità con cui viene delineato il disagio della nuova generazione di architetti dopo i maestri: l’insofferenza per censure e proibizionismi, per giudici e custodi di una ortodossia diventata ormai stretta. C’è da dire che le critiche a questo approccio anche allora non mancarono e della presunzione di molti degli invitati a esporre (e di cui oggi si fatica a ricordare l’opera); velleitarismi che nel giro di qualche anno avrebbero mostrato i limiti della “novissima” architettura, ridimensionata in breve tempo dall’impietosa realtà dell’invecchiamento delle mode.
Detto ciò, non si può negare che la proposta, con la regia di Paolo Portoghesi in grado di catalizzare la risonanza internazionale, non sia stata dirompente nel segnare una svolta nel linguaggio dell’architettura, nonostante esegeti e interpreti non sempre all’altezza: un percorso che andava consumato per l’isterilirsi di certezze, narrazioni e linguaggi. Il galleggiante “Teatro del Mondo” di Aldo Rossi e “La Strada Novissima” con le scenografiche facciate, sono stati di grande spettacolarità per il successo della manifestazione; come pure le tante altre iniziative, momenti di dibattito e d’incontro per allargare la partecipazione, anche perché Portoghesi aveva concepito l’insieme degli eventi come un “Laboratorio” aperto alla discussione e al confronto.
La Biennale è stata quindi un’occasione di collaborazione offerta a quanti volessero avanzare proposte. È il caso che mi ha visto coinvolto con un gruppo di giovani docenti, e che per noi milanesi nasceva della frequentazione di Paolo Portoghesi, preside negli anni Settanta della Facoltà di Architettura del Politecnico. Una presenza che, nella turbolenza del post Sessantotto, aveva lasciato il segno. Una disponibilità, la sua, che consentiva di mantenere aperto un dialogo in un momento di forti conflitti ed evitare pericolose derive che si andavano palesando. Un confronto che intratteneva con docenti e studenti, con le difficoltà di una problematica organizzazione didattica per le continue contestazioni che non era nelle sue intenzioni contrastare autoritariamente. Aperto e disponibile, sempre lucido nell’ascoltare, argomentando senza nulla imporre, flemmatico anche quando il clima era decisamente turbolento. L’unico modo per contenere le derive più insensate, con la calma e la forza della ragione. La secolare indole capitolina curiale e politica finiva per avere buon gioco sugli stati d’animo esagitati e l’impazienza di quanti credevano a cambiamenti impossibili.
Come mai Portoghesi era arrivato a Milano e subito nel 1968 era stato eletto preside di una Facoltà di Architettura tra le più importanti, nella città capitale economica col riformismo delle sue istituzioni? La spiegazione più semplice è che era risultato vincitore della cattedra di Storia dell’architettura – nonostante la serrata concorrenza di Leonardo Benevolo autore di testi di storia dell’urbanistica e dell’architettura moderna, per chiarezza didattica vademecum per quanti iniziavano gli studi – lui non ancora quarantenne, anche se già emergente storico per suoi fondamentali studi sul Borromini, ma di formazione lontana dall’ambiente e dalla cultura del Razionalismo milanese. In quella preferenza, Ernesto Nathan Rogers e Lodovico Belgiojoso hanno avuto certamente un ruolo.
Una deduzione rafforzata andando all’articolo del 1958 pubblicato sulla rivista Comunità di Adriano Olivetti in cui, commentando la Bottega d’Erasmo di Gabetti e Isola, il giovane Portoghesi aveva genialmente coniato il neologismo Neoliberty; introducendo una categoria interpretativa del rapporto dell’architettura con la tradizione e la storia, e una presa di distanza da alcuni dogmi riduttivi del Movimento Moderno, come emergerà anche dalla polemica tra Rogers e Banham. Una cultura e una produzione architettonica riferibili a quella sua definizione che avrà nei Bbpr la massima espressione per rilevanza delle opere, di cui la Torre Velasca è il simbolo più celebrato.
