UCTAT Newsletter n.81 – settembre 2025
di Andrea Bosio
QUESTIONI GENERALI
Nel libro Contro l’urbanistica (2015) Franco La Cecla si lancia in un’appassionata invettiva contro l’urbanistica contemporanea e il modo di fare architettura per la città. Nonostante quella di La Cecla possa sembrare come una missione compiuta in solitaria contro i cattivi architetti del nostro tempo, in due punti appare avere ragione: che le città sono diventate “il luogo dove si moltiplica o si depaupera la ricchezza;” e “che questa disciplina è oggi afflitta da una povertà arricchita di slogan e visioni a volo di drone o di elicottero.” [1] L’architettura contemporanea, nella sua dimensione professionale e disciplinare, presenta infatti oggi un sistema caratterizzato da una progressiva frammentazione delle scuole di pensiero e da una ridotta incidenza della dimensione collettiva nei processi progettuali e di ricerca. All’interno del contesto universitario si rileva un orientamento sempre più marcatamente individualista, finalizzato all’acquisizione di fondi e riconoscimenti, con scarsa integrazione tra ricerca teorica e applicazione progettuale. Anche nel campo professionale si osserva la tendenza alla centralizzazione attorno a figure individuali, in particolare nei casi delle cosiddette archistar, a scapito di modelli fondati sul lavoro collettivo e sulla interdisciplinarità.
Questa situazione ha determinato effetti negativi sulla pratica progettuale, rendendola malleabile e influenzabile dai soggetti privati e dalla cattiva politica, come stiamo osservando a Milano, e l’ha stravolta come strumento più rivolto alla razzia che alla cooperazione e alla germinazione di effetti virtuosi. La povertà di un pensiero critico da parte degli architetti che vada al di là della loro autopromozione ha fatto sì che per capire le nuove dinamiche urbanistiche e architettoniche ci si debba affidare all’inchiesta di giornalisti come Lucia Tozzi e Gianni Barbacetto per un’analisi specifica della realtà di Milano, e a intellettuali di altri campi del sapere, come Serge Latouche che nel suo recente saggio Il disastro urbano e la crisi dell’arte contemporanea (2025) propone un’interpretazione di quella che descrive come “la distruzione delle città in tempo di pace.” In un mondo materialmente saturo e preda di una “omnimercificazione” che oggettifica paesaggi, territori, relazioni umane e sentimenti, Latouche parla di una crisi globale della cultura, del gusto e della sensibilità, che “non crea un clima favorevole per abitare poeticamente il mondo,” ovvero per vedere, in altre parole, la realtà attraverso idee ed ideali piuttosto che solamente attraverso il filtro del profitto. [2]
L’avvilente condizione del vivere urbano contemporaneo di cui parla Latouche trova riscontro nella mortificante condizione cui vengono confinati i progettisti che rifiutano di assoggettarsi a regole e stereotipi culturali imposti da chi, nel progetto della città, intende anteporre l’esclusivo interesse economico.
Il campo dell’architettura presenta oggi marcate disuguaglianze economiche e contrattuali nella pratica della professione. Nella maggior parte degli studi professionali, in particolare nelle grandi realtà urbane, la retribuzione dei collaboratori risulta spesso inferiore ai parametri di sostenibilità economica associata a una diffusa precarietà contrattuale. A livello normativo non esistono strumenti efficaci per garantire tutele lavorative adeguate a una professione che necessita di alta competenza tecnica e solida formazione teorica. Parallelamente, le modalità di finanziamento della ricerca universitaria contribuiscono ad alimentare un modello prestazionale e produttivista, non sempre compatibile con le condizioni di benessere lavorativo dei soggetti coinvolti. Il problema ha origine, dunque, in questioni di natura economica globale che si ripercuotono all’interno della professione, trasformando il lavoro del tecnico-intellettuale in mera prestazione di manodopera. E alimentando al contempo una competizione, già nel corso degli studi universitari, che ha come unico fine un successo conferito dalla notorietà piuttosto che dalla qualità della produzione scientifica e da una vera capacità d’innovare.
