Liberi di costruire

UCTAT Newsletter n.69 – luglio 2024

di Matteo Gambaro

Una sera della settimana scorsa stavo cercando nella libreria dello studio il testo di Jean Clair “L’inverno della cultura”. L’idea era di scrivere un articolo sulla decadenza dell’architettura contemporanea, prendendo spunto della tesi di Clair incentrata sulla mercificazione e lo snaturamento della cultura e dell’arte, finché mi sono imbattuto in un libro in brossura di colore verde scuro, senza immagini in copertina, molto sobrio e austero, intitolato “Liberi di costruire”, scritto da Marco Romano nel 2013.

Conobbi Marco Romano proprio in quegli anni e per un certo periodo ci furono diverse occasioni per incontrarsi e per ragionare in particolare sul paesaggio urbano. Lo invitai nell’inverno di qualche anno più tardi a fare una relazione, molto partecipata, in occasione dell’uscita del suo libro “Le belle città” nell’ambito di un ciclo di incontri organizzati con il Circolo dei Lettori di Novara. Terminata la serata, durante il viaggio di ritorno in auto, discutemmo della situazione delle città italiane e di Milano in modo specifico, delle trasformazioni incontrollate determinate da un lato dagli appetiti bulimici degli operatori immobiliari e dell’altro da un’urbanistica incapace di determinare scelte chiare e visioni condivise. Ma soprattutto discutemmo di come le leggi urbanistiche, con i concetti di pianificazione e previsione, abbiano determinato un controllo dell’attività edilizia basato su norme e regole di tipo descrittivo, tradotte graficamente in zonizzazioni, destinazioni funzionali e indici di edificazione. E di come tale logica abbia progressivamente escluso, nei fatti, la possibilità di progettare secondo le regole tridimensionali dell’architettura, contraddicendo l’approccio morfologico che ha caratterizzato secoli di storia, favorendo invece la città degli indici e delle “quantità”. Concordammo che gli esiti di questo approccio, nel caso milanese, fossero visibili e “misurabili” inequivocabilmente: frammentazione, disomogeneità degli interventi, abbassamento della qualità del costruito, carenza di spazi pubblici e in generale perdita di qualità e di bellezza dei luoghi.

Ci salutammo con la promessa di dare seguito a quella chiacchierata.

Spesso queste promesse rimangono nelle intenzioni senza però produrre esiti concreti. Non in questo caso e così, durante le vacanze natalizie, pensai a come valorizzare i contributi del ciclo di incontri presso il Circolo dei lettori di Novara. Da quella prima esperienza nacque una pubblicazione dedicata al paesaggio contemporaneo, con testi, oltre che del sottoscritto, di Fabrizio Schiaffanti, Paolo Zermani e Marco Romano. Un libricino pubblicato nella serie “Architettura” di Interlinea intitolato “Costruire il paesaggio. L’architettura italiana tra contesto ambientale e globalizzazione”.

Il testo di Romano ritorna sul tema del paesaggio urbano con la descrizione morfologica e tipologica della città di Novara: un percorso che incomincia dalla stazione e percorre le principali vie, piazze, viali, parchi e spazi pubblici, descritti facendo emergere le ragioni della loro costruzione avvenuta in quel determinato luogo e con quelle caratteristiche.  Un passaggio già espresso anche nel libro “Liberi di costruire”: “Per secoli le città hanno visivamente ‘mostrato’ le tensioni, i conflitti e le diverse istanze di chi le aveva abitate, lasciandole scolpite nella tessitura delle strade e nell’architettura delle abitazioni. Nell’ultimo secolo ha invece preso il sopravvento il concetto di pianificazione, l’idea che fosse vantaggioso stabilire a priori in quali direzioni e con quali modalità una città dovesse svilupparsi, in vista di un fine considerato – dall’autorità necessario al benessere della cittadinanza”.

Marco Romano esprime un messaggio fortissimo, apparentemente spregiudicato e provocatorio, ma in realtà molto rigoroso e documentato, ricco di esempi e citazioni. Dice cose che probabilmente nessuno aveva mai espresso in modo così articolato e chiaro in un saggio lungo. Si interroga sui diritti e sulle regole codificate e più in generale sul diritto alla libertà: “Ridurre i desideri degli uomini a diritti codificati nella dottrina della pianificazione, imposti da governi illuminati e pedagogici a cittadini riottosi e ignari del loro stesso bene, significa cancellare quello che li rende uomini: la diversità dei loro individuali progetti di vita”.

L’argomento mi sollecita una riflessione su Milano, anche alla luce delle recenti vicende con rivolti giudiziari. Come era immaginabile si sono costituite due fazioni: chi ritiene che l’azione della magistratura, correttamente, intervenga a correggere una anomalia interpretativa, milanese e lombarda, delle leggi che ha portato allo stravolgimento della città; e chi invece, gli operatori del settore (immobiliaristi, costruttori, professionisti, tecnici, ecc.), la ritiene una interferenza sbagliata e dannosa perché determina una impasse interpretativa pericolosa con ricadute economiche pesanti. Tra i due si posizionano i funzionari e i dirigenti degli uffici tecnici comunali che chiedono chiarezza ed hanno timore di ricadute giudiziarie dirette.

Stante questa situazione, forse è giunta l’occasione irripetibile per ripensare le regole e le modalità con cui si costruisce e ricostruisce la città, con strumenti da un lato più aperti e liberi e dell’altro con regole morfologiche condivise e ineludibili. È il momento per tornare a pensare la città nella sua complessità, esito di interventi armoniosi e morfologicamente compatibili, belli e a misura d’uomo in cui gli individui si sentano parte della società in cui vivono. E ancora, è l’occasione di ritornare alle regole fondamentali e razionali per la progettazione della città: giuste distanze tra gli edifici, continuità costruttive, cortine edilizie dove necessario, densità controllate, spazi pubblici adeguati alle esigenze delle persone con piazze, viali alberati, parchi che devono tornare a costituire l’ossatura della città pubblica. E forse, è anche ora di dire esplicitamente che l’edilizia non può essere un asset finanziario, ma deve tornare ad essere un settore produttivo a servizio delle persone per garantirgli condizioni di vita adeguate e dignitose. Gli edifici devono ternare ed essere costruiti per dare risposata a specifiche domande emergenti. Sembra scontato ma la contemporaneità dimostra tutt’altro.

Progetto Cadorna – Pagano, Gregotti Associati, Milano, 1982-85 (http://milanocittaimmaginata.it/it/progetti/piazzale-cadorna)
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