Portoghesi, in accordo con la maggioranza del ristretto novero di docenti di ruolo che formavano il Consiglio di Facoltà – Albini, Belgiojoso, De Carli, Bottoni, Rossi, Canella –, aveva aperto la scuola a tanti giovani docenti annualmente incaricati, anche per far fronte alla crescita esponenziale delle iscrizioni a seguito della riforma Codignola del 1969 che aveva liberalizzato gli accessi ai corsi di laurea; già con le avvisaglie di una crisi sociale e politica, dopo il boom economico e il riformismo dei primi anni Sessanta, con tante forze produttive e intellettuali che non trovavano prospettive d’ulteriore crescita. “Tutto e subito” era destinato a rimanere uno slogan, per le dure leggi della realtà che nulla regala. Queste contraddizioni si riversavano nell’Università impreparata a dare risposte e a proporre soluzioni per governare una transizione che l’impazienza giovanile non voleva accettare. Uno scontro che avrebbe portato al provvedimento ministeriale di sospensione dei professori del Consiglio di Facoltà e, a cascata, dei docenti da loro incaricati. Un rappel à l’ordre con la nomina di un Comitato Tecnico per una gestione commissariale. Vicenda nota conclusasi poi con un reintegro a seguito di una sentenza del Consiglio di Stato, a cui in Lettera a un aspirante architetto aggiungo qualche ulteriore dettagliata conoscenza.
Ho fatto cenno a questi lontani avvenimenti per inquadrare il nostro rapporto di docenti alle prime armi con Portoghesi. Un gruppo che si era definito dei “docenti subalterni”, a indicare la precarietà e i condizionamenti alla loro libertà di insegnamento. Anche con una qualche improntitudine, perché nei fatti nulla ci era impedito nell’esprimere il nostro punto di vista, se non invocando l’ideologia anticapitalistica. Eravamo un gruppo di giovani intellettuali, architetti ipercritici sull’asservimento del mestiere alla speculazione edilizia, per una città democratica e ogni istanza d’uguaglianza, e quant’altro la variegata galassia dei gruppi extraparlamentari andava propagandando. Anche con più di una ragione, ma con tante astrazioni a cui noi cercavamo di fornire un supporto di conoscenze.
Con amici e colleghi di altre Facoltà, avevamo promosso un coordinamento di docenti per avviare un’analisi del settore delle costruzioni, della produzione di abitazioni e servizi, e delle politiche per far fronte a nuovi fabbisogni. Un tema sempre al centro degli studi e dei progetti degli architetti, con una lunga tradizione di iniziative e sperimentazioni nel riformismo già dall’inizio del secolo. Nello spirito quindi di un rilancio di una iniziativa politica e istituzionale che con la crisi si era andata attenuando e che, giustamente, si pensava potesse essere riattivata anche a partire da una aggiornata analisi e conoscenza dei meccanismi socioeconomici della produzione edilizia e delle logiche di governo del territorio. Il gruppo aveva avviato quindi diversi studi e indirizzato l’attività didattica in tal senso. La “didattica-ricerca” per fuoriuscire da un acritico insegnamento nozionistico.
Un rapporto quindi tra diverse sedi universitarie che ci vedeva attivi in frequenti incontri, avendo accreditato il raggruppamento anche presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) che ci riconosceva il compito di coordinare le richieste di finanziamento annuale per i nostri programmi di ricerca. L’iniziativa era quindi riconosciuta e apprezzata, rispetto alla pletora di ricerche individuali, nello spirito della necessità di una maggior massa critica di conoscenze e analisi che solo un finanziamento adeguato poteva consentire, rispetto alla dispersione a pioggia delle già ridotte risorse. Un progetto quindi coordinato e articolato in diverse realtà territoriali che ha avuto soprattutto il merito di promuovere un confronto di idee e di sperimentazioni didattiche, scontando poi la difficoltà di sintesi e di interlocuzioni con le istituzioni in un momento di non facile confronto. Iniziativa che ha posto con largo anticipo l’esigenza di coordinamento della ricerca anche tra sedi universitarie, come andrà poi emergendo ai giorni nostri con i Progetti d’interesse nazionale.