La struttura organizzativa tipica degli studi di architettura risulta in larga parte fondata su modelli verticali, con limitata distribuzione delle responsabilità decisionali. Le dinamiche relazionali all’interno dei contesti di lavoro tanto professionali quanto accademici sono spesso connotati dalla ricerca della performance a scapito di una ridotta attenzione a criteri d’inclusività e di collaborazione. Cosicché se l’ambiente lavorativo è visto sempre di meno come una sorta di famiglia e sempre di più come terreno di battaglia, relazionalità privata e pubblica si confondono nella necessità di primeggiare dovunque e comunque. La scarsità di modelli relazionali alternativi a quelli descritti contribuisce a consolidare un sistema competitivo e selettivo che tende a valorizzare figure capaci di adattarsi a contesti di elevata tensione psicologica a scapito di una serena ricerca volta all’innovazione teorica e metodologica. Contraddicendo un diffuso punto di vista che indica il lavoro di gruppo come valore positivo accade oggi, in ambito professionale ma anche universitario, che prevalga una concezione del sistema delle relazioni esclusivamente come catalizzatore di occasioni opportunistiche. Fare networking non significa più dunque fare rete secondo un modello descritto bene da Goffredo Fofi -fare comunità – perché pratica unicamente volta all’affermazione personale e a una sempre maggiore visibilità. Accade allora che il prodotto di un progetto o di una ricerca risenta nella sua qualità finale di conflitti e di rivendicazioni individuali che hanno confinato ai margini il lavoro collettivo.
Una reazione a questi aspetti del lavoro è sfociata in questi ultimi quindici anni in proteste, manifestazioni e scioperi in vari paesi del mondo per denunciare le disuguaglianze di tipo economico del settore. Un esempio è fornito dalla protesta del collettivo Macao a Milano nel 2012, quando un gruppo di designer e architetti occuparono la Torre Galfa, eletta a simbolo della speculazione edilizia, con obiettivi di denuncia che partivano dalla condizione lavorativa e approdavano a temi anticapitalisti. Ma anche le iniziative più recenti avvenute a New York nel 2021 da parte dello studio SHoP Architect e in Svizzera nel 2024 da parte del collettivo di architettura Archi en colère per chiedere maggiori tutele sindacali e una rinegoziazione del contratto di lavoro.
Più sommersa è invece la battaglia contro le disuguaglianze sociali, che tuttavia ha generato anch’essa proteste che talvolta hanno svelato l’intreccio tra il campo professionale e quello universitario, come accaduto nel 2022 al Southern California Institute of Architecture, dove gli studenti hanno spinto alle dimissioni un gruppo di docenti colpevoli di abuso di potere e di peculato per aver utilizzato il loro corso di progettazione come strumento di reclutamento di giovani disegnatori per fini lavorativi privati a condizioni di sfruttamento. Tali esperienze hanno poi motivato la nascita di iniziative di advocacy e di tutela, tra cui associazioni professionali e gruppi informali attivi sul territorio nazionale e internazionale. In Italia, ad esempio, operano realtà come RebelArchitette e l’Unione Lavoratrici e Lavoratori in Architettura, che hanno come scopo la promozione di equità di genere, trasparenza contrattuale e accesso paritario alle opportunità professionali. Timidamente si è acceso anche l’interesse di ricercatori e studiosi del settore, da cui la recente pubblicazione di alcuni saggi specificatamente interessati ai problemi lavorativi nel settore dell’architettura. [3]
UNO SGUARDO FEMMINISTA
Tra questi scritti segnalati se ne trovano due che affrontano la questione lavorativa dal punto di vista dell’equità di genere. Nel libro La città femminista (2019) Leslie Kern, professoressa di geografia e ambiente alla Mount Allison University, sostiene che l’importanza di affrontare questi problemi derivi dal loro essere influenti sul progetto della città e dalla necessità di confutare “convinzioni molto radicate su come funziona la società e quali ruoli hanno al suo interno i diversi gruppi di persone.” [4] Nel saggio Il senso delle donne per la città (2023) Elena Granata, docente di urbanistica del Politecnico di Milano, aggiunge e sottolinea che nonostante la crescente partecipazione femminile ai percorsi universitari in architettura le donne risultano significativamente sottorappresentate nei ruoli apicali, sia in ambito accademico che professionale. Tale squilibrio si manifesta in forma di disparità retributiva, limitato accesso a incarichi di responsabilità, e marginalizzazione nei processi decisionali. [5] A suo giudizio la configurazione degli ambienti lavorativi e i modelli progettuali prevalenti risultano ancora influenzati da schemi relazionali e culturali tradizionali che raramente si adattano a strutture familiari o biografie professionali non conformi a modelli di dominanza maschile.
