L’equilibrio dell’architettura

UCTAT Newsletter n.64 – FEBBRAIO 2024

di Matteo Gambaro

Il 5 maggio del 2017, con Marino Ferrari, abbiamo organizzato, nell’Aula Magna Paolo Perucchetti del municipio di Arona, l’incontro “Vivere e Custodire il paesaggio. Il paesaggio, costruzione poetica o forma complessa dei bisogni”. L’iniziativa è stata inserita nell’ambito del secondo appuntamento di “Provocati alla Responsabilità” promosso dall’associazione Partecipazione e Solidarietà di Arona.

Si è trattato di un momento di discussione con Marino Ferrari e Fabrizio Schiaffonati sul tema del paesaggio, prendendo spunto dalle lore recenti pubblicazioni: “La carta ambientale” di Ferrari[1] e “Paesaggio italiano. Viaggio nel paese che dimentica” di Schiaffonati[2]. Due libri molto diversi accomunati dal tema condiviso del paesaggio. Ferrari ha proposto una metodologia, definita Carta Ambientale, per la regolazione degli interventi progettuali; mentre Schiaffonati una lettura critica del progressivo decadimento del paesaggio italiano, fisico e culturale.

Al termine della presentazione abbiamo conosciuto Giannino Piana, presente tra il pubblico; l’incontro è stato fugace e limitato a poche battute sulla manifestazione appena conclusa, con l’impegno di organizzare un altro momento di approfondimento e confronto sul tema del paesaggio . Piana è stato un importante teologo morale italiano, docente di etica cristiana e presidente dell’Associazione Teologica Italiana per lo studio della Morale.  Lo scorso anno ha pubblicato per Interlinea un piccolo libro intitolato “Umanesimo per l’era digitale: antropologia, etica, spiritualità”[3]. Un testo che pone l’attenzione sulle radicali modificazioni determinate dagli avanzamenti della scienza e della tecnica nella vita dell’uomo. Ricadute che incidono non solo sulle abitudini e sui significati delle azioni dell’uomo ma anche, scrive Piana, sulla coscienza mettendo in discussione la stessa identità personale. È l’ultima pubblicazione di Piana, quasi un manifesto lasciato alle generazioni future.

La lettura di questo libro mi ha subito stimolato un parallelismo con l’architettura e portato alla mente alcuni ricorrenti ragionamenti di Vittorio Gregotti sullo spaesamento determinato appunto dalle ricadute di quella che lui chiamava tecnoscienza: le conoscenze scientifiche applicate alla tecnologia. Un termine che faceva mettere in guardia e sulla difensiva Gregotti perché, ribadiva, portava all’adozione fuori controllo delle innovazioni scientifiche tradotte in manufatti avulsi dai contesti ed estranei ai caratteri delle nostre città. Queste costruzioni “senza senso”, sempre più diffuse, erano per Gregotti il segno inequivocabile della perdita di eticità dell’architettura.

Che cosa è etico in architettura? L’approccio ecologico e le soluzioni costruttive ambientalmente compatibili, le tecnologie appropriate, come scriveva già Virginia Gangemi[4]; oppure la frugalità, molto di moda in questo ultimo periodo e oggetto di convegni e dibattiti, in particolare organizzati dagli Ordini professionali (un’ampia rassegna è stata organizzata dall’Ordine degli Architetti di Roma lo scorso anno); oppure ancora il basso costo costruttivo, contrapposto all’architettura commerciale braccio operativo della speculazione edilizia. Ma anche le ricadute sociali riferite al tema della casa, con l’offerta di manufatti rivolti a chi non può accedere all’abitazione sul libero mercato o il trasferimento di competenze e progettualità in paesi in via di sviluppo; la partecipazione dei futuri utenti al processo progettuale oppure l’architettura circolare life cycle che attiva processi completi virtuosi: dalle materie prime alla dismissione e riuso. E ritornando a Gregotti, è etica anche l’estetica dell’architettura che con le forme, i materiali e le soluzioni tecnologiche determina l’immagine dei paesaggi urbani, e delle città, che accompagnano la vita quotidiana degli uomini?

Salvatore Settis, in una pubblicazione di qualche anno fa dedicata a Venezia e intitolata “Se Venezia muore”[5], sul tema della responsabilità dell’architetto ha chiamato in causa il giuramento di Ippocrate, prestato dai medici prima dell’avvio della professione, e ha proposto una trasposizione nell’ambito dell’Architettura. Partendo dal corposo trattato di Vitruvio “De architectura”, ha ipotizzato che «potremmo prendere, uno per uno, i requisiti dell’architetto elencati e argomentati da Vitruvio, e costruirne un “giuramento di Vitruvio”, facendone il perfetto equivalente del giuramento di Ippocrate».                                             

Il “giuramento di Vitruvio” sarebbe sufficiente per attribuire nuove antiche responsabilità morali all’architettura? Non ho la risposta però sono convinto che qualcosa stia avvenendo, ci sono segnali, ancora deboli, di ripensamento e di messa in discussione della deriva estetizzante e del richiamo al dovere civico della professione dell’architetto, anche se la distanza che esiste tra gli studiosi e i cittadini è molto ampia.

Probabilmente manca un’etica condivisa che sappia costituire un riferimento solido e soprattutto, ritornando a Piana e agli avanzamenti della scienza e della tecnica, manca «un approccio equilibrato che evidenzi potenzialità e limiti, senza incorrere in sterili tentazioni di superficiale ottimismo o di pregiudiziale rifiuto».

Quartiere Sant’Ambrogio I, Arrigo Arrighetti, Eugenio Gentili Tedeschi, Nicola Righini, Egidio Dell’Orto, Milano 1964-66.

[1] Marino Ferrari, La carta ambientale, Maggioli editore, Sant’Arcangelo di Romagna 2015.

[2] Fabrizio Schiaffonati, Paesaggio italiano. Viaggio nel paese che dimentica, Lupetti, Milano 2016.

[3] Giannino Piana, Umanesimo per l’era digitale: antropologia, etica, spiritualità, Interlinea, Novara 2022.

[4]Virginia Gangemi, Architettura e tecnologia appropriata, Angeli, Milano 1985.

[5] Salvatore Settis, Se Venezia muore, Giulio Einaudi Editore, Torino 2014.

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