Un merito particolare va a Piero De Rossi, docente torinese che ci rappresentava negli organi elettivi del CNR, per i significativi risultati che ci consentirono di promuovere frequenti incontri sullo stato di avanzamento delle ricerche, anche con convegni a Roma presso la sua sede. Tematiche ampie che coinvolgevano docenti di Tecnologia dell’architettura, Composizione architettonica e Urbanistica, e che si riassumevano nella analisi dei complessi meccanismi della “Produzione edilizia”, da cui il raggruppamento aveva preso il nome. La conoscenza dei cicli economici e delle dinamiche dei diversi attori, il ruolo delle istituzioni e i nuovi processi organizzativi del lavoro operaio e tecnico del processo edilizio, questi erano i termini del nostro lavoro. Una ricerca interdisciplinare per rinnovare gli studi di architettura con queste strutturali conoscenze, indagare le nuove tecnologie che stavano mutando lo scenario della stessa progettazione architettonica.
“La produzione di progetto” era il tema che mi ero ritagliato e di cui continuerò a occuparmi. Un approccio che metteva sotto osservazione il progetto non tanto a partire da aspetti creativi, estetici e formali, ma in quanto attività complessa che andava incorporando diverse logiche, nuove tecniche e discipline per gestire azioni sempre più articolate e complesse. Una mutazione dei modi di produzione, nell’organizzazione del lavoro, delle tecnologie e i mezzi d’opera dello stesso progetto: una vera e propria rivoluzione che sarebbe rapidamente pervenuta con l’informatica a quei radicali cambiamenti di oggi anche nella erogazione delle prestazioni progettuali, fino alla robotica e l’intelligenza artificiale.
Erano questi i temi – trasversali a diverse discipline ma certamente di più forte pertinenza della Tecnologia dell’architettura che per tempo aveva accentuato l’interesse in questa direzione facendone una peculiarità delle proprie conoscenze – che portavamo nei nostri incontri nel Laboratorio alla Biennale del 1980, e che avevano trovato il pieno appoggio di Portoghesi. Non volevamo esporre nulla, cosa inconsueta per una mostra di architettura come fino ad allora era stata intesa, ma semplicemente avanzare le nostre idee in un confronto aperto a quanti volessero parteciparvi. La forma era seminariale, per presentare e discutere gli esiti dei nostri avanzamenti. Ci fu invero una proposta di De Rossi, sempre creativo per i suoi ascendenti nel radical design, di allestire un vero e proprio grande tavolo, come metafora del nostro punto di vista, affastellato di libri, rapporti di ricerca, documenti vari e progetti che avessero attinenza anche in senso lato con lo studio sulla produzione edilizia. Un tavolo a cui avrebbero potuto accedere anche i normali visitatori, se avessero voluto fare qualche approfondimento o solo per curiosare nel novero di quelle carte.
Ci ritrovavamo quindi con una qualche programmata frequenza a Venezia, ma talvolta anche spontaneamente per seguire altri eventi collaterali. Un’esperienza che non posso non ricordare con piacere, con il fascino della città in cui maturavano idee fatte proprie soprattutto dal settore disciplinare della Tecnologia dell’architettura, a cui attingere per rinnovare la didattica con la concomitante fondazione del primo dipartimento di Tecnologia dell’architettura promosso al Politecnico di Milano, non a caso dal titolo “Programmazione, progettazione, produzione edilizia”. Una realtà cresciuta poi nel tempo anche con mutate denominazioni, che ho diretto a più riprese per dieci anni.
A Venezia non mancava di incontrare Portoghesi, come se lì vivesse, ma forse era così con i suoi impegni per la risonanza mondiale della mostra da lui promossa. Si sentiva la sua condivisione su quanto stavamo facendo, la sua presenza sempre attenta, mai invasiva e che talvolta si prolungava a fine giornata in momenti conviviali. Ricordo una corsa in motoscafo sulla Laguna nella luce del tramonto verso Pellestrina, dove avremmo cenato in un gruppo abbastanza folto, continuando a parlare d’architettura. Tralascio l’elenco dei presenti, per non incorrere in qualche omissione. Ma anche in altre occasioni convenivano numerosi per allargare il dibattito ad altri docenti, dove era evidente l’impegno dell’area tecnologica a coinvolgere gli altri settori disciplinari a partire della Composizione, per altro già rappresentata dai torinesi della scuola di Roberto Gabetti.