Queste affermazioni aprono un percorso di necessaria riflessione che mette in crisi alcune linee di pensiero e atteggiamenti comuni nella professione, dalla tendenza a separare la natura tettonica e tecnologica dell’architettura dalle sue intenzioni e implicazioni sociali, alla presunzione che gli architetti abbiano non solo le giuste risposte al vivere ma che si promuovano come agenti di benessere secondo criteri da loro stabiliti. Con l’invito a riflettere sul fatto che alla revisione dei criteri di valutazione delle carriere accademiche, alla ridefinizione delle tutele contrattuali nel lavoro professionale e all’adozione di modelli organizzativi più flessibili e inclusivi debba essere necessariamente introdotto un aggiornamento culturale riferito alla qualità e all’equità nelle relazioni di lavoro.
Questo approccio di genere al problema non sembra, tuttavia, escludere la possibilità che anche nei contesti in cui si raggiungono obiettivi formali di parità (accesso alle cariche, visibilità, distribuzione delle risorse) permangano modelli lavorativi e organizzativi fondati su logiche gerarchiche, produttiviste e individualiste. All’interno della professione vi si osserva non solo una certa reticenza ad ammettere l’esistenza di tali problematiche (tra le poche nobili voci critiche si ricorda Shigeru Ban), ma addirittura un frequente atteggiamento di accondiscendenza nei confronti di tale visione del lavoro e ostile verso progetti riformatori. Un atteggiamento presente anche in personalità femminili come, ad esempio Zaha Hadid che nel 2014, commentando il caso dei molti lavoratori morti in Qatar nella costruzione delle strutture da lei progettate per i mondiali di calcio del 2022, affermò di ritenere di non avere né la responsabilità né il potere di intervenire sulle condizioni sociali ed economiche dei lavoratori del settore.
La probabilità che un tale pensiero esclusivo e divisivo, che si può considerare appartenere a quello che la scrittrice Catherine Rottenberg definisce “femminismo neoliberista,” possa essere riprodotto da altri soggetti marginalizzati, innescando fenomeni di adattamento e riproposizione delle stesse strutture di potere esistenti e marginalizzanti, fa dubitare anche di progetti dagli intenti nobili e potenzialmente innovativi. L’iniziativa promossa da Rebelarchitette volta a compilare un elenco ragionato di professioniste sotto i 35 anni per promuovere una maggiore visibilità delle donne attive nel settore, priva tuttavia di una visione collettivista e di sostegno al lavoro di gruppo e all’invito alla condivisione delle esperienze, ricade ancora una volta nella ricerca individuale delle soluzioni. Anche il progetto diretto da Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro, commissionato dal Comune di Milano e pubblicato nel volume Milano Atlante di Genere (2023), che analizza la sensibilità dell’urbanistica verso le questioni di genere all’interno della città, rischia di risultare connivente con una operazione di gender washing, con il suo ridursi a fotografare i problemi della società urbana senza avanzare una critica verso il conformismo dei professionisti (tra i quali troviamo le due autrici) chiamati a occuparsi della costruzione della città. [6]
In conclusione possiamo affermare che se un approccio all’architettura condotto privilegiando il tema del genere apre a temi sociali e a argomenti disciplinari di grande rilevanza fino a questo momento colpevolmente trascurati, resta aperta la questione del mondo del lavoro dell’architettura e di una vera rivoluzione nei rapporti di lavoro. Riflessione che conduce alle questioni poste da Chiara Bottici nel suo libro Manifesto anarcA femminista (2022) e riferite alla necessità di una riconfigurazione in senso orizzontale degli ambienti di lavoro, con l’obiettivo di cancellare l’organizzazione gerarchica, la diseguaglianza economica, la distinzione di genere e i pregiudizi nella divisione dei ruoli. [7] E di prevenire, in ultimo, conflitti di interesse, favoritismi, discriminazioni e prevaricazioni nate anche da un rapporto poco trasparente tra relazioni private e di lavoro che sta diventando sempre più evidente e oggetto di critica in numerosi campi lavorativi. E che investe l’architettura in quanto campo nella cui storia, passata e presente, ci si imbatte spesso in veri e propri team affettivo-lavorativi costituiti da coppie amorose o gruppi di amici.