Da quei momenti nasceva una critica strutturale alla concezione del progetto, alla professione e al ruolo dell’architetto, ai contenuti degli insegnamenti: una posizione che affidava al progetto una primaria valenza sociale, come impegno e militanza rispetto all’approccio autoriale che era l’altra faccia di quella Biennale, con la sua spettacolare mostra. Portoghesi era stato in grado di tenere insieme questi due estremi, espressione anche di contraddizioni che portavano a schieramenti non esenti da schematizzazioni. Da quel gruppo della “Produzione edilizia” era gemmata anche l’iniziativa di un approfondimento su La cooperazione di abitazione articolata in una esposizione di progetti e di un catalogo con saggi critici, altro approfondimento nel laboratorio promosso da Portoghesi denominato “Lavorare in architettura”.
Tra le tante altre occasioni, presso lo Iuav a Ca’ Foscari si tenne un affollato convegno per discutere della riforma degli studi di architettura. Il ricordo va alla conclusione dell’evento con le relazioni di Edoardo Benvenuto, docente di Scienza delle costruzioni nonché teologo, e di Franco Rella, docente di Estetica. Un confronto stimolante nella forma di una “tenzone culturale”, con confutazione delle reciproche tesi. Dopo, con Portoghesi risalimmo, già sera, il Brenta per cenare alla Malcontenta palladiana, ospiti di un Foscari docente dello Iuav. Era con noi anche la moglie di Alvar Aalto, a Venezia per un’altra celebrazione. Una serata decisamente mondana nel paesaggio veneto che lo spazio senza tempo del Palladio ha reso indimenticabile.
Sempre con riferimento all’esperienza veneziana, proposi alla Rai la produzione di un film da me ideato e sceneggiato dal titolo Lavorare nell’architettura. Una trama che voleva approfondire le stesse questioni dei nostri incontri con un diverso mezzo per portarle all’attenzione di un più ampio pubblico, rispetto al nostro ristretto ambito. Scriveva Portoghesi: «Lavorare in architettura era nelle intenzioni di chi scrive, il titolo di un settore di lavoro permanente, un vero e proprio laboratorio programmato per realizzare le indicazioni del nuovo statuto della Biennale che assegna allo statuto dell’ente anche compiti di ricerca e di elaborazione. Lavorare in architettura stava a significare che l’ottica impiegata sarebbe stata non quella tradizionale, che tende a isolare l’opera dell’architetto dai diversi momenti del ciclo edilizio rivelandone solo l’aspetto della autonomia disciplinare, ma quella che tende a mettere in rilievo le relazioni che intercorrono tra tutti i più diversi aspetti del lavoro architettonico che ha il suo esito nella trasformazione del territorio. Architettura quindi come parte specializzata del lavoro umano, come prodotto dello scontro e dell’intreccio tra la cultura architettonica da una parte e l’apparato produttivo dall’altro».
Una sintesi e una lucida analisi quella di Portoghesi alla base del film, che articola i principali momenti del lavoro dell’architetto, documentati con interviste e riprese in diversi contesti e luoghi urbani. Fu girato da una troupe della sede Rai di Milano con un notevole impiego di mezzi. Con la forza degli anni e delle idee di un’epoca lontana anni luce dal conformismo odierno, mi ero messo all’opera scrivendo la sceneggiatura, i dialoghi, i testi fuori campo, e individuato con precisione i luoghi delle riprese. Tutto era dettagliatamente previsto, una “sceneggiatura di ferro”, quando il regista deve attenersi scrupolosamente alle indicazioni dello sceneggiatore. Il film andò in onda in prima serata su una rete Rai. Un lungometraggio girato a Milano con una puntata a Roma per una intervista a Portoghesi.
Anche dopo l’esperienza alla Biennale e il suo trasferimento alla Sapienza di Roma, ho mantenuto i rapporti con Paolo Portoghesi coinvolgendolo in iniziative culturali a Milano, in cui ha sempre dimostrato una generosa disponibilità. Nel 2021 ha scritto la prefazione del mio Lettera a un aspirante architetto, dove le vicende di cui si fa cenno in questo scritto appaiono dettagliate in ulteriori elementi, da cui emerge l’importante ruolo avuto da Portoghesi nel Politecnico di Milano.