VERSO NUOVE RELAZIONI LAVORATIVE
Lungi tuttavia dal voler riscrivere la storia dell’architettura o dall’impuntarsi per moralismo o gelosia contro questi sodalizi affettivi nati durante lo studio o la pratica dell’architettura e sicuramente influenzati dalla dedizione, dalla passione e dall’impegno condiviso, bisogna però riflettere in maniera franca e onesta su quanto la relazionalità privata influenzi le attività lavorative e decisionali collettive. E, riconoscendo la fondamentale differenza tra le sfere relazionali dell’amore e dell’affetto amicale dalla sfera delle relazioni professionali, bisognerebbe assicurarsi che le prime non interferiscano con le seconde, al fine che l’inevitabile coinvolgimento emotivo esclusivo che può scaturire tra due o più persone non mini l’equità di trattamento verso gli altri colleghi o dipendenti e non comprometta la trasparenza del lavoro stesso, creando squilibri di potere nei casi migliori, o veri e propri soprusi in quelli peggiori.
Ciò detto, non si nega, anzi, si incoraggia, che nell’ambito della progettazione architettonica, così come in ambienti di formazione e ricerca, si costruiscano solide relazioni interpersonali, da mantenere però entro i confini dell’attività lavorativa e da sviluppare in termini di una co-responsabilità verso l’obiettivo lavorativo comune. In tali termini pensare ad una nuova prospettiva lavorativa delle relazioni implicherebbe il riconoscimento del team lavorativo come unità sociale complessa, nella quale le dinamiche affettive, se adeguatamente comprese e gestite, possono rappresentare un fattore positivo di coesione, motivazione e responsabilità condivisa. [8] Ciò richiede l’integrazione di competenze trasversali nella formazione dei professionisti, inclusa la capacità di gestione dei conflitti, di ascolto attivo e di costruzione di ambienti di lavoro il meno culturalmente e socialmente omogenei possibile. Per costruire un modello lavorativo più “dolce” bisognerebbe dunque promuovere una sinergia tra i due mondi della professione e dell’università in maniera da impedire una loro tendenza a chiudersi in sé stessi e a indurirsi nelle loro dinamiche interne.
In questo senso lo strumento del tirocinio, se adeguatamente strutturato ed economicamente remunerato, può rappresentare un primo momento di avvicinamento tra il mondo professionale e quello accademico. Per sganciarsi tuttavia dall’attuale logica transazionale e opportunistica – vantaggiosa per chi lo conduce perché generalmente a costo zero, vincolante al compimento degli studi per chi lo esperisce- il tirocinio dovrebbe essere ripensato come uno strumento complesso, rappresentato principalmente dall’esperienza di apprendistato in studio o in azienda, ma fatto anche di momenti di apprendimento di soft skill e di altre competenze extra disciplinari e trasversalmente utili, condotte congiuntamente da entrambe le parti coinvolte. Questa pratica di team building, arcinota nelle grandi aziende ma di raro utilizzo in studi di progettazione e università, se integrata nei programmi didattici universitari e come attività di formazione professionale obbligatoria stimolerebbe un maggiore scambio tra ambienti universitari e professionali, e favorirebbe dunque l’opportunità per la costruzione di nuove dinamiche relazionali lavorative.
Competerebbe ad Istituzioni come le università ma anche gli ordini professionali di assumersi il difficile compito, oltre a quello logistico, di modulare la relazione tra le diverse parti, garantendo equità di trattamento e monitorando lo sviluppo di un progetto formativo condiviso e di rilevanza disciplinare, attraverso la costruzione di un percorso comune per tirocinante e tutor a seconda delle esigenze e delle necessità specifiche. Riprendendo il pensiero maieutico e assolutamente anarchico di Pier Vittorio Tondelli, che, nell’intento di scovare “giovani talenti” della letteratura, si impegnava a leggere ogni singola lettera e brano arrivatogli, dando ascolto a tutti, anche a quegli aspiranti scrittori incapaci di dare visibilità da soli al proprio lavoro o bisognosi di qualche consiglio e correzione di rotta.
Il tirocinio sarebbe così concepito come parte integrante non solo del percorso di studi, ma soprattutto di una formazione relazionale etica ed empatica al lavoro. Favorendo così un modo orizzontale sia di lavorare che di insegnare che forse gioverebbe alla cultura disciplinare dell’architettura, così povera oggigiorno di teorie, di contraddittori e di pensieri condivisi, e al mondo del lavoro, che sarebbe nutrito di nuove figure professionali scelte non solo per capacità relazionale o intraprendenza individuale, ma in luce di specificità tecniche e caratteriali emerse attraverso il dialogo e la cooperazione. Con la definizione in ultimo di un’architettura diversa, perché pensata attraverso il principio di collaborazione collettiva piuttosto che di protagonismo individuale. In contrasto con un modello lavorativo competitivo e relazionalmente aggressivo che Luca Beltrami Gadola, in un suo editoriale per il blog Arcipelagomilano, definisce “capitalismo relazionale,” la cui pratica è strettamente connessa alla conscia distruzione del bene pubblico architettonico e urbanistico della città per fini privati. [9]
BIBLIOGRAFIA
[1] Franco La Cecla. Contro l’urbanistica: la cultura delle città (Einaudi: Torino, 2025).
[2] Serge Latouche. Il disastro urbano e la crisi dell’arte contemporanea (Elèuthera: Milano, 2025).
[3] Si segnala: Peter Raisbeck. Architecture as a Global System (Emerald Publishing: Leeds, 2019); Peggy Deamer. Architecture and Labor (Routledge: Abington, Oxfordshire, 2020); Igea Troiani. Work-Life Balance in Architecture: Playing the Game (Routledge: Abington, Oxfordshire: 2024).
[4] Leslie Kern, trad. Natascia Pennacchietti. La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini (Treccani. Roma, 2022, ed. originale 2019).
[5] Elena Granata. Il senso delle donne per la città. Curiosità, ingegno, apertura (Einaudi: Torino, 2023).
[6] Florencia Andreola, Azzurra Muzzonigro. Milano Atlante di Genere (Letteraventidue: Siracusa, 2023).
[7] Chiara Bottici. Manifesto anarcA femminista (Laterza: Bari, 2022).
[8] Si rimanda alle teorie contenute in: Ben Casnocha e Reid Hoffman. The Alliance: Managing Talent in the Networked Age (Harvard Business Review Press: Brighton MA, 2014).
[9] Luca Beltrami Gadola: “Milano e il capitalismo funzionale: la fine della democrazia,” in Arcipelago Milano, 19 marzo 2024, https://www.arcipelagomilano.org/archives/62986.